Capitolo 3
~ Toren ~
Mia madre dice sempre che gettare il passato alle spalle, spesso, è un obbligo. Ma ci sono segni che rimangono tali anche quando tu sei cambiato dentro.
Il fatto che nella mia officina ci sia la Mustang, fatta letteralmente a pezzi, di Ector Maddox, non ha niente a che vedere con la rabbia che mi è montata dentro appena l'ho vista posteggiata di traverso su una collinetta tra terra e asfalto, con ancora il fumo a uscirle dal cofano anteriore; né con l'incontro del tutto casuale con Luna, la quale avrebbe potuto farsi molto male, solo per la disattenzione del padre.
Semplicemente, quando l'hanno trasportata qui dentro per la riparazione, non ho saputo resistere alla tentazione di smontare ogni singolo pezzo, con la prospettiva di pulirlo e rimontarlo.
È stato utile, dato che ci ho trovato dentro qualcosa che potrebbe diventare il mio lasciapassare per il purgatorio. Non solo, anche la ragione di tutte le problematiche riscontrate sul veicolo.
Quello che le ho detto, dopo averle dato un passaggio fino alla villa della sua amica non era una minaccia, solo un modo per metterla alla prova.
Voglio vedere di che pasta è fatta. Se è cambiata o se si è solo omologata alla sua famiglia.
Tutti a Santa Cruz conoscono Peter Maddox, il figlio prediletto di Ector Maddox, fratello di Luna. Ma nessuno sa la verità su quanto è accaduto la notte di circa sei anni fa tra di noi.
Lo scontro che abbiamo avuto non è stato casuale o dettato dall'alcol e dalle droghe, come raccontano tuttora per giustificare il nostro odio e la rissa che ne è conseguita.
Eravamo migliori amici una volta, pur appartenendo a due mondi diversi. Cresciuti insieme, pronti a tutto pur di sostenerci.
Quel legame, ha iniziato a spezzarsi quando mi ha fregato la ragazza.
Ma non ero incazzato per lei. Una valeva l'altra a quei tempi, e a volte, quando sapevamo che non ci sarebbe stato niente di serio o volevamo solo divertici, le condividevamo.
Ero solo furioso per un altro motivo, di cui sono a conoscenza solo Rio e JonD.
Di loro mi fido ciecamente. Anzi, avrei dovuto parlargliene subito, come garanzia e per avere il loro aiuto.
Ero insieme a Peter quando abbiamo scoperto una verità che avrebbe provocato uno scandalo di proporzioni epiche se solo fosse uscito fuori.
In quel periodo suo padre si candidava a sindaco e lui pensava che avrei rovinato la sua famiglia semplicemente aprendo la bocca.
Ricordo nitidamente cosa successe dopo quel giorno. Peter cambiò atteggiamento, minacciò di ridurmi sul lastrico se solo avessi rivelato a qualcuno quello che sapevo. Cosa che non potevo rischiare, data la mia condizione famigliare.
Irrequieto per il suo futuro, per quello della sua famiglia piena di problemi e segreti, Peter decise di incastrarmi in un altro modo. Escogitò uno dei suoi magnifici piani partendo da una semplice festa alla Maddox.
Ricordo ancora quanto fosse ubriaco e i suoi insulti per invogliarmi a dargliele di santa ragione. Per potermi tenere buono, usando in seguito il suo sporco denaro per tirarci entrambi fuori dalla cella in cui ci hanno trascinato per diverse ore.
Il sorrisetto forzato e compiaciuto di quel bastardo mentre ci ammanettavano per tenerci fermi, è una cosa che non dimenticherò mai. Perché se dovessi rappresentare Giuda, lo dipingerei su una tela con la sua faccia del cazzo.
Fu proprio mentre ci trovavamo lì dentro che compresi ogni sua azione e scattai restituendogli il favore con gli interessi. Perché nessuno può darmi degli ordini o minacciarmi.
Lo colpii così forte e così tanto da riuscire quasi a cambiargli i connotati. Si difese, ma nessuno degli agenti, per fortuna, intervenne. Sapevano che la questione riguardava solo me e lui.
Da quel momento non osammo più avvicinarci l'uno all'altro. Le nostre strade si sono divise. E nelle rare occasioni in cui ci siamo incontrati, ci siamo evitati come la peste.
