🖤Due🖤
«Serve una mano?»
Mi prende un colpo, mollo la maniglia di scatto e perdo l'equilibrio. Per poco cado, ma una mano calda mi prende dalla spalla, impedendomi di finire stesa sull'asfalto.
«Ehi, attenta», una voce avvolgente come il sole d'estate mi raggiunge, vicinissima al mio orecchio.
Volto d'istinto la testa e mi ritrovo davanti una felpa giallo canarino.
Alzo lo sguardo oltre il colletto, lungo le linee chiare che segnano i muscoli del collo tesi, su, fino al pomo d'Adamo, il mento squadrato, le sottili labbra color pesca un poco dischiuse, e mi rendo conto troppo tardi di essere di fianco a uno sconosciuto.
Inspiro senza volerlo una boccata d'aria che sa di muffin al cioccolato, sussulto e balzo indietro, appiattendomi contro l'auto di mia zia.
«Dio...» soffio, con una mano stretta sul petto. Il cuore mi è schizzato in gola e lo sento battere veloce sotto la cassa toracica.
«Scusa.» Il soggettone che ha tentato di farmi venire un infarto mi guarda con aria imbarazzata. Se per me o per lui, non ne ho idea.
«Non volevo spaventarti», continua, allungando una mano verso di me. «Daniel Carter, vivo qui davanti.» Con un cenno del capo, indica una villetta identica alla mia sull'altro lato della strada. «Sei la nuova vicina? Se rispondi fingendo di non avermi visto i piedi mi fai un grandissimo favore.»
Resto in silenzio, perché non ho recuperato ancora abbastanza raziocinio da inventarmi cosa dire, e i miei occhi cadono ovviamente sull'unica cosa su cui riesca a concentrarmi: i suoi piedi.
Sotto l'opinabile tuta gialla, porta un paio di crocs viola glitterate che calzano palesemente troppo piccole.
È una delle cose più terrificanti che abbia mai visto in vita mia.
Lui segue il mio sguardo e sospira, mettendosi una mano sulla faccia. «Stavo buttando la spazzatura e...»
«Iris Reed.» Lo interrompo, prima che attacchi una filippica della quale m'importa gran poco.
Lui tentenna. «Oh, certo, sì. Piacere.» Si spegne un istante più del dovuto, poi le punte delle orecchie gli si colorano di rosso e riparte. «Bel nome, Iris. Come il...»
«La dea greca.»
Mi godo la sua espressione persa mentre boccheggia confuso. C'è qualcosa di estremamente sadico, e soddisfacente, nel rispondere così ogni volta.
Vedere il panico nello sguardo della gente mentre l'immagine del fiore appassisce dalle loro menti, è qualcosa che mi riempie sempre di soddisfazione.
Detesto l'idea di essere associata a una pianticella da vaso. Le persone ragionano a stereotipi: presentati come un fiorellino delicato e quello resterai fino alla tomba.
Preferisco la divinità.
Allungo la mano, pronta a ricevere in risposta il solito sguardo condiscendente di chi non capisce ma è troppo cortese per mettersi a discutere.
Invece lui inclina giusto un poco la testa, mentre uno scintillio che non mi piace per nulla gli si accende nello sguardo.
«Stavo per dire come il fiore», sorride e mi fa l'occhiolino, «ma anche dea mi sembra perfetto.»
Quelle parole e il tono piacione mi fanno alzare un sopracciglio.
«Sei serio?» sbotto, ficcando le mani nelle tasche della felpa. Abbastanza contatto fisico per oggi.
Lui scoppia a ridere e la sua risata riecheggia argentina lungo tutto il vicinato. «Scusa, è stato più forte di me. Non ci sto provando, giuro.» Un attimo di pausa, poi mi guarda e si passa una mano tra i capelli biondi scompigliati. «Sempre che tu non voglia...»
Una vampata rossa, probabilmente di rabbia, inizia ad arrampicarsi veloce lungo il mio braccio. Sfocia nel petto, risale lungo il collo e arriva pericolosamente vicino al viso, ma riesco a farla sbollire prima che sfoci nei modi peggiori.
«No.»
Mi volto di scatto verso la macchina e torno a concentrarmi sulla mia valigia. Tra un'idiozia e l'altra, il signorino non mi ha aiutato a scaricare.
In quel momento esatto, sento un folto gruppetto di biciclette sfrecciare lungo la strada dietro di noi. Appena ci passano vicino, si solleva un boato di campanelli e grida sconnesse.
«Bella tuta, Homer Simpson!» grida qualcuno e gli altri gli fanno subito eco.
