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4 ~ L'inizio

Il ragazzo dai capelli rossi guardò il nuovo arrivato. Sembrava uscito da una delle storie sui supereroi che gli narrava sua madre, come corporatura: alto e muscoloso. Il diventare uno di loro gli aveva tolto tutte le cicatrici e le imperfezioni. I capelli neri gli fluttuavano sul viso in una zazzera scomposta, il che gli dava un’aria ribelle, mentre gli occhi verde mare parevano non guardare nulla in particolare, proprio come quelli di una statua greca. Eppure, aveva qualcosa nello sguardo di… spezzato, quasi gli fosse stata portata via l’anima. Be’, si disse il ragazzo dai capelli rossi, è abbastanza normale che sia così. È morto, dopotutto. Non ricordava bene cosa si provasse a morire la prima volta, visto che gli era successo ormai quasi duemila anni prima. Ormai, visto che moriva in media una o due volte al giorno, si era assuefatto; eppure, era abbastanza sicuro che il dolore per la propria morte all’inizio non fosse così vivido: ci voleva un po’ per accettare di essere morti sul serio. Quello che aveva quel ragazzo nel sguardo era diverso, di dolore, come se…

La scorbutica girlfriend del rosso, seduta al suo fianco, diede voce ai suo pensieri, rivolgendosi al ragazzo moro: - Ehi, novizio, cos’è quello sguardo? Hai perso la tua bella? – la ragazza lo diceva per scherzo, ma il nuovo arrivato abbassò lo sguardo. Ora, più che eroicamente disperato, sembrava sul punto di piangere. – Piantala, Mallory – fece il ragazzo biondo seduto dall’altra parte del tavolo della colazione, che faceva anche da tavolo delle riunioni. Poi prese il moro per una spalla e gli diede una piccola scossa. – Percy ? - lo chiamò. - Va tutto bene, dai. Mia cugina è forte, vedrai che se la caverà. – Il moro alzò piano la testa e lo guardò negli occhi. La rabbia sembrò crescergli dentro in un istante, come un palloncino gonfiato con una pompa per pneumatici. Infatti, esplose subito: - Tutto bene? Come fai a dire che va tutto bene?! Sono morto, morto! E quella vacca di Era ha deciso di cedere la mia anima a Odino per finire di comprare una collana rara da Frigg… e mio padre non ha nemmeno provato a protestare… - questa volta scoppiò a piangere sul serio. – E Annabeth… crollerà senza di me… e dopo la morte non potremo neanche stare insieme… - disse tra i singhiozzi. L’altro ragazzo biondo nella stanza oltre Magnus, arrivato solo qualche mese prima, cercò di dargli una pacca rassicurante sulla spalla. – Eddai, bro, non è detto… dopotutto, io e te siamo entrambi qui, no? – questa volta, Percy non alzò nemmeno lo sguardo. – Jason, di tutti gli eroi greci morti “con valore”, qui ci siamo solo noi. È già un miracolo così… o meglio un incubo. Ma quanto le è costata quella maledetta collana? –

Jason Grace era morto a marzo ed era arrivato al Valhalla a fine giugno (i problemi di contrattazione tra Era e Odino avevano allungato un po’ i tempi), ormai due mesi prima, e ricordava di non essere stato così distrutto. A lui questa morte non era andata poi così male.

Mentre moriva, sentiva di aver fatto tutto quel che doveva; era fiducioso che Apollo avrebbe mantenuto la promessa. Appena aveva potuto era riuscito perfino a contattarlo, in sogno, e visto che era ancora vivo (ma rigorosamente ancora sotto forma di mortale), il mondo esterno non doveva essere crollato. E ora, arrivava il suo migliore amico, Percy Jackson, a dirgli che in effetti non solo il mondo non era stato conquistato da tre imperatori malvagi, ma anche che Apollo era finalmente tornato un dio, continuando però a rispettare, per quanto possibile, la sua promessa. Perciò all’inizio (Jason si sentiva un tantino egoista ad ammetterlo, ma era così) l’arrivo del suo migliore amico gli aveva portato più buone notizie e buona compagnia (finalmente) che dispiacere.