Luna non è solo una semplice ripicca. Durante l'adolescenza ricordo ancora come la teneva d'occhio e minacciava chiunque le si avvicinasse, compreso il sottoscritto.
Adesso che è lontano, mi piacerebbe proprio che ricevesse i miei saluti e i ringraziamenti per non averla seguita.
«Mio padre ti ucciderebbe se sapesse che hai davvero fatto a pezzi la sua auto».
La sua voce carica di sorpresa sovrasta la musica che si diffonde dalle casse poste agli angoli dell'officina, il rumore dei macchinari e dei dipendenti impegnati ad aggiustare, assemblare, andare a recuperare auto danneggiate da incidenti; a rispondere quando arriva una chiamata e il telefono squilla rumoroso nella cabina che ho costruito per dare un tocco di personalità a questo ambiente trafficato.
Sguscio fuori da sotto un'auto facendo strisciare le ruote del carrello sul quale mi sono sdraiato per lavorare.
Non sono affatto preparato a quello che trovo davanti a me quando mi alzo e la guardo.
I suoi occhi sono come spilli conficcati sulla pelle. Il suo sguardo mi sta bruciando ogni parte sulla quale si posa, mentre registra ogni singolo pezzo di me. Un rossore delicato, come quello su una rosa appena sbocciata, affiora sulle sue guance.
È un colpo brutale.
Luna è sempre stata una dolce e incantevole distrazione. Ma incredibilmente inaccessibile per uno come me. Un po' come un pianeta lontano e la terra.
Le guardo affascinato la bocca piegata lievemente verso il basso in una smorfia. Lo faccio per diversi secondi, prima di scuotere me stesso e riportare lo sguardo nei suoi occhi.
«Tipico dei Maddox minacciare un povero meccanico», pulisco le mani piene di grasso e olio con un pezzo di stoffa così logoro e sporco da peggiorare la situazione. Allora spostandomi verso il lavello comincio a strofinare le dita con del sapone, fino a quando non ritornano linde.
«E per la cronaca, non me ne fotte un cazzo di quello che vorrebbe farmi tuo padre. Che ci provi pure. La sua fottuta Mustang ha bisogno di riparazione ed è quello che sto facendo. A meno che sua figlia non abbia istinti suicidi e preferisca andarsi ad ammazzare prendendo proprio quel relitto».
So che il padre della principessa andrà su tutte le furie quando saprà che la sua preziosa figlia e la sua costosa auto si trovano nel covo del nemico. Sono pronto a correre il rischio. D'altronde la posta in gioco adesso è alta.
Ector, in passato mi ha offerto un mucchio di soldi per non fare trapelare niente. L'ha fatto quando il figlio è corso a piangere da lui rivelandogli tutto, anziché denunciarmi per averlo pestato.
Non ho accettato. Ho preferito la mia dignità e il mio orgoglio, piuttosto che inchinarmi e abbassare la testa. Non l'ho mai fatto con e per nessuno.
«Quindi... già sapevi che avresti fatto a pezzi la nostra auto quando mi hai minacciata», alza il mento incrociando le braccia al petto.
Non posso non notare che il seno le è cresciuto parecchio dall'ultima volta in cui sembrava una tavola spigolosa. Ma allora aveva circa tredici anni e ancora frequentavo suo fratello.
Mi sposto verso l'ufficio per inviare una fattura. Prima di sedermi apro il frigo basso posto dentro il mobile in mogano e prendo una bottiglia d'acqua, trangugiandone tre quarti in poche sorsate. Gliene porgo una ma rifiuta con un cenno.
Lecco le labbra prima di rispondere. «Tecnicamente l'ho deciso questa mattina quando ho dato un'occhiata più approfondita all'auto. Ma non mi sembra che tu sia qui da sola. Sei venuta meno al patto», indico il puntino fucsia ad attenderla fuori dall'officina come un cane che fa la guardia.
Ad Alissa è sempre piaciuto seguirla ovunque e indossare indumenti vistosi per attirare l'attenzione. È sempre stata una ragazza egocentrica e un po' egoista. L'opposto dell'amica che ho qui davanti.
Se solo sapessero la verità che i loro genitori tengono ancora ben nascosta, la loro amicizia vacillerebbe o si spezzerebbe come il Titanic?
Luna esita. «Hai specificato per mio padre e non è qui. Non per Alissa o altre persone».
