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1. Riflettere sul bersaglio




Per colpire il bersaglio
occorre allontanarsi.
- Rinaldo Caddeo -
[Etimologie del caos]



Aveva scelto accuratamente la casetta in cui andare ad abitare, lì nella ridente Rivarossa. L'aveva prediletta per via del legno chiaro del porticato e delle pensiline alle finestre, della pietra leccese ben levigata che tappezzava la facciata della casa e il camino all'interno del salotto.
Si era infatuata al primo sguardo della camera a soppalco con il grande specchio ovale, in ferro battuto bianco, e il letto a baldacchino con le tende glicine rigorosamente in seta.
Il proprietario da cui l'aveva acquistata, il signor Corvoni – uno psichiatra in pensione con miriadi di case sparse per la provincia – le aveva concesso nel prezzo, con grande giubilo di Soraja, anche la raffinata mobilia ivi presente.

Le aiuole sul davanti, ornate anch'esse dalla candida pietra, erano presto state rimpinguate da splendidi cespugli di lavanda, rovi di rose tea e gerani dai brillanti colori. Sui davanzali spiccavano, eleganti, vasi di violette e fresie dal profumo delicato.
Alle spalle, un minuscolo orto dilettava la dolce maestrina nelle sue giornate di riposo.
Se vi foste trovati a passare di lì, magari nelle ore prima del tramonto, avreste potuto scorgerla china sulla terra a piantare delle fragole, a raccogliere dei peperoni o a innaffiare la menta odorosa.

Soraja restò un attimo ad ammirare la sua squisita abitazione, lieta di aver concluso quell'appetitoso affare un paio di mesi fa.
Non le mancava la sua vecchia città, un vasto condensato di ipocrisia e pettegolezzi, di malignità sussurrate agli orecchi sbilenchi, di bieca e presuntuosa ignoranza che appestava le strade di quel posto, come le feci caprine che i pastori si divertivano a far lasciare alle proprie bestie portate al pascolo.

Entrò nel villino, si sfilò le basse décolleté porpora e le posò sulla scarpiera alla sua sinistra, indossando, al loro posto, un ben più confortevole paio di ciabatte.
Con la borsa piena di libri scolastici e dei disegnini dei suoi alunni, si diresse verso il tavolo in ciliegio al centro della stanza.
I sorrisi sghembi e i prati dai fiori colorati le ammiccarono dai fogli bianchi, gradito dono dei piccoli a cui si dedicava e a cui voleva già un gran bene, nonostante avesse iniziato a insegnare, nella scuola materna del nuovo paese, solo da poco tempo.

Li raccolse in un'apposita cartelletta, segnandoci all'interno un numerino, corrispondente alle cornici che avrebbe dovuto acquistare per poter omaggiare al meglio quei deliziosi pensieri.

Pose sul fuoco la teiera ricolma d'acqua, intenzionata a prepararsi una rigenerante tisana alla betulla.
Dallo spazioso bagno, lindo fino all'inverosimile, arraffò un elastico per acconciarsi i lunghi capelli nero blu in uno chignon scomposto.
Gli occhi, scuri quanto e più dell'onice, splendettero bui nello specchio sul lavabo quando individuarono l'alone, quasi impercettibile, di una gocciolina d'acqua. Soraja corse a detergerla con un panno, assicurandosi che la superficie rifulgesse come sempre.

Questa maniacalità nel volere che, fuori, fosse tutto impeccabilmente lustro cozzava, in maniera alquanto bislacca, con i marci e cupi recessi che serbava la sua anima corrotta e deteriorata.

Le mani, dalle affusolate dita, smaltate di rosso rubino, afferrarono la tazza vaporosa per portarsela alle labbra a forma di cuore. Una fossetta al lato della guancia, dagli zigomi alti, comparve lesta ad ammorbidire il volto dalla pelle avorio.

Soraja beveva il suo intruglio preferito e intanto rifletteva.
E riflettere, per lei, non significava, come tutti, pensare a cosa preparare per cena, a quale film guardare in tv o a quando trovare tempo per pagare la bolletta della luce.

No.

Per lei, voleva dire soltanto una cosa: scegliere quale varietà di fiore avrebbe guarnito – molto presto – le spregevoli fauci del suo primo, indelebile bersaglio.

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