Capitolo 1 - Il mostro è una principessa
Sono le otto meno dieci di lunedì mattina - l'orologio col gufo non mente - e la mia vita sta andando a scatafascio. Non che prima di questo filasse tutto liscio, sia chiaro, ma quantomeno avevo delle certezze: l'amore che mia madre nutriva per me, per dirne una. Le mie origini, per dirne un'altra. Prima che lo chiediate, no: non ho scoperto di essere stata adottata, anche se date le circostanze l'avrei preferito di certo.
"Daphne, ti prego" sospira mia madre, continuando a bussare alla porta. "Non puoi stare rinchiusa lì dentro per sempre."
Oh, si sbaglia di grosso. Non esiste nessuno di più ostinato di una diciassettenne infuriata, e si dà il caso che io stia attualmente fumando di rabbia. Rimarrò qui fino alla fine dei tempi, se necessario.
"Esci e parliamone."
"Di cosa? Di come mi hai mentito per tutta la vita, mamma?" Schiocco la lingua, restandomene caparbiamente sdraiata con le braccia conserte. "Magari hai mentito pure sul fatto di essere mia madre. A questo punto non mi stupisco più di niente, sai?"
"La smetti di dire queste cavolate?" La maniglia si abbassa un paio di volte, ma la chiave svolge bene il proprio dovere e la porta resta chiusa. "Aprimi, Daphne, non fare la bambina."
"Tu mi hai trattato come tale per tutti questi anni, perciò mi sto adeguando."
Lo so che posso sembrare cattiva, ma credetemi, se lo merita.
La sento sospirare, e non fatico a immaginarmi la ruga sottile che si scava tra le sue sopracciglia. "Era solo per il tuo bene."
Non le rispondo nemmeno, perché la verità è che non proprio che dirle. Nascondermi una parte tanto importante del mio passato era per il mio bene? Farmela scoprire così, di punto in bianco, per di più di lunedì mattina, era per il mio bene? Okay, di questo non ha colpe dirette, c'è da riconoscerlo. Ma se non avesse deciso di infilarsi sotto la doccia proprio un attimo prima che arrivasse il postino, e io non avessi dovuto ritirare quella stupida raccomandata, a quest'ora non ci troveremmo in questa situazione del cavolo. Io di certo ci ho messo del mio, aprendo la busta. Ma che altro dovevo fare? C'era il mio nome, sopra, e io non ricevo mai posta. Per di più non era una delle solite buste che trovo accumulate nello svuotatasche all'ingresso, una di quelle della compagnia telefonica che minaccia di staccare la linea se le bollette in sospeso non vengono saldate entro ventiquattro ore: quella era una busta elegante, in carta spessa, con scritte in rilievo e un pomposo sigillo in ceralacca smeraldo, e recitava proprio il mio nome. Niente errori, ne sono certa: mentre risalivo le scale per tornare al nostro appartamento, mi sono assicurata che la destinataria della lettera fossi proprio io. Non ci sono molte altre Daphne Altavilla che risiedono al numero cinque di Via Leone X a Roma, oltre me, per cui il dubbio non si è posto.
"Amore, dai... Possiamo parlarne?"
La voce di mamma mi strappa ai miei turpi pensieri, ed è un bene, perché non sono pronta ad affrontare i ricordi che vengono dopo.
"Soltanto se mi dici che è tutto uno scherzo" rispondo, continuando a fissare ostinatamente il soffitto. Appiccicate lassù ci sono ancora alcune stelline di plastica fosforescente, insieme ai residui di uno Skifidol blu che ho catapultato lì per errore quando avevo otto anni.
"Vorrei che lo fosse, Daphne, credimi." Sospira profondamente. "Lo vorrei tanto."