Sorrido e lei arretra di un passo. «So quello che ho detto», mi siedo sulla comoda poltrona sollevando lo schermo del portatile.
Luna si guarda intorno come una turista e non mi disturba mentre digito sulla tastiera e invio la fattura al cliente.
Ci troviamo in uno spazio rettangolare pieno zeppo di scartoffie. Un calendario con donne nude che Rio ha tanto voluto appendere in bella mostra. Una macchinetta del caffè all'angolo insieme a una palma lievemente rinsecchita.
Sulla parete costruita interamente da mattoni rossi, ci sono i quadri con le nostre foto. A colori e in bianco e nero. Momenti unici, importanti, che riguardo e ricordo sempre con un sorriso.
«Carino qui. A parte il fatto che sei sommerso dalla carta e avresti bisogno di dare una pulita», sfoglia un catalogo. «Ti sei servito del bosco vicino?»
«Nessuno ha chiesto il tuo parere in merito. Ed è carta riciclata».
«Bene, allora perché non andiamo dritti al sodo e mi spieghi come mai sono qui?»
«Sto lavorando alla tua auto».
Alza un sopracciglio sottile, arcuato perfettamente, più che scettica. «E...?»
«E dovrai controllare che tutto proceda».
«Non sei tu il meccanico?», chiude la rivista con un gesto sbrigativo.
Sorrido appoggiando la schiena alla sedia. «E tu la proprietaria dell'auto. Vuoi o no che torni sana e salva dal tuo paparino? Non hai paura che qualcuno possa... che ne so, vendere quei pezzi e diventare ricco, ad esempio con un solo bullone?»
Sospira. «Non capisco perché dovrei stare qui quando nessun cliente lo fa. E no, non ho paura perché in caso ci sarebbe l'assicurazione e tu finiresti nei guai».
Valuto attentamente cosa dire. Al momento ho il cervello in cortocircuito perché il suo profumo delicato, molto simile allo zucchero filato vanigliato, sta riempendo il mio spazio.
«Perché devi...»
«Luna, Tor», saluta Rio, affatto sorpreso di vederla qui, interrompendoci.
Tempismo perfetto, amico.
«C'è un cliente che chiede di te. Sai come sono se non è il "grande capo" a parlare con loro», alza gli occhi al cielo. «Ah, Alissa sta discutendo davanti a tutti con JonD. Io li andrei a separare ma... sono oberato di lavoro e ho le mani sporche».
Luna coglie al volo l'antifona e si allontana borbottando qualcosa per raggiungere la sua amica e trascinarla a debita distanza da JonD, il quale entra trafelato e a sguardo basso in officina. Lo fa proprio come un ladro.
Che cazzo significa?
Rio mi molla un colpetto sull'avambraccio. Se ne è accorto anche lui. Fischia nella sua direzione.
JonD solleva la testa e accorgendosi della nostra attenzione sorride e ci raggiunge con la sua tipica camminata molleggiante. «Ehi, perché quella svitata si trova qui? Pensavo si fosse persa».
«Tor ha soccorso Luna dopo che è rimasta a piedi. Un classico!»
Alzo gli occhi al cielo. «Non c'era nessun cliente, vero?»
Rio ride. «Avevo percepito una certa tensione in ufficio e non ho saputo resistere. Non vorrei mai che ti approfittassi di lei proprio qui dentro».
«Che bastardo!»
Rio prende una lattina di Pepsi. Appoggiato al ripiano del mobile mi fissa intensamente. «Pensavo non avessi accettato la scommessa».
JonD si fa attento, ficcando i pugni nella tasca della salopette grigio fumo che indossiamo tutti e tre per lavorare. «Già, alla festa non eri poi così propenso», lo spalleggia.
«Infatti non ho accettato».
«È cosa stai facendo esattamente?»
Entrambi guardano le due ragazze sedute all'esterno, su un muretto basso. Rio come un rapace, JonD annusando la vendetta.
«Non sto facendo niente. Le sto aggiustando la Mustang. I soldi mi servono per tenere in piedi questo posto e pagare le bollette. Non so se ricordate, sono stato derubato da Ben».
I due si scoccano un'occhiata eloquente. Stanno scommettendo, di nuovo.
Per tenerli buoni provo a spiegare anche quello che ho trovato dentro l'auto.
«Sentite, c'è una cosa che...»
