Capitolo tredici: Nulla
//Tw: anoressia e depressione
Il nuovo Belial nacque in un ospedale tra le feci ed il sangue.
Deboli vagiti fuoriuscivano dal suo empio corpo, chiamando il seno della madre, la morte. Non si muoveva né strillava, ma impassibile attendeva di ascendere nell'Ade. Nella culla della matrigna, la notte, vomitava un liquido scarlatto e defecava il nulla che mangiava, incapace persino di alzarsi dalla branda.
I medici tentavano di rasserenarlo come potevano.
Provavano con le loro vuote e deboli parole a convincerlo che l'uomo che era stato sarebbe tornato, ma lui conosceva già la verità: Belial Hill era morto, quello che ne rimaneva non valeva la pena di esistere.
Il suo sguardo, un tempo pieno di vita, ora era un braciere spento, solo cenere rimasta dopo un grande incendio.
Il manto bianco, simbolo della sua nobiltà, era chiazzato da calvizie rossastre.
Le mani, in passato delicate e graziose, erano cosparse da cicatrici rossastre, molte delle quali si era autoinflitto durante la sua permanenza all'ospedale.
Aveva smesso di lavarsi e di occuparsi dell'igiene personale, lasciando che il suo corpo iniziasse a maleodorare e i denti ad ingiallire.
Quando la polizia lo interrogò si chiuse in un silenzio sofferto e non parlò con nessuno per le successive due settimane.
Alcune infermiere di buon cuore gli avevano consigliato di andare da uno psicologo, ma Belial aveva solo scosso la testa voltandosi dall'altro lato.
Ogni tanto qualche antico discepolo andava ad osservare la morte del Messia. L'albino studiava muto gli sguardi fieri impressi sui loro volti, segretamente si ammiravano per essere migliori di quella divinità decadente.
Si eccitavano nell'ammirare colui che un tempo brillava in cielo e ora non riusciva nemmeno a respirare. Amavano vederlo misero e inferiore a loro.
Gli esseri umani, essendo fatti d'invidia ed egoismo, non possono far altro se non provare gioia nello scorgere gli angeli cadere. Belial parve capirlo solo in quel momento, ormai privato del suo essere una persona.
Niente era puro, niente era degno di esistere, nemmeno lui.
Mimicani e Alastoriani non erano altro se non due facce della stessa medaglia. Non erano i soldi né la corruzione il vero nemico, ma gli stessi figli d'Adamo, per loro natura malati.
Per cosa aveva combattuto se il genere umano era immondo?
Per cosa sua moglie era morta?
Con che coraggio il mondo continuava ad esistere senza di lei?
Con che coraggio il sole continuava a sorgere e tramontare?
Con che coraggio le persone provavano gioia, dolore o rabbia?
Con che coraggio le mancavano di rispetto in quel modo così barbaro?
Voleva bruciare le città e radere al suolo le montagne, portare l'inferno in terra e ghignare quando le fiamme lo avrebbero preso insieme ai suoi sogni e alle sue ambizioni ormai decedute.
Bramava solo sangue e silenzio.
Falsi Magi portavano doni per il Gesù nato defunto: rose rosse, tigli e margherite. Parenti sconosciuti gli facevano visita solo per accarezzare la sua mano e porgergli rapide condoglianze, senza nemmeno conoscere il nome di Ramiela. Vecchi amici provavano a distrarlo con racconti sul loro glorioso passato e giornalisti curiosi tentavano di intervistarlo.
Lui li osservava, stanco, senza dire una parola.
Mai una volta il padre venne a trovarlo, lasciandolo nascere solo nel suo capezzale.
Una volta dimesso Belial prese il vizio di dormire in letti sconosciuti. Sperava di placare il dolore godendo dei piaceri della vita. Sesso, droga e alcol erano gli unici compagni capaci di donargli qualche sentimento che non fosse l'odio o il disprezzo. Detestava esistere, ma aveva troppa paura di cosa lo attendeva dopo la morte per uccidersi.
Scelse semplicemente di compiacere se stesso con una lunga e devastante eutanasia.
Senza ambizioni vagava per il mondo, ridotto al fantasma di ciò che era stato.
