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Capitolo 11

~ Toren ~

Vorrei essere capace di cancellare i segni, il ricordo rimasto impresso sulla pelle ricoperta da incisioni. Vorrei essere capace di ritornare nel passato per non dover affrontare tutto questo. Perché ci sono scorci di conversazioni, parole, gesti, che mi riportano indietro. E se non troverò una soluzione, se non darò un ordine a me stesso di non cedere, crollerò fino a ridurmi cenere.
Una manata sulla nuca mi fa rinsavire. Rio mi ha detto qualcosa che chiaramente non ho sentito. Preso come sono a escogitare un piano per tenermi alla larga dai guai.
Deglutisco a fatica e la voce mi trema lievemente, perché arrochita, quando parlo. «Che c'è? Perché mi hai colpito?»
«Perché non sei qui. Cioè ci sei ma solo fisicamente. Si può sapere dove hai buttato la testa?»
Sto evitando in tutti i modi possibili di replicare ed essere costretto dal mio amico a confessare. So che sono entrambi curiosi di sapere. Ma vorrei tenere per me tutto quello che è successo. In particolare togliermi dalla mente quella dannata foto.
Ho commesso un errore dietro l'altro nel corso delle ore. Ho portato Luna a casa mia. Le ho fatto vedere uno scorcio della mia vita e lei non si è tirata indietro, non mi ha guardato con astio, non ha provato ribrezzo. Non si è nemmeno lamentata delle mie tazze per il caffè abbinate o delle coperte un po' ruvide a contatto con la sua pelle delicata.
In maniera inconscia ho annotato di doverle cambiare. Sembra un pensiero stupido ma l'idea di comprare qualcosa che possa ricordarmi quello che non posso avere manda in estasi il mio cervello.
Sono fuori di testa, me ne rendo conto. Proprio come ho la certezza che se solo i miei amici sapessero che l'ho toccata, anche solo per provocarla, mi spezzerebbero le dita.
Ho persino dovuto corrompere un vecchio amico per avere il suo numero. Non avevo mai dovuto ringraziare nessuno fino a ieri.
Mi sto trasformando in quello che ho sempre criticato o deriso.
«Sono solo stanco. Ho lavorato tutto il giorno mentre voi due dormivate. A differenza vostra io prendo seriamente i miei impegni».
«Che diamine», borbotta JonD dall'altro lato della stanza, lasciandosi cadere sul divano di pelle borgogna. «Hai le palle girate al contrario oggi? A volte penso che anche ai ragazzi venga il ciclo. Basta guardarti per avere la conferma».
Per quanto apprezzi la sua costanza nel tentativo di smorzare la tensione, l'aria che si respira qui dentro è comunque tesa. Principalmente da quando Rio ci ha avvertiti della festa che Alissa ha organizzato, invitando noi tre tramite Summer.
«A voi non insospettisce nemmeno un po' che non ci sia nessun altro?»
«Siamo adulti e capaci di cavarci fuori da ogni situazione. Non credo abbia in mente di farci fuori. Non sarebbe una mossa tanto furba. E dubito che non si trasformerà in una di quelle feste da gente ricca piena di idioti», Rio chiede indirettamente conferma in JonD, il quale balzando dal divano annuisce poco convinto. «Esatto. Riusciremo a cavarcela».
Bevo un lungo sorso d'acqua osservando il mio amico. Spalle tese, sguardo smarrito. «Che cosa hai fatto esattamente con Alissa? Credi davvero che voglia conoscerci?»
Lui avvampa. Reazione che non ha mai, nemmeno quando fa qualcosa di davvero imbarazzante. Strofina i palmi prima di darmi una risposta. «Niente di compromettente, calmati Terminator. L'ho solo osservata per gran parte della serata. Se lo stai pensando, hai ragione, mi sono comportato da pervertito. Ma non avrei molte delle informazioni in mio possesso se non avessi agito in questo modo».