«Non ci devi nessuna cazzo di spiegazione, T. Rilassati! Sappiamo che odi i Maddox e noi ti appoggeremo, qualunque sia il tuo piano», inizia Rio.
«Hai fatto a pezzi la sua auto e noi faremo in modo che il conto da pagare sia salato per rimetterla in piedi», conclude JonD.
È bello avere amici come loro pronti a reggermi la torcia mentre sto creando una fossa profonda in cui buttarci dentro ogni cosa sbagliata della mia vita.
Alissa e Luna si avvicinano. La prima guarda con astio da dietro le lenti degli occhiali da sole rosa JonD, la seconda si rivolge a me come se fossi una pratica da sbrigare.
«Non mi hai detto se ti serve un anticipo per i lavori».
«Pagamento alla consegna, niente credito o assegni scoperti», replico freddamente, senza far trapelare quello che mi sta passando per la testa in questo momento. «E dovrai venire qui ogni giorno fino a quando non avrò finito. Il motivo te l'ho già spiegato e non è contrattabile».
Non si agita, lo fa Alissa al posto suo. «Giorni? Ci vorranno giorni? Luna, ti rendi conto che tuo padre potrebbe venire a sap...»
Luna la mette a tacere afferrandole la mano prima che possa aggiungere altro. È padrona di sé al momento, anche se è evidente che basterebbe poco a farla crollare.
«Sei un prepotente, Toren», mi sfida. «Ma dovrai farmi trovare una poltrona pulita, perché non intendo sedermi a visionare i tuoi lavori sulla mia auto su quel logoro divanetto dove probabilmente ci troverei di tutto», solleva il mento. «E dovrai anche riordinare tutte quante queste scartoffie».
Quello che sento è un fuoco. Divampa all'improvviso. Non è affatto debole, ma capace di bruciare qualsiasi altra cosa al suo passaggio.
Non dovrebbe parlarmi con quel tono, né attirarmi per la sua spudorata linguaccia lunga. E dovrebbe smettere di guardarmi in quel modo. Respingermi anziché attirarmi come una sirena. Perché sarà lei a schiantarsi contro gli scogli. Non io.
Rio e JonD muovono la testa da una parte all'altra, in attesa.
Rispondo con un sorriso senza calore, né gentilezza. Una smorfia calcolata la mia. Quella di un giocatore che a breve sferrerà la sua mossa. «Puoi anche sederti sulla scrivania a gambe aperte se proprio ti fa schifo la poltrona», mi allontano. «Non me ne frega un cazzo se sei schizzinosa o hai paura di prendere qualche malattia. Domani, stressa ora», ringhio. «Principessa del cazzo!», sbotto a denti stretti, ma abbastanza forte da farglielo sentire.
I suoi passi rimbombano mentre si dirige verso l'uscita e rilasso le spalle quando lascia la mia officina.
Rio e JonD mi circondano. Notano come ho appena sollevato un cacciavite e non commentano quando lo lancio dritto verso il mio bersaglio: un vecchio poster pieno di buchi, sul quale quando siamo arrabbiati lanciamo qualcosa.
Scaricata la furia che mi è montata dentro, scrollando le spalle e facendo schioccare le ossa, mi metto al lavoro.
***
Apro la portazanzariera e faccio il mio ingresso in casa. C'è odore di fiori in corridoio.
Varco la soglia del soggiorno e trovo Ben stravaccato sul divano, una canottiera bianca piena di chiazze giallognole, il mozzicone di una sigaretta spenta sulle labbra lievemente schiuse e secche. Cenere sparsa un po' ovunque.
Sta dormendo sonoramente, mentre in TV mandano in onda l'ennesimo spot pubblicitario di mezzogiorno.
«Ehi».
Mamma mi raggiunge dalla cucina, i palmi bagnati che strofina sul grembiule a scacchi rosso e bianco con delle fragole cucite sopra. Porta con sé odore di polpa di pomodoro fresco e basilico.
Soppeso il suo sguardo passandole una busta con la spesa.
A volte le porto quello che le manca e che non sempre riesce a reperire nei mini-market della zona. Lo faccio quando mi sposto dalla città per recuperare qualche mezzo. Cosa successa oggi, dopo l'incontro che mi ha messo di malumore.
«Dobbiamo parlare».