Giocava a fare il funambolo con la vita e la morte, appeso ad un filo di ragnata. Offuscava la gloria con gli scandali, coprendosi d'infamia agli occhi di una perbenista opinione pubblica. Nulla gli importava più. Non i Mimicani. Non la politica. Non se stesso.
Il suo naso era sempre sporco di bianco e la sua bocca bagnata. Frequentava locali disdicevoli dove si lordava con il seme di uomini e donne più sporchi di lui. Con le pupille perennemente dilatate guidava macchine sempre più costose, per poi dormire insieme a prostitute in qualche casa popolare.
Rideva spesso in quel periodo. Trovava la sua vita comica, una battuta di spicco che solo lui poteva capire.
Ebbe la prima overdose sei mesi dopo. La prima cosa che sentì fu un forte senso di nausea, come se il suo intero stomaco si fosse chiuso in una morsa di dolore. Era caduto a terra, tremante e fragile, proprio come quel giorno. I ricordi ancora bruciavano la sua pelle. Piangeva mentre la realtà si mischiava al passato davanti ai suoi occhi stanchi di esistere. Il respiro divenne irregolare, sempre più veloce, sempre più confuso. L'aria scomparve dai suoi polmoni lasciandolo in balia del nulla. La pelle nivea si sbiancò maggiormente facendolo assomigliare ad un cadavere. Il suo cuore si riempì di gioia quando si rese conto che stava per morire. Pregò Dio di lasciare che il suo corpo si decomponesse. Il suo cuore batteva così forte da offuscare il resto, una sinfonia di paura e gioia. Poi era venuto il sudore, un puzzo di disperazione e misertà. La sua temperatura corporea era salita improvvisamente, lasciandolo nuovamente senza fiato. Il mondo scomparve e tutto ciò che ne rimase fu solo un misto confuso di colori mischiati tra di loro. Poi tutto divenne nero.
E fu pace.
Venne trasportato fino al parcheggio dell'ospedale da uno dei suoi partner occasionali, ma questo scappò subito dopo, lasciando il Mimicano contorcersi sull'asfalto.
Per miracolo riuscirono a salvargli la vita.
Quando si rese conto di essere ancora vivo la prima cosa che fece fu piangere. Singhiozzò così forte che svegliò tutto il reparto. Gli infermieri provarono a tranquillizzarlo, ma lui ringhiava e mordeva, come un animaletto spaventato.
Quella volta nessuno venne a trovarlo. A nessuno importava.
Le stelle sono invisibili quando smettono di brillare.
Tre mesi dopo era nuovamente al pronto soccorso a causa di una nuova overdose. Questa volta si erano almeno degnati di accompagnarlo fino all'entrata. Le sue guance erano scavate, maleodorava ed era dimagrito talmente tanto da assomigliare ad uno scheletro. Aveva persino smesso di avere rapporti sessuali, ormai troppo stanco persino per quelli. Si era colorato i capelli di rosa e aveva un tatuaggio malfatto che gli copriva metà schiena. Era divenuto una sagoma, il ricordo sbiadito del grande eroe che era stato. I vecchi compagni dell'università non riuscivano a riconoscerlo, così nemmeno i parenti o gli ex-colleghi. Quando trovava la forza di guardarsi allo specchio si chiedeva come avrebbe reagito il vecchio se stesso nel vedersi così.
I medici non si capacitarono quando, anche questa volta, riaprì gli occhi dopo la seconda overdose.
Aveva avuto svariati amplessi con dei medici pur di farsi prescrivere delle medicine. Gli sembrava di essere tornato bambino, quando era costretto a pagare i propri doni. Eppure non era così male, perchè quei ricatti e quegli abusi erano la cosa più simile all'amore che riceveva da tanto tempo. Era sporco e malato, ma quello lo faceva sentire ancora vivo. Per quanto crescesse e maturasse una parte di lui sarebbe stata sempre disposta ad accettare qualsiasi forma di affetto, perchè infondo non aveva mai smesso di piangere in silenzio nella sua cameretta, aspettando l'affetto di un padre che lo odiava.
Era divenuto uno zimbello, ma a lui non importava, poiché nulla lo toccava più.