A volte mi fa paura. So che dietro quello strato di allegria nasconde un'intelligenza straordinaria. Mai dubitato su questo. Eppure mi preoccupa la sua improvvisa e tenace ostinazione.
Notando le nostre espressioni dubbiose, domanda: «Che c'è?»
«C'è che non è da te rischiare così tanto per una vendetta. Dovresti fare attenzione, non m'ispira molta fiducia quella ragazza».
Gratta la guancia. «Ne terrò conto e vi ricrederete. Di te invece che mi dici? Continui a fare gli occhi dolci a Luna. Per non parlare del fatto che negli ultimi due minuti hai controllato il telefono come uno che deve piazzare un ordigno da qualche parte su ordine di un sadico. Hai qualcosa da confessare?»
«Già, hai qualcosa da confessare?», gli fa il verso Rio, ammiccando con un sorrisino sfrontato.
Sospiro esasperato. «Non ho niente da confessare. È solo una questione di lavoro. È venuta meno al patto, quindi sto escogitando come fargliela pagare», butto fuori. Tanto è impossibile avere segreti con loro.
Non abbiamo mai parlato molto di sentimenti o relazioni. Tutto quello che ci è capitato, lo abbiamo affrontato. E quando c'è stato bisogno di supporto abbiamo agito in silenzio.
Rio gioca con una sigaretta facendola girare tra le dita. «Ti ha dato buca?»
«Non esattamente», guardo fuori dalla piccola finestra rivolta sul cortile. Non voglio che notino la mia espressione.
«Che cosa significa "non esattamente"?»
«Mi ha espressamente detto che non verrà più all'officina e che quando avrò concluso dovrò contattarla. Vuole un rapporto professionale».
JonD apre la bocca per dire qualcosa, poi la richiude aggrottando le sopracciglia folte. La sorpresa nel suo sguardo è evidente e non riesce nemmeno a nasconderla. «Hai preso il tuo primo bidone!», sorride perfido con gli occhi che brillano. «Sto provando una certa soddisfazione. Ma non come avevo sempre immaginato», massaggia il mento.
«Grazie tante, stronzo!»
«Dovrei andare», dice Rio con urgenza dopo avere controllato l'ora. «Sono in ritardo. Sarò alla festa con Summer. Fate i bravi».
«Io passo».
«No, non puoi tirarti indietro. Tu verrai e ti vendicherai con Luna».
«Ragazzi, devo ricordarvi che siamo noi gli adulti qui?»
Ridono.
«Certo!», JonD segue Rio. Si volta camminando all'indietro. Le mani ficcate dentro le tasche. «Porta il tuo culo alla festa, "adulto"!»

Rimasto solo chiudo il garage che usiamo come ritrovo, spengo le luci e uscendo sul retro mi incammino verso il mio pick-up.
Sto proseguendo verso casa quando avvisto Ben. Cammina sul marciapiede all'angolo della strada, diretto al bar da Smith.
«È così che continui a sperperare i miei soldi, lurido parassita?», ringhio. «Quindi li tieni nascosti?»
Ben entra al bar, ignaro dei miei pensieri. Raggiungerlo e affrontarlo provocherebbe un altro litigio e tutti saprebbero dei nostri problemi.
Con mio sommo dispiacere, perché la voglia di picchiarlo è sempre tanta, proseguo obbligando me stesso a non fare niente di avventato.
Il signor Jenkins si trova in giardino con la moglie quando posteggio sul viale di casa. Mi piace vederli così legati e sempre pronti a battibeccare. Mi fanno credere che in fondo una relazione per essere duratura debba anche essere questo: litigi, odio, incomprensioni e poi amore. Un amore forte e indissolubile che superi qualsiasi cosa. Che allevi o spazzi via ogni dolore precedente.
«Ehi, figliolo!», mi saluta lui come farebbe un nonno.
Sollevo una mano. «Come va, vecchio?»
Mi punta il bastone come un fucile. Quello vero lo ha lasciato sicuramente dietro la porta. Il signor Jenkins non è un anziano come gli altri. Gli piace definirsi giovane dentro e si arrabbia quando lo provoco.
«Sono vivo», replica con quel tono di voce graffiante. «Devo ancora sopportare mia moglie e servirla a quanto pare».
La signora Jenkins: esile, capelli vaporosi quasi del tutto grigi, occhi acquosi, sempre ben vestita ed educata, picchia il palmo sulla nuca del marito.
«Ciao tesoro. Sei sempre più bello», si complimenta con me. Poi guarda storto il marito. «Ieri sera non lo dicevi quando ti massaggiavo i piedi. "Oh continua così, amore". Ti faccio vedere io se davanti a Tor cambi versione».
Sorrido e lasciandoli lì fuori a battibeccare entro in casa.
Floppy abbaia festoso. Mi abbasso per dargli un buffetto. «Ehi, piccolino».
Gli servo la cena e mentre lui mangia, rifletto se andare o meno alla festa.
Infine, mi preparo per la serata.

***

Sono un fascio di nervi quando raggiungo la villa di Alissa. Rispetto alla prima in possesso della sua famiglia, quella in un quartiere pieno di stronzi ricchi, questa si trova su una collinetta.
Si tratta di una villa con vetrate alte, meno sfarzosa delle altre costruite a distanza l'una dall'altra.
Le auto di JonD e Rio sono posteggiate sotto la tettoia di un garage aperto, quindi stanno aspettando solo me. Ma non sono venuto per restare.
La porta è aperta, supero un corridoio illuminato, ampio, con il pavimento in marmo coperto da un tappeto rosso per preservarlo e proseguo in direzione della musica.
Cerco i miei amici e li trovo in giardino.
C'è una piscina rettangolare con una spessa fontana a forma di roccia bianca dalla quale il flusso dell'acqua scende a cascata. Un fuoco è stato acceso all'interno di un braciere con delle sedie disposte intorno. A poca distanza dal salottino c'è anche un barbecue.
«Ehi!», mi saluta festosa Alissa. La prima ad accorgersi del mio arrivo.
Ha un'aria stranamente rilassata e la cosa m'innervosisce. Il cambiamento del suo atteggiamento nei nostri confronti è alquanto sospetto. Mi auguro che i miei amici non abbassino le difese.
«Ce ne hai messo di tempo. Indeciso se venire? O avevi qualche altro impegno?»
I miei occhi vagano intorno ancorandosi all'unica persona con cui ho bisogno di parlare. È da quando l'ho lasciata a casa che penso come un disco rotto a lei. Devo farle capire chi detta le regole del gioco.
Senza replicare ai saluti, punto su Luna. Lei, come se avesse colto al volo i miei pensieri, irrigidisce il corpo, adagia la lattina sul bordo della piscina dove se ne sta seduta con le gambe in acqua e si solleva proprio mentre la raggiungo.
La afferro per il polso e la trascino all'entrata. Con molta meno forza la spingo contro il muro di fianco a un quadro e la intrappolo.
Averla vicina scatena in me pensieri osceni, voglie mai percepite. È come un fuoco appena divampato. All'inizio debole, ma se aizzato capace di bruciare e propagarsi su qualsiasi cosa.
Sembra si stia sforzando a non incontrare il mio sguardo. Ma è inevitabile. Quando lo fa, l'aria intorno a noi si carica in maniera percettibile. Non è solo elettricità. È qualcosa che ti si insinua sottopelle e ti regala uno scossone. Lo sento ovunque. Mi riempie, mi scorre frenetico nelle vene. Mi intorpidisce tutti i sensi.
«Davvero ti credi tanto furba?»
«E tu di potermi obbligare a fare qualcosa minacciandomi?»
Non ho voglia di perdere tempo. Vado dritto al dunque. «Preparati, a breve sapranno tutti quello che è successo, compreso tuo padre, il tuo adorato fratellone e Declan!»
Non appena nomino quest'ultimo la sua espressione cambia. Ha una cotta per quel coglione o cosa?
«Non puoi farlo!», alza il tono. «Non sono venuta perché avevo delle cose da fare per i miei...»
«Stronzate!», la interrompo bruscamente. Lecco le labbra e la fisso in cagnesco. «Ti darò un'altra occasione, ma non credere di avere vinto», mi allontano e invece di entrare e divertirmi, me ne vado.
Non sono dell'umore per una festa o per fingere che Alissa mi stia a genio.
Sento dei passi alle mie spalle. «Dove vai?»
«Non sono cazzi tuoi!»
Storce il labbro. «È successo qualcosa?»
Come diavolo fa? Qual è il suo potere?
Ciò che sto facendo è vile, ma adoro vederla in difficoltà. Ignorandola entro in auto, accendo una sigaretta e proprio mentre sto avviando il motore sento la portiera sbattere.
«Esci dalla mia auto!», sbraito infuriato. Non ho bisogno di guardare per capire che è lei. Il suo profumo dolce sta già avvolgendo l'abitacolo e sta avvelenando il mio corpo.
«Dove stai andando?», indaga mettendosi comoda, affatto intimidita.
Aspiro una lunga boccata. «Non hai sentito? Esci subito dalla mia auto».
Incrocia le braccia al petto con ostinazione. «Parti», solleva il mento e gli angoli delle labbra le si incurvano. «Vengo con te».
Scendo dall'auto, giro intorno e apro la portiera del passeggero con una certa furia. Lei risucchia l'aria in pancia, si ritrae, ma le ho già afferrato le caviglie sottili. Strilla, cerca di scalciare. Sono più forte di lei. La trascino fuori, la sollevo come se fosse una piuma caricandomela in spalla e dopo averla rimessa a terra, la spingo facendola incespicare lungo il viale acciottolato. I suoi passi malfermi emettono uno scricchiolio rumoroso.
Mi guarda storto mettendo in ordine i capelli dalle punte colorate sempre più sbiadite.
Le sorrido. «Sto andando a scoparmi un'amica. Dubito che tu abbia voglia di partecipare. Le orge non fanno per le bacchettone come te», entro in auto e detestandomi profondamente, mi allontano guardando la sua espressione ferita dallo specchietto retrovisore.

Passo nel mio vecchio quartiere per tornare a casa e notando le luci accese, mi fermo da mia madre per vedere se ha bisogno di qualcosa.
Non busso alla porta perché la trovo aperta. Voci concitate mi raggiungono dall'interno. Faccio subito il mio ingresso trovando i primi segni di un disordine sospetto.
Il cuore prende a battere forsennato, un rombo sordo che mi spinge ad avanzare più in fretta che posso. Varco la soglia e trovo Ben furioso, la stretta intorno al collo di mia madre, tenuta contro il ripiano della cucina a isola, braccata dal suo corpo muscoloso.
«Sei una puttana!», le urla.
«Tor, no», dice mia madre, il tono ridotto a una supplica quando mi vede arrivare come una fiera alle spalle di Ben.
La sento appena la sua voce. Accecato come sono dalla furia omicida che mi divampa dentro come acido corrosivo. Mi faccio strada a grandi passi e strattono Ben.
«Allontanati da lei. Subito!», ringhio abbattendomi su di lui. «Hai sentito? Toglile le mani di dosso!»
Lo afferro per la camicia a quadri rossa e nera a maniche corte, indossata sopra una canottiera bianca aperta sul davanti e lo spingo con violenza contro la parete.
La puzza d'alcol raggiunge le mie narici e da questo particolare rivoltante comprendo che è ubriaco fradicio.
Guardo subito mia madre. Tiene la mano sulla gola arrossata, ha una manica della canottiera colorata strappata, un livido sul braccio e gli occhi sbarrati pieni di lacrime che tenta di nascondere.
«Stai bene? Ti ha fatto qualcos'altro?»
Lei indietreggia smarrita. «Sto bene, Tor. Che ci fai qui?», balbetta come se non volesse farmi assistere a tutto questo. Ma so già che Ben ha qualcosa che non va. Lo so da anni. Solo, non avrei dovuto permettere a mia madre di continuare a vivere insieme a lui.
Quante altre volte è successo in mia assenza?
«Che ci faccio qui?», sbraito sentendomi quasi schernito. «Perché invece non mi dici che cazzo succede, eh?», sbatto ancora Ben alla parete per non farlo muovere, tenendogli fermo il braccio dietro la schiena. Un movimento e glielo spezzo. «Perché ti ha messo le mani addosso questo lurido maiale?»
Ben si dimena. «Piccolo stronzo. Appena mi libero ti faccio fuori!», minaccia.
«Provaci».
Lo lascio andare, attendo che faccia la sua mossa e ha solo il tempo di voltarsi. Lo attacco dandogli una testata, subito dopo gli mollo un pugno così forte da farlo rovinare a terra con un tonfo.
Si lamenta portando la mano sul labbro chiazzato di sangue, il naso gli si è rotto e gli si sta già gonfiando.
«Dovevo dirle di liberarsi di te. Sei sempre stato un problema!», mi sputa addosso con rabbia.
«Ben!», interviene mia madre, scongelandosi dall'angolo della cucina in cui si era rannicchiata come un topo. «Adesso smettila!»
«Da quanto ti mette le mani addosso?», le domando come una furia, pronto a colpire ancora Ben. Con la coda dell'occhio controllo che rimanga a gemere sul pavimento.
«È mia moglie! Posso rimetterla in riga quando e come voglio», biascica. «Sei tu quello che deve stare al suo posto, fottuto stronzo».
«Ah sì?»
Mi guarda e sorride. «Esatto!», si alza con uno slancio e prova ad afferrarmi.
Sollevo istintivamente il braccio e lo spingo, costringendolo a indietreggiare fino a incatenarlo con le spalle alla parete.
Premo forte l'avambraccio sulla sua gola, facendogli provare la stessa sensazione che lui ha provocato a mia madre. Il suo viso si fa rosso e gli occhi gli escono dalle orbite.
«Se succederà ancora ti farò a pezzi. E sì, è una minaccia. Nessuno tocca mia madre!», una ginocchiata e si lamenta. Poi però ridacchia guardandola, tentando invano di allontanare il mio braccio di nuovo premuto sul suo collo.
«Digli che cosa hai fatto. Digli come mi aspettavi pronta a giudicarmi e a sgridarmi. Lo fa sempre. Mi controlla come un cazzo di segugio. Ma non apre più le gambe come faceva un tempo».
Arriccio il naso sempre più disgustato da lui e inspiro appena. «Eri da Smith, lo so. Conoscendola ti avrà solo detto di non bere così tanto e di non guidare quando non sei lucido perché potresti provocare un incidente. È l'unica persona che si preoccupa per te, cazzo! E cosa fai? Le metti le mani addosso. Cristo, Ben, cresci un po' e smettila di essere tanto coglione, egoista e narcisista».
Lui avvampa. Le guance con la barba ispira gli si riempiono di chiazze rosse. Partono dal collo, la vena ingrossata che pulsa al ritmo del suo cuore. «Mi stai seguendo? È questo quello che fai adesso? Te l'ha detto lei? Lurida...»
«Tor, lascialo andare. È tutto a posto», mi dice mia madre per scongelare la tensione e intuendo che sto per esplodere.
Nego. «No, non è tutto a posto. Questo farabutto stava per picchiarti e Dio solo sa che altro. Stai davvero cercando di giustificarlo adesso?»
Ben ne approfitta per svincolarsi dalla mia presa e prova a colpire.
Un urlo esplode dentro la stanza. Non è da parte di mia madre, la quale sussulta tappandosi la bocca.
Il