Non riesco a vedere se ha aggrottato la fronte perché ha quella dannata frangia mozzata fino alle sopracciglia. Ma rimane comunque bella. Capelli scuri, occhi castani, altezza media, magra. Caratterialmente forte e tenace.
Siria Connor, ha sempre avuto le idee chiare nella vita. Un'intelligenza mai sfruttata al massimo del suo potenziale.
Ha semplicemente accettato il suo destino e quello che le veniva offerto senza mai chiedere di più.
Insegna alla scuola elementare del posto. L'unica cosa che non ha mai fatto: è lasciare mio padre.
Ben Connor. Professione? Parassita. Un uomo che non ha mai lavorato un giorno in vita sua. Un ubriacone ipocrita figlio di puttana che non conosce il significato della parola famiglia.
Non c'è mai stato a una partita, a un saggio di danza delle mie sorelle. Non ha mai partecipato alle grigliate di quartiere. Il suo unico compito è sempre stato quello di impartire ordini dalla sua comoda poltrona, sulla quale quando schiatterà lascerà l'impronta del suo merdoso culo peloso.
Mamma, dopo avere lasciato la busta della spesa in cucina, mi conduce fuori, in giardino, dove ci sediamo sull'amaca. Lei con un bicchiere di tè al limone freddo, io con una bottiglia di birra scadente e dal sapore di piscio.
«L'ha fatto di nuovo», anticipa la mia mossa corrucciata.
Sfrego la fronte nel tentativo di non essere duro con lei. So che non è colpevole, ma prima o poi dovrà pur capire che ci sono persone che non meritano amore. Ben Connor è una di queste.
«Non mi sono fiondato subito a casa per non farlo fuori», ammetto bevendo un sorso, pur sentendo salire la bile. «Sto cercando di comportarmi da adulto, ma questa volta ha passato il limite, mamma».
«Quanto?», fissa un vaso di terracotta dove avrà piantato del basilico.
È sempre stata brava nel giardinaggio. Adora i fiori e coltiva le proprie verdure in fondo al giardino, dove le ho costruito un piccolo rettangolo di terra fertile e installato una serra. C'è anche un vecchio capanno degli attrezzi ben fornito di fianco ad esso.
Stendo le gambe stanche. «Non ha importanza. Voglio solo farti sapere che non succederà più».
«Toren», insiste pronunciando il mio nome, usando un tono distaccato, da insegnante.
Gratto la nuca. «Non vuoi davvero saperlo, mamma».
Tiene stretto il bicchiere. Il ghiaccio comincia a oscillare e le nocche a sbiancare. «Invece sì. Ti prego, dimmi quanto ha rubato dal tuo conto perché ha fatto fuori anche i miei risparmi».
I suoi occhi si sono fatti rossi, insieme alle narici. «Ho bisogno di sapere», conclude afflitta.
Appoggio la bottiglia vuota ai miei piedi. «Non è necessario sapere quanto. Sto già recuperando accettando un paio di lavori. Ce la fai in qualche modo ad arrivare a fine mese?»
Tira su con il naso. «Ti ha svuotato di nuovo le tasche? Per questo parli di lavori? Cristo, Tor, dovevi avvertirmi! Io, io non so come...»
Gratto la gola. «E che cosa avresti fatto? Di sicuro non ti ha comprato neanche un regalo con quei soldi, il bastardo», osservo il cielo limpido. L'aria profuma di terra appena bagnata e margherite.
Copiose lacrime le rigano il viso. «Mi dispiace», le si strozza la voce. «Io, io vedrò cosa posso fare. Dovrei riuscire a racimolare dei soldi dando lezioni private».
L'abbraccio. «Devi iniziare a pensare al tuo bene, mamma».
Si aggrappa alla mia maglietta. «Non posso lasciarlo. È mio marito».
«E io sono tuo figlio e non permetterò che lui continui a fare lo stronzo e a non alzare il culo da quella cazzo di poltrona se non per prendersi una birra o rubare dal mio e dal tuo conto in banca. Perché la prossima volta finirà male», ribatto aspro.
«Tor, non stai dicendo sul serio. Non puoi fargli niente», mi guarda spaesata. «Le tue sorelle sanno già qualcosa?», cerca di virare l'argomento.
Forse nota nei miei occhi la furia perché singhiozza e mi si aggrappa ancora di più, spaventata da qualsiasi immagine le stia passando per la mente.