A questo punto uno sprazzo di curiosità riesce a fare breccia nel muro di rabbia che ho eretto dentro di me. Della lettera non ho capito molto, solo quel tanto che è bastato per distruggere la vita già traballante di una diciassettenne sfigata, e adesso ho qualcosa come un milione di domande a cui non riesco a dare risposta. Sapevo che avrei dovuto leggerla più attentamente, invece di lanciarla addosso a mia madre in un accesso di rabbia.
"D'accordo, non dobbiamo parlarne adesso" riprende lei, quando capisce che non le risponderò. "Anche perché è già tardissimo. Che dici di dopo scuola? Ti passo a prendere e ci andiamo a prendere un pezzo di pizza da Pasquale."
La scuola! Con tutto questo casino mi ero scordata del mio inferno personale, perché per la prima volta in vita mia potrei dover affrontare qualcosa di peggio dei soliti dispetti di Nicole Gherardi e compagnia bella.
"Forse oggi dovrei restare a casa" tento, pur sapendo quante poche possibilità abbia di spuntarla. "Sai, alla luce degli ultimi eventi..."
"Manca una settimana, Daphne. E poi oggi non avevi il recupero di storia?"
Ecco, appunto. Lo sconforto mi aggredisce con violenza mentre mi trascino verso l'armadio, rimasto aperto quando il postino ha suonato, circa mezz'ora fa. Per una volta che mi ero alzata in tempo...
Scelgo il solito paio di jeans e una maglietta larga che dissimula le mie curve, il tutto abbinato a un paio di vecchie scarpe da tennis. Lascio i capelli sciolti a coprirmi il viso, come se gli occhiali non facessero già abbastanza a tale scopo, agguanto lo zaino da sotto la scrivania ed esco in corridoio. Mamma è ancora qui, avvolta nell'asciugamano blu e coi capelli che ormai iniziano ad asciugarsi, e mi guarda con un'espressione a metà tra la paura e il dispiacere.
"Sto andando, è tardi" la liquido, prima che possa dire qualsiasi cosa. "Ci vediamo dopo".
Uscendo di casa la vedo: la lettera, aperta e spiegazzata, giace immobile sul pavimento dell'ingresso. All'inizio, leggendo le prime righe, ho pensato a uno scherzo di Nicole: non sarebbe stata la prima volta che me ne combinava una tanto grossa, nossignore. Ma poi mamma è uscita dal bagno, e quando mi ha visto con la lettera in mano è diventata così cerea che mi stupisce non sia collassata sul colpo. E allora ho capito: tutte quelle assurdità non erano frutto di una burla, o magari di un errore di smistamento postale, erano la verità. La mia verità, quella che mamma mi ha tenuto nascosta per tutti questi anni.
La croce psichedelica della farmacia che mi appresto a sorpassare segna le otto e un minuto, e visto che alla prima ora ho quella strega della Bonura, aumento il passo. Quando sbuco in Piazza Giureconsulti sto praticamente correndo, rischiando di farmi investire da un 905 che è appena partito dal capolinea; ignoro gli improperi dell'autista e attraverso lo stradone momentaneamente deserto, raggiungendo finalmente la discesa per l'inferno. Corro a perdifiato lungo Via Federico Patetta, un percorso talmente ben scolpito nella mia mente che non devo nemmeno guardare a terra per evitare le buche, e quando finalmente imbocco Via Stampini mi concedo di rallentare un po' il passo. Ormai sono le otto e dieci e in cortile non c'è più nessuno, ma almeno i cancelli sono ancora aperti e io non devo umiliarmi suonando il citofono.
Entro nell'atrio in scivolata e, sfuggendo al controllo delle bidelle in segreteria, sguscio oltre le porte che conducono alla zona delle aule. Per fortuna quest'anno ci hanno messo al pianterreno, perché se dovessi farmi anche due rampe di scale probabilmente non arriverei a vedere una nuova alba.
La porta della IV F è chiusa, segno che la Bonura è già dentro, ma per una volta busso senza nemmeno pensarci: stamattina le possibili ramanzine della mia terribile professoressa di francese non mi spaventano neanche un po'. Magra consolazione.