Nessuno poteva più ferirlo.
La cosa positiva del non avere niente è non avere niente da perdere.
Uscì dall'ospedale e tornò alla sua vita fatta di eccessi. Non capiva il senso della sua esistenza, tutto gli sembrava così superfluo e insensato.
Era stato allevato con la convinzione che Alastore fosse un posto magnifico, dove tutti erano felici e il dolore non esisteva, ma ora aveva compreso: l'unica differenza che sperava la città degli angeli da Mimica era come il male veniva mostrato. La terra non nascondeva i suoi peccati, il cielo fingeva solamente che essi non fossero mai avvenuti. Ramiela era stata dimenticata, classificata come un tragico incidente, ma i tragici incidenti non diventano bistecche da soli.
Eppure nessuno osava ascoltare una versione diversa dai fatti, perchè nel paese perfetto non esistono omicidi e tutto va sempre bene.
La terza overdose cambiò le cose. Proprio come in una fiaba la nostra principessa stava per venir salvata dal bacio di un principe.
Bisogna però ricordare che questa non è una favola e molti baci contengono al loro interno il peggior veleno.
Era una giornata di inizio estate, una di quelle che Belial in passato era solito amare. Sdraiato sul suo lettino guardava il sole sorgere con una triste pigrizia. Tempo addietro si sarebbe alzato presto per veder l'alba colorare di rosso le foreste conifere di Alastore, ma quelle mattine erano morte insieme a lui. Nell'aria era forte il profumo di fiori e medicine.
Stare in ospedale non gli dispiaceva, dalle pareti sottili poteva sentire i momenti più intimi delle altre persone. Aveva udito di nascite e morti, speranze e dolori. Più volte le sue orecchie avevano incontrato il pianto di qualcuno.
In quei momenti si sentiva profondamente solo e finiva per domandarsi se al suo funerale qualcuno avrebbe sprecato una lacrima per lui. Si chiedeva spesso se quelle nuove vite di cui ascoltava i vagiti sarebbero state esistenze pacifiche o travagliate. Di notte i rumori dei neonati lo riportavano con la mente al ricordo di quel bambino mai nato e quando questo accadeva nessuna droga o distrazione era capace di placare il suo dolore.
Quel giorno però era diverso in un modo che Belial non poteva spiegare. Si sentiva bene nel guardare il sole che solitario sorgeva lontano da lui. Era un momento così sereno che sperò di morire in quell'istante, felice e spensierato dopo tanto tempo. Fermo nel tempo il suo sguardo violaceo correva trai raggi di quella stella splendente, dimenticandosi delle ombre che lo attanagliavano.
L'attimo si interruppe e il dolore tornò come al solito, abbandonando quel secondo di pace e trasformandolo solo in un amaro ricordo.
Belial si voltò accecato dai raggi che fino a poco prima aveva amato.
Fu proprio in quel preciso istante che i suoi occhi incontrarono quelli di un moribondo, verdi come i pini che circondavano la sua vecchia dimora. Era un ragazzo molto alto, poco più giovane di lui, talmente magro da fare impressione e con una cascata turbolenta di lunghi capelli rossi. Il suo volto scavato doveva aver avuto un'aria elegante e femminea in passato, ma ormai era passata, lasciandone solo un viso scarno e pallido. Tremava su se stesso, così fragile ed effimero da potersi rompere con un solo tocco.
《Hey, hai qualcosa per truccarmi? Non voglio che qualcuno mi veda così》aveva chiesto con una voce debole e rotta. Tentava di sorridere tra le lacrime, nascondendo il corpo martoriato nelle coperte.
Belial aveva scosso la testa impietosito da quella creatura. Doveva essere stato spostato nella sua stanza durante la notte, quando lui ancora dormiva. In quel periodo l'ospedale era pieno di malati a causa dello stile di vita sedentario di molti Alastoriani, per questa ragione l'albino aveva avuto compagni di tutti i tipi durante quella settimana.
L'uomo si era asciugato le gote con il dorso della mano, sforzandosi di continuare a sorridere.