Ora però, vedendo Percy così distrutto, si pentiva di quei pensieri. Come aveva potuto gioire per la morte di un amico? Si sentiva in dovere di rimediare, di provare a consolarlo almeno, ma proprio non gli veniva nulla in mente. Be’, forse poteva provare con... – Guarda il lato positivo: qui le cene sono fantastiche! –

Quella sera, Jason non cenò nemmeno: in risposta a quella battuta infelice, Percy gli aveva tirato un pugno e lui era svenuto. Come al solito.

Il resto del piano 19, invece, si presentò regolarmente a cena: Magnus, Alfborn, T.J., Mallory e Alex (in quel momento ragazza) si sedettero al solito tavolo. Percy, invece, si diresse verso gli altri nuovi arrivi, con le spalle curve, cosciente che avrebbe rivisto la propria morte. Magnus lo guardò allontanarsi, e gli si strinse il cuore; nonostante non fosse mai stato una persona molto empatica, conosceva parte delle disavventure di quel ragazzo, e decisamente non si meritava proprio tutto questo. Ora era stato anche costretto a separarsi dalla sua amata, di nuovo. Il biondo cercò di non pensarci, mentre si sedeva al tavolo con sguardo avvilito.

Doveva avere proprio una brutta cera, perché perfino la sua fidanzata Alex si preoccupò un po’ (cosa rara). – Ehi, Capellone, qualcosa non va? – già, aveva preso la brutta abitudine di chiamarlo così da quando aveva deciso di farsi ricrescere i capelli. Era stata una decisione presa subito dopo la loro ultima avventura, a giugno, e dopo due mesi gli erano già ricresciuti abbastanza. Alex non la smetteva di prenderò in giro, soprattutto quando gli andavano davanti agli occhi o in bocca. Una volta si era presentata in camera sua con un paio di forbici mentre il ragazzo dormiva ignaro e aveva provato a tagliarli i capelli, con il solo risultato di farlo svegliare di scatto e ucciderlo per lo spavento. Eh già, per colpa di Alex, Magnus aveva già provato quasi tutti i tipi di morte, compreso un paio di forbici da parrucchiere nel collo. Anche per questo la sua ragazza (o ragazzo che fosse) non la smetteva di prenderlo in giro. Eppure, ora non sembrava averne voglia: pareva davvero preoccupata. Devo avere proprio una brutta cera, pensò il figlio di Freyr. – No, no… tranquilla – rispose con tono assente. – sono solo dispiaciuto per Percy. – T.J., che aveva sentito, gli diede un pugno amichevole su una spalla.
– Macché, starà benone. Guardalo, già sorride come un matto! – Magnus all’inizio pensò che l’amico fosse ironico. Poi però, seguendo la direzione del suo sguardo, lanciò un’occhiata al tavolo dove sedeva Percy, e vide che stava effettivamente sorridendo, anche se lo sguardo era... quasi rammaricato. Non fece in tempo a vedere perché, però: proprio il quell’istante, Helgi si alzò, pronto a presentare a tutti i giovani dell’aldilà norreno (almeno una parte dell’aldilà) i nuovi arrivati. La mascella del figlio di Freyr sembrò quasi staccarsi dalla faccia per la sorpresa quando il direttore chiamò il primo nome: Annabeth Chase.

Sua cugina, sorridendo con lo stesso sorriso triste di Percy, si alzò sopra la folla. Helgi chiarì che la ragazza era una semidea greca (esclamazioni di stupore percorsero tutto l’enorme sala, ma non furono tante quante quelle all’arrivo di Jason) mandata lì dal dio Apollo e dalla dea Afrodite, che in qualche modo avevano corrotto Ade (Magnus credette di vedere Percy che, muovendo le labbra, sussurrava “Adollo” o qualcosa del genere, ma pensò di essersi sbagliato) per farla trasferire da loro. Nonostante ci fosse stato qualche problema all’entrata nell’hotel (la ragazza aveva cercato di uccidere Hunding; dopo esserci riuscita, si era costruita una scala stranamente solida smantellando alcune delle lance che reggevano il soffitto dell’atrio, rigorosamente senza farsi vedere, e legandole con delle ciocche si capelli. L’avevano ripresa per un soffio prima che riuscisse a scavalcare il muro di cinta), ora Annabeth – sempre a detta di Helgi - si dichiarava pronta a diventare una guerriera di Odino, qualunque fosse il motivo per cui i suoi dei l’avevano portata lì senza chiedere nulla in cambio. Il direttore smise di parlare e guardò la ragazza con aria interrogativa, aspettandosi una spiegazione.