«Non mettiamole in mezzo. Non ho altra scelta, mamma, e tu lo sai».
«Davvero non vuoi dirmi quanto ha rubato?», domanda ancora una volta.
Mi alzo strappandomi dalla sua presa. «Abbastanza da mandarmi in banca rotta. Abbastanza da non riuscire a pagare una cazzo di bolletta o di aiutare te, le mie sorelle e i miei operai», urlo con frustrazione evidente.
Odio non avere più il controllo di niente.
«Hai sposato un viscido pezzo di merda e ancora non ti rendi conto del male che continua a fare alla sua famiglia. A lui non frega un cazzo di noi. Cristo, apri gli occhi», le bacio una tempia e mi allontano, pronto a tornare a casa mia.
Quando ho capito che le cose con Ben non sarebbero che peggiorate, con i pochi risparmi che avevo, ho comprato un lotto vuoto e ho costruito la mia umile casa dalle fondamenta.
Ho vissuto per mesi in officina, dormendo per terra dentro lo sgabuzzino, attualmente l'ufficio. Alla fine la signora Jenkins, quando lo ha saputo, insieme al marito hanno preso una decisione e mi hanno accolto offrendomi la camera degli ospiti per qualche settimana. Ma ho fatto del mio meglio per ricambiare la cortesia.
La villetta non è ancora ultimata, ma è un posto che mi appartiene e niente e nessuno potrà mai togliermelo. Soprattutto lui.
«Che succede qui? Cosa sono queste voci in casa mia?»
Ben si è svegliato e ci ha raggiunti in corridoio. Non appena mi vede, sorride con quei denti ingialliti dal fumo e dall'alcol. «Guarda guarda chi si fa vedere», esclama con scherno. «Che c'è, ti mancava la mammina? O sei venuto a darmi il resto dei soldi che mi devi per averti cresciuto?»
Mi trattengo appena quando mi si avvicina premendomi l'indice sul petto.
Come osa?
«In realtà sono qui per avvisarti. Prova ancora a rubare i miei soldi e puoi dire addio alla tua libertà. Sei ancora schedato, no?»
Mi afferra per la maglietta sbattendomi contro la parete. Mamma urla cercando di frapporsi, ma con una mossa lui la spinge facendola sbattere contro la ringhiera delle scale.
«Stanne fuori!», la minaccia.
Non ho paura di lui. Non ci somigliamo nemmeno fisicamente, il che è una gran fortuna. Ho solo paura che possa fare qualcosa di brutto a mia madre.
«Ripeti quello che hai detto?»
Inspiro evitando di inalare il suo alito pestilenziale. «Sta' lontano da me», ringhio e spingendolo riesco a divincolarmi.
Ma Ben è sempre stato una spina nel fianco e non comprende quando è il momento di smettere. Infatti, dopo appena pochi secondi, compie un gesto avventato mollandomi un pugno ben assestato in faccia.
Sa bene che la sua è una mossa scorretta.
Gli restituisco immediatamente il favore, riempiendogli il viso dopo averlo sbattuto a terra e avere rotto i quadri appesi alla parete in seguito all'urto.
Sono pieno di crepe. Incapace di guarire. Ad ogni passo, ogni respiro, ogni battito, si apre un nuovo solco e io ci precipito dentro lasciandomi circondare dal buio. Presto o tardi sarò solo oscurità e dolore che infliggerò a chiunque sia un ostacolo.
Non sento le urla di mia madre, non permetto a Ben di difendersi o rialzarsi.
Spengo l'interruttore delle emozioni e perdo il controllo lasciandolo dolorante al suolo solo quando capisco di avergli fatto recepire il messaggio.
Sangue, che cerco di trattenere in bocca, gocciola comunque a terra, imbratta il tappeto a forma di nuvola davanti al mobile in legno un po' ammaccato. «Questo era solo un avviso, Ben», gli mollo un calcio sull'addome e lui si lamenta rotolando sul tappeto.
«Rivoglio indietro i miei cinquantamila o ti consegnerò per quello che hai fatto a me e a mia madre».
Sotto lo sguardo sconvolto di quest'ultima, liscio e metto in ordine con le mani sporche di sangue la maglietta, i miei capelli scuri, ogni emozione ed esco di casa, determinato a farla pagare a chiunque si metterà sul mio cammino.
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