《Non mi sarei mai immaginato di morire così, sai? Io volevo solo...essere amato. Pensavo che se fossi diventato bello qualcuno mi avrebbe voluto bene》
I suoi occhi erano rossi, gonfi e stanchi. Un rivolo di muco bagnava il suo nasino alla francese e la pelle lattea era rovinata da cicatrici bianche.
Non stava parlando con Belial, forse non stava parlando con nessuno. La sua bocca era rimasta mezza aperta, mentre quella smorfia felice diveniva velocemente un muto grido d'aiuto.
Il Mimicano, posseduto da un fantasma che aveva dimenticato di conoscere, si alzò dal letto e strinse a se quell'ammasso di ossa, ascoltando i suoi singhiozzi e accarezzandogli le guance. Nel silenzio dello sconforto si sentì capito in un modo nuovo, trovando in un altro bambino sperduto la comprensione di cui non pensava di aver bisogno.
Il dolore scavato sulla faccia di Menasse rimase per anni impresso nella mente del politico, il sigillo della promessa che si fece anni dopo aver incontrato il modello; suo marito non avrebbe mai più dovuto patire la tristezza.
Quando quel pomeriggio venne dimesso dall'ospedale gli fu dato, come al solito, un opuscolo per un centro di recupero. Tutte le altre volte lo aveva buttato senza nemmeno preoccuparsene, ma quel giorno qualcosa lo spinse a fermarsi. Lo osservò per qualche secondo e i suo ricordi volarono ai sentimenti di compassione che aveva provato per il rosso. Se era ancora in grado di sentire qualcosa, forse per lui non era troppo tardi. Alzò lo sguardo al cielo ammirando le nuvole scarlatte e sorrise verso quel dio a lui lontano. Quasi senza pensarci digitò il numero del foglietto.
"Non mi sarei mai immaginato di morire così, sai? Io volevo solo...essere amato"
Nemmeno lui voleva morire così, non sul serio. Doveva ancora bruciare il mondo.
Forse sarebbe stato in grado di perdonare se stesso.
Passò un lungo e freddo anno, un periodo così duro che Belial non ne ebbe ricordi. Senza droghe non aveva vie di fughe dal passato.
Era solo con i suoi demoni.
Impreparato aveva dovuto affrontare quei traumi che aveva provato a reprimere. Chiedere aiuto fu la parte più difficile, persino peggiore del dolore e dei ricoveri. Mettersi di nuovo nelle mani del mondo che lo aveva ferito fu per lui la più grande prova di fiducia nei confronti delle persone. Prova che però l'umanità fallì.
Con fatica era riuscito a rimettere insieme i cocci della sua vita distrutta.
Nel silenzio della notte spesso sentiva la tentazione di mollare, di ritornare alla sua vecchia esistenza, sperando nella morte.
Rialzarsi era più dura di quanto credesse.
Cercare la felicità era più arduo e infausto di scomparire nella tristezza. Ma in quei momenti gli tornavano alla mente le parole del suo compagno di stanza e si ripeteva che lui non sarebbe morto così.
Bramava ancora le fiamme, solo che il suo era un fuoco diverso rispetto a prima.
Aveva trovato lavoro come assistente di un famoso avvocato, era riuscito a comprare un bell'appartamento nel centro di Alastore, aveva chiuso con le amicizie sbagliate e viveva in modo onesto. Ma si sentiva vuoto. Lui voleva ancora bruciare. Detestava quella vuota e banale monotonia.
Belial amava troppo essere una stella per restare nell'ombra della mediocrità.
Decise di perseguire nuovamente una carriera politica, aiutato dalla potenza del se stesso ormai passato e dal suo cognome.
Questa volta era spinto da qualcosa di oscuro, privo di ogni traccia di valore.
L'odio che sentiva nei confronti del mondo era rimasto immutato, inciso a fuoco nel suo cuore. Per quanto avesse provato a migliorarsi non riusciva a scagionare l'umanità per il dolore che gli aveva inflitto. Il suo cuore era divenuto arido come il deserto e duro come la roccia.
L'ultima volta che era riuscito a provare compassione per qualcuno era stato in ospedale, ma si rese presto conto che quello era stato solo il lieve bagliore della sua umanità ormai perduta. Un astro ormai morto da tempo.