Daniel ride e gesticola qualcosa che gli fa guadagnare una serie di urli e fischi di approvazione.
Non posso vedere cosa sia, ma una voce nella testa mi ripete che potrebbe avermi derisa in qualche modo: è così che si divertono i bellocci della mia età.
Cerco di farmi minuscola, fingendomi concentrata a scaricare le valige. Sono già abbastanza a disagio senza essere presa di mira da un branco di idioti.
«Scusa, amici di rugby», spiega Daniel, appena i passanti si sono portati via il loro caos. «Fanno casino, ma sono simpatici.»
Non rispondo, perché non ho niente da dire.
Lui, però, non demorde. Lo sento farsi sempre più vicino alle mie spalle e appoggiarsi con una mano al portellone: non so come sia possibile, ma sembra portarsi dietro un'aura tiepida perenne. Come un diavolo di caminetto acceso proprio dietro la mia nuca.
La cosa mi infastidisce.
«Comunque, mi permetterebbe di aiutarla con i suoi bagagli, madamigella?»
Sbuffo. «Ah, quindi adesso vuoi anche renderti utile?» gli chiedo, con un'arteria di sarcasmo nella voce.
«Il piano iniziale era solo rendermi utile», si schermisce. «Ciò che è successo dopo è solo frutto del destino.»
«Okay», ignoro la seconda parte del discorso, perché altrimenti dovrei andare a tirare una testata da qualche parte. Mi volto e gli sventolò una mano davanti al petto. «Sei capace di rispettare la distanza personale mentre mi aiuti o anche starmi col fiato sul collo è più forte di te?»
Lui incassa con eleganza e fa un passo di lato. «Mi scuso, madame.»
«Bravo.»
«Non sono proprio il tuo tipo, eh?» chiede, con una risatina che mi fa salire il crimine.
Questo ragazzo è un maledetto bulldozer. E io sto già raschiando il fondo della mia dose giornaliera di sopportazione per il mondo.
«No.»
«Un peccato...» si sporge in avanti e allunga una mano verso la mia valigia. «Questa?»
«Sì.»
«E qual è il tuo tipo?» Prende la maniglia e la tasta, tirando piano un paio di volte. «Anzi, voglio indovinare. Un metallaro. Un goth! No... Un nerd!» Dà uno strattone con una mano sola e la valigia sguscia fuori come se nulla fosse; me la passa con un sorriso trionfante e un altro occhiolino. «A te.»
Lo vedo che sta gongolando, ma sono troppo orgogliosa per dargli una qualsiasi soddisfazione. Facile fare il cavaliere quando hai la stazza di un giocatore da basket e due pale eoliche al posto delle braccia.
«Uno che si faccia i fatti propri.»
«Ouch», si finge sofferente, stringendosi una mano sul petto con la stessa teatralità di una diva del cinema muto. Peccato solo che il concetto di muto non sembri rientrare nel suo vocabolario. «Questa ha fatto male.»
Sposto la valigia al mio fianco e fisso lo sguardo direttamente nel suo. «Chiariamoci. Mi sono alzata alle quattro del mattino, ho cinque ore di sonno in corpo e l'unica cosa che voglio è soffocare nel mio letto nuovo. Parlare con te dei fatti miei non era previsto e, sinceramente, nemmeno ne ho voglia. Quindi, se ti senti ferito sono fatti tuoi.»
Stringo le spalle, pronta ad affrontarlo.
Non ho paura di mettermi contro il ragazzo popolare di turno: non sarebbe né la prima né probabilmente l'ultima volta che accade.
Lui impiega qualche attimo a reagire.
Vedo pensieri ed emozioni iniziare a susseguirsi in tutta fretta nel suo sguardo, che in pochi attimi si scurisce e rasserena come il timelapse di un cielo in tempesta, poi scrolla le spalle.
«Mi pare onesto», sentenzia, alzando le mani sopra la testa. «Mi arrendo.»
Ah, così?
«Era ora.»
«Sei un osso duro.»
«C'è di peggio.»
Lui scuote il capo sorridendo, ma come promesso mi gira le spalle e inizia ad attraversare la strada con una corsetta leggera.
«Ma avrò le mie risposte, Iris!» grida, salutandomi con un braccio. «La guerra è appena iniziata!»
Roteo gli occhi. «Magari la prossima volta lascia a casa le crocs con i glitter.»
Mi giro di scatto verso l'auto prima che i nostri sguardi possano incrociarsi di nuovo, ma lo sento comunque scoppiare a ridere, con quella strana risata che è in grado di riempire un quartiere.
«Agli ordini, madamigella!»
Che tipo.
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