"Mi scusi il ritardo, prof" esordisco piatta, spingendo la porta in avanti. La richiudo alle mie spalle e vado a sedermi al mio posto, terza fila a sinistra, sotto gli sguardi insistenti dei miei compagni di classe.
"Altavilla, è bello vedere che hai deciso di unirti a noi" replica lei, tamburellando con le dita sul suo libro aperto. "Vorrei capire com'è possibile che tu sia sempre in ritardo quando abiti a un quarto d'ora da qui."
Le rivolgo uno sguardo veloce mentre tiro fuori libro e quaderno di letteratura. "Mi dispiace. C'è stato... un inconveniente."
E per la prima volta in quattro anni, la solita scusa che rifilo ai professori per giustificare i miei costanti ritardi ha un fondo di verità. Solo un fondo, perché più che un inconveniente la mia è una catastrofe.
"Spero non sia successo qualcos'altro a tua madre. Solo quest'anno ha avuto gli orecchioni, la varicella, la mononucleosi... Una vera ecatombe, povera donna!"
Le risatine dei miei compagni di classe, una volta tanto, mi lasciano del tutto indifferente. "Lei sta bene. Ho solo ricevuto brutte notizie."
Alice, seduta al mio fianco, mi allunga una ginocchiata. Io le mostro il pollice alzato sotto il banco, per assicurarle che nessuno è in pericolo di vita. Solo la mia reputazione.
"La prossima volta che arrivi in ritardo mando a chiamare tua madre. E adesso torniamo a noi."
Mentre la prof riprende a spiegare Rousseau in tono monocorde, io scarabocchio un 'dopo ti dico' sul margine del mio quaderno perché Ali lo legga. In realtà non so nemmeno se voglio parlargliene, ma è l'unico modo per tenerla un po' a bada.
Alice è arrivata a scuola all'inizio di questo quadrimestre, dopo che i genitori si sono trasferiti da Verona per motivi di lavoro, e avvicinarci è stata la cosa più naturale del mondo: lei era l'ultima arrivata, io lo zimbello della classe... Insomma, diventare amiche è stato inevitabile. Non abbiamo molto in comune, in realtà: Alice probabilmente non ha mai letto un libro di narrativa in vita sua, non sa cosa sia una serie TV e fa tanto di quello sport che presto o tardi la vedrò alle Olimpiadi. Oh, e va benissimo a scuola. Ma le differenze passano in secondo piano quando si tratta di guardarsi le spalle a vicenda, e Alice è stata davvero un dono dal cielo, quest'anno.
Trascorro il resto dell'ora a scarabocchiare appunti sui margini del libro, ma la mia mente è altrove: sono stata una stupida a non lasciare che mamma mi spiegasse come stanno davvero le cose, stamattina. Magari ho frainteso tutto, magari ho letto male e sono saltata a conclusioni affrettate. L'ipotesi non è poi così remota: stanotte ho fatto le tre, per finire l'ultimo episodio della quinta stagione di Supernatural, e quando alle sette mi sono dovuta alzare non ero proprio l'incarnazione della lucidità.
La campanella suona, strappandomi alle mie minuziose riflessioni, e Alice mi tira un'altra ginocchiata. "Allora? Che è successo?"
"Non ora" rispondo a mezza bocca, mentre la Verlecchi entra in classe e si sistema alla cattedra con un borbottio. "E non qui. All'uscita ti diamo uno strappo fino a Cornelia, tanto mi viene a prendere mamma."
"Quelle con l'insufficienza qui" dice la prof, senza nemmeno alzare gli occhi dal registro. "Katia, Beatrice e Daphne. Avanti, in fretta, che dopo voglio finire la settima unità."
Trascinando la mia sedia verso la cattedra, mi rendo conto di non essere nemmeno in ansia: cos'è la prospettiva di un debito in storia, considerando ciò che ho scoperto stamattina?
