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Our lost souls


Amore è tardi, amore è già la fine
Amore che non piangi mai
In questo tempo di autobombe e pane
Amore, adesso come stai?
La nostra storia fuorilegge e il dolore
Saranno seppelliti qui
Sotto la povere da sparo e il sole
Jesse James e Billy Kid



Pensavo di avere avuto un infarto, la stretta al cuore era stata troppo dolorosa mentre lo recuperavo da un tetto. Era andato lassù per piangere. Talmente arrotolato su se stesso che avevo dovuto sbrogliarlo come un pezzo di carta pescato dalla spazzatura. Non era bastato, avevo solo ottenuto una cosa informe a quattro zampe. Così anestetizzato dal dolore che non gliene fregava niente di essere stato scoperto nel momento di debolezza.

Lo avevo lasciato fare mentre minacciava Danzo, il vecchiaccio se lo meritava, ma poi era sparito costringendomi a cercarlo per mezz'ora.

Ora che finalmente lo avevo trovato, afferrandolo dal dietro dell'uniforme lo avevo tirato in piedi a forza. Mo ero incamminato e lo avevo sentito accodarsi subito a me. Cercavo di produrre meno rumore possibile scortandolo verso Amegakure, i suoi passi, alle mie spalle, erano talmente impercettibili che qualunque fruscio della notte avrebbe potuto sovrastarli.

Da quella notte, Itachi aveva imparato a non emettere suoni, a vivere senza esistere.

Se non mi voltavo per verificare se c'era, non era indifferenza, volevo soltanto evitare di morire. Sarebbe stato letale guardare in faccia uno zombie condannato a respirare, mangiare, avere il cuore che batte nonostante fosse morto a tredici anni.

Non chiamatemi crudele, sono solo sbagliato.

Se fossi stato spietato, non avrei avuto di nuovo la faccia fradicia di lacrime che marciva sotto la maschera.

Non mi aspettavo che cedesse di nuovo. Più o meno a metà strada, quando aveva visto il primo chiarore del sole, mi si era aggrappato alla veste. Mentre i suoni della notte sparivano per lasciare spazio a quelli del giorno, le sue mani si facevano sempre più spasmodiche, avevo sentito le cuciture del mio mantello scricchiolare. Il sole nasceva, ma noi saremmo rimasti seppelliti per sempre a dibatterci nella nostra ragnatela di oscurità, i nuovi giorni non ci sarebbero più appartenuti. Io già lo sapevo, ma lui se ne stava rendendo conto adesso.

Procedevo dritto resistendo alla tentazione di afferrargli le mani. I suoi passi erano incerti, avevo intenzione di fare una sosta per rifocillarci appena possibile.

Si era staccato da me, i suoi passi deviavano verso il lato della strada, erano proseguiti fino all'inizio del bosco.

"Ti uccideranno, Itachi. La tua unica possibilità è venire con me."

Niente, si era fermato.

Ero stato costretto ad arrestarmi anche io: "Itachi."

Non lo sentivo più. Ancora una volta aveva vinto lui: mi aveva costretto a voltarmi.

Era appoggiato a un albero e si stava liberando del poco rimastogli nello stomaco dalla sera prima. L'ultimo pasto consumato con i genitori. Era crollato in ginocchio e io ero stato costretto a intervenire. Espelleva lunghi fili vischiosi di muco striati di sangue, gli avevo avvolto il busto con un braccio e con l'altra mano gli tenevo alta la testa, non potevo rischiare che stramazzasse con la faccia nel suo vomito e ci restasse affogato.

Sono solo sbagliato, niente di più.

Doveva essere distrutto nel corpo e nell'anima per arrendersi così, seduto in terra con la schiena appoggiata al mio petto. Era gelido, la faccia ancora imbrattata del sangue di amici e parenti. Adesso che era svenuto, non aveva senso che io usassi una maschera anche sui sentimenti. Mi ero strappato un lembo del mantello, lo avevo bagnato con l'acqua della borraccia per ripulirgli il viso. Speravo che si riprendesse sentendo il freddo, ma era rimasto immobile e bianco come uno straccio. Una bambola fatta a pezzi, lo specchio del deserto che aveva dentro. Un mondo morto. Incenerito, senza rimedio.

Mi ero alzato in piedi sollevando tra le braccia il corpo inerme. Avevo percorso più veloce che potevo il paio di chilometri che restava, non potevo rallentare il passo, per quando potessi essere orribile, capivo che aveva bisogno di cure.

Avevo sempre odiato Amegakure, il cielo fumoso, quelle stupide grondaie piazzate ovunque. I tubi erano un materiale. Era tutto costruito di tubi, le pareti, i tetti, le strade, le scalinate, persino quelle che pretendevano di essere statue o decorazioni.

Odiavo i tubi.

E detestavo il picchiettare incessante della pioggia, ogni goccia ti sussurrava nelle orecchie: ti vedo. So dove sei.

Odiavo Amegakure perché era uguale alla nostra anima ormai perduta.

Avevo stretto il corpo di Itachi, gli ultimi metri erano stati quelli più difficili. Il freddo che sentivo non era la pioggia, bensì la consapevolezza che stavo seppellendo un ragazzo in quell'inferno. Ma, anche se non mi avesse visto, pur aborrendomi per i pochi anni che gli restavano, aveva la promessa che non lo avrei mai abbandonato.

Era stato davvero necessario costruire l'ingresso di quel maledetto covo a forma di faccia che sta per inghiottirti? Non lo avrei notato se non fosse stato identico alla nostra realtà. Rassegnato, mi ero arrampicato sulla lingua.

"Di qua."

Non l'avevo sentita, Konan mi era piombata alle spalle. Mi stava indicando la direzione opposta rispetto a quella che avevo preso, cioè verso la mia stanza.

"Sei impazzita? Vuoi portarlo in mezzo ai corpi di Pain?"

Gli occhi gialli mi avevano squadrato con disprezzo: "È l'unico posto a cui abbiamo accesso solo io e Nagato. Stanne fuori, Obito. Almeno per ora."

Era la prima volta che mi chiamava per nome davanti a qualcuno, peccato che quel qualcuno fosse quasi all'altro mondo tra le mie braccia.

Il suo atteggiamento materno mi urtava, mi considerava talmente mostruoso che le veniva istintivo proteggere Itachi da me: "Come osi?"

Si era incamminata arrogante, dava per scontato che io la seguissi. Per adesso non mi restava che mandare giù l'ennesimo rospo, tanto sapevo che prima o poi tutti avrebbero avuto quello che meritavano. E non vedevo l'ora.

Mi aveva costretto ad adagiare Itachi sulla postazione lasciata libera dall'unico Pain sempre attivo, poi ero andato via, non avrei sopportato oltre il suo sguardo severo.

Mi ero seduto all'esterno, sulla lingua, con una gamba a penzoloni nel vuoto e felice di infradiciarmi fino al midollo. Meglio lì che dentro con quella donna, la odiavo.

Una fumata era uscita dalla fornace in cui Pain forgiava gli anelli. Il giorno dopo avevo saputo che per fare quello di Itachi aveva bruciato, tra le altre cose, anche la divisa con cui era arrivato lì. 

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