Annabeth sapeva esattamente cosa rispondere a quello sguardo: aspettava di farlo da tutta la sera. - Il divino Apollo ha voluto... farci un favore. - Senza aggiungere altro, si girò verso il suo Percy, seduto affianco a lei con quel sorriso un po’ strano che aveva da quando si erano ritrovati (cioè circa cinque minuti). La figlia di Atena capiva il motivo di quella tristezza velata: dopotutto, nonostante effettivamente ora fossero insieme, erano entrambi morti, il che non era il massimo. Eppure, ad Annabeth non importava nulla: vero, erano morti. Ma non avrebbe mai dimenticato la sensazione che aveva provato quando pensava di averlo perso per sempre: come se mente e realtà si dividessero, come se tutto ciò che lei era fosse rimasto là sotto, nel Tartaro, e fosse morto col ragazzo che amava. E ora lui, invece, era là. Era là, pronto a sorriderle, a stringerla tra le sue braccia, a dirle “ti amo”, all’infinito. Era là e lo sarebbe stato per sempre, questa volta in senso letterale. E anche se non era quello il luogo dove avevano programmato di vivere felici, pronti a godersi il lieto fine, non importava. Tutto ciò che contava era che fossero insieme, che lo sarebbero sempre stati.

Annabeth tirò il figlio di Poseidone verso di sé, lo fece alzare e lo baciò. Sentì a malapena i fischi e le sporadiche risate che provenivano dalla sala, mentre Helgi borbottava un “Ah, ecco” un po’ contrariato. Tutto quello su cui la ragazza riusciva a concentrarsi erano le mani di lui che le affondano nei capelli, mentre le loro labbra si schiudevano pronte ad un bacio molto più lungo dell’ultimo che si erano dati. Era ironico: dopo quell’ultimo bacio in vita, quello per cui avevano avuto così poco tempo, Annabeth si era sentita morire dentro. Ora che, invece, erano morti sul serio, quel bacio la faceva sentire più viva che mai.

Anche se durò pochi secondi, ai ragazzi sembrò il tempo di una vita. E, in teoria, poteva esserlo davvero: una vita, da ora in avanti, non sarebbe stata più un periodo tanto lungo, per loro. Ora, avrebbero avuto tutte le vite che volevano. Tutti i momenti che volevano. Tutti i baci che volevano. E non importava quanto tempo sarebbe passato: quel bacio era l’inizio di una nuova vita, una seconda possibilità, e nessuno dei due aveva l’intenzione di lasciarsi condizionare dalla loro nuova condizione di immortali, che di solito portava le coppie a prendersi e lasciarsi centinaia di volte: dopo tutto ciò che avevano passato, non avevano intenzione di separarsi di nuovo. Finché non fosse arrivato il Ragnarock, sarebbero stati insieme, poi… be’, non era il momento di pensare al poi. Se le Parche o chi per loro volevano, quel poi sarebbe stato abbastanza lontano da concedergli una vita lunga, o almeno proporzionata a ciò che avevano passato. Perciò una vita molto lunga. E le Parche lo volevano.

Fu così, con quel bacio, che Percy  Jackson e Annabeth Chase iniziarono la loro vita infinita. Infinita, come il loro amore, capace di superare tutto, ormai.... anche la morte stessa.

La figlia di Atena allontanò piano le labbra da quelle del suo ragazzo. Prima di tornare a rivolgersi alla platea, gli sussurrò a fior di labbra: - Ora potrò ucciderti quanto mi pare… -  Percy fece una faccia un po’ allarmata, che si sciolse subito in un’espressione da Bambi con gli occhi dolci. Annabeth lo guardò, e sorrise.

Sì, quello era solo l'inizio.



Angolo autrice

Ringrazio tutti quelli che sono arrivati a leggere questo angolo autrice, perché significa che avete finito l'ultimo capitolo di questa piccola One Shot.

Già, il capitolo finale.

Forse.

Per ora.

Nonostante la storia sia teoricamente finita, questa è solo una prima bozza: probabilmente in futuro la allungherò, e non poco, raccontando meglio alcuni "dettagli": il viaggio di Nico e Will, ad esempio. Oppure, la vita di Percy e Annabeth al Valhalla.

Per ora, questa è la fine.

Ma, almeno in questa storia, la fine sarà sempre e solo un inizio.

E forse, non solo in questa storia.


-Philo_Sophia08

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