"Cominciamo subito" riprende, quando tutte e tre ci siamo sistemate con le nostre sedie attorno alla cattedra. "Parliamo di Napoleone. Katia, inizia tu."
Tre colpi alla porta interrompono l'interrogazione prima ancora che possa iniziare, e un attimo dopo la testa di Lucrezia fa capolino in classe. "Scusi per il disturbo, professoressa, ma è arrivata una lettera per Daphne Altavilla. C'è?"
Quando vedo la busta color crema tra le sue mani quasi mi strozzo: non ci posso credere, è identica a quella che è arrivata a casa.
"Eccomi" balbetto, alzandomi di scatto dalla sedia. Prendo la lettera e la guardo come se potesse mettersi a decantare il proprio contenuto, neanche fosse una strillettera. "Grazie... Grazie mille."
La bidella mi sorride e, fatto un cenno alla prof, se ne va.
"Che cos'è?" si intromette subito Nicole, sporgendosi dal suo banco in fondo alla classe. "Una lettera di bocciatura?"
Io torno a sedermi e mi infilo la busta tra le cosce, al sicuro, poi le rivolgo un'occhiata veloce. "Solo una cosa di mio padre."
Nicole sghignazza come una iena, scuotendo i lunghi capelli biondi. "Ma non era in galera?"
Lo credevo anch'io, fino a più o meno due ore fa. E detto in totale onestà, l'avrei anche preferito.
"Basta così, ragazze" ci riprende la Verlecchi, battendo una matita sul bordo della cattedra. "Katia, continua pure."
Non sento neanche una parola di quello che dice, troppo presa a rimuginare sulla lettera che stringo tra le cosce. Parte di me vorrebbe farla a pezzi tanto piccoli da renderla irriconoscibile, ma al tempo stesso fremo dalla voglia di leggerla da cima a fondo. Dentro dovrà pur esserci la risposta a una delle tante domande che non vogliono lasciarmi in pace, no?
"Daphne?"
Mi riscuoto dal mio stato di torpore e guardo la professoressa, che nel frattempo mi sta osservando con le sopracciglia aggrottate.
"Tutto bene?"
Mio malgrado mi ritrovo ad annuire, sforzandomi pure di risultare convincente. "Sì, mi scusi. Qual era la domanda?"
La prof fa un cenno verso l'angolino della lettera che sbuca tra le mie cosce. "Forse dovresti prima leggerla. Ha l'aria importante."
"Può aspettare" insisto io, la voce strozzata e tremante. "Davvero, non..."
"E piantala di fare la preziosa." Beatrice si allunga nella mia direzione e sfila la lettera dal suo nascondiglio, allontanandosi poi con una risatina. "Siamo tutti curiosi."
Nicole, che nel frattempo si è alzata e l'ha raggiunta, le toglie la lettera di mano e mi rivolge uno sguardo di sfida. "Non avrai mica dei segreti, Daffy?"
Mi alzo di scatto dalla sedia e cerco di raggiungerla, ma lei aggira la fila centrale dei banchi per non farsi prendere. La sta aprendo, realizzo con orrore, e le basterà un'occhiatina alla prima riga per scoprire ciò che ho scoperto io. Questa è la fine.
"Ragazze, ora basta!" esclama la prof, alzandosi in piedi. "Nicole, ridà la lettera a Daphne e torna al tuo posto. Ma dove siamo finiti, in una scuola elementare?"
Sollevata dall'intervento della Verlecchi torno a voltarmi verso Nicole, ma a questo punto il cuore mi sprofonda nello stomaco: ha la lettera in mano e, a giudicare dalla sua espressione, oserei dire che ha letto quella famosa prima riga.
"Oh, mio Dio" ridacchia infatti, guardandosi attorno con le sopracciglia inarcate. "Gente... Il mostro è una principessa!"
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