Inutilmente aveva sperato di tornare l'uomo di prima, ormai era corrotto dal risentimento.
Si era aggrappato a quel secondo di umanità, avvenuto ormai un anno prima, per darsi la forza di cambiare, ripensando a come si era sentito nel riprovare un'emozione, diventando ossessionato dal quel preciso istante in cui il suo cuore si era di nuovo addolcito. Più rimembrava quell'istante, più si innamorava dell'idea di quel ragazzo dai capelli rossi.
Era diventato il suo dio, la luce che lo aveva condotto fuori dal buio. Il sentimento che sgorgava dal suo cuore ferito non era amore, ma follia.
Pochi mesi dopo il suo rientro nel mondo trovò l'immagine del suo uomo sulla copertina di una rivista. Non assomigliava all'ammasso di ossa scaricato in un letto a morire che Belial aveva incontrato. Ora Menasse brillava e lui voleva disperatamente divenir parte della sua luce.
In un mondo connesso come quello di Alastore incontrare il modello non fu per Belial difficile. Riuscì in poco tempo a trovare il profilo di Menasse su un social molto famoso e a proporgli di prendere un caffè insieme. La cosa sorprendente fu che quella bellissima creatura ancora si ricordava del triste albino che l'aveva consolato tempo addietro. Al loro primo appuntamento il politico regalò al suo accompagnatore una stupenda rosa rossa e bianca, modificata geneticamente dai fiorai della città sospesa. Sfortunatamente questa appassì qualche giorno dopo, ma il proprietario decise comunque di tenerla per ricordo.
Il loro amore scoppiò velocemente, con una passione degna degli adolescenti e una dolcezza pari a quella degli anziani.
Il modello desiderava a tal punto di essere amato da qualcuno per una ragione che andava oltre al suo corpo da non accorgersi di quanto il suo principe fosse marcio dentro. Innamorato delle attenzioni, dei baci e delle carezze aveva rinunciato alle sue libertà, venendo segregato nella grande villa degli Hill.
Il suo gentiluomo gli proibiva di uscire, diceva che era per il suo bene, che il mondo era pieno di pericoli, che non aveva bisogno di altro se non di lui.
E Menasse si fidava delle sue parole.
Gli mancavano le strade, i profumi e la vita, ma sapeva che nessuno fuori dalla sua prigione era disposto a vederlo come una persona, per tutti era solo un semplice pezzo di carne. Unicamente al suo cavaliere importava davvero di lui. Quindi andava bene così.
Si sposarono in inverno, pochi giorni dopo il compleanno dell'albino.
Per quando il modello fosse felice sentiva di star per rinunciare definitivamente a se stesso, ma quello era un prezzo che era disposto a pagare.
In pochi anni l'ex-Mimicano tornò a svolgere un lavoro di prestigio come in passato.
Tutti i suoi avversari erano morti per una ragione o per l'altra, ma ad Alastore nessuno veniva ucciso, quella era una città sicura, anche Ramiela era stato un mero incidente.
Le persone lo ammiravano in modo diverso, erano intimidite dalla sua presenza e non solo stupite dalla sua intelligenza.
Lentamente Belial si riprese tutto quello che gli avevano strappato, un marito, un lavoro e una vita.
Quando suo padre morì ereditò la fortuna della sua nobile stirpe insieme alla casa di famiglia.
Tra tutti i beni che il vecchio possedeva c'era anche una macelleria sulla terra, una di quelle che riciclavano la carne della Lotteria. Questa non era molto redditizia e di certo uno come il borghese non ne aveva bisogno per sostentarsi. Poteva chiuderla e portare fede al patto che si era fatto, essere il primo passo per un mondo migliore.
Ma quando il negozio passò in mano al più giovane degli Hill, questo incrementò di molto le vendite.
L'Alastoriano si sentì felice solo quando si rese conto di aver ottenuto la sua vendetta sui figli di Adamo.
Soddisfatto della sua opera aveva sorriso, dimenticandosi di aver perso se stesso.
Ma a nessuno importava, nessuno vedeva le mani sporche di sangue se erano coperte da guanti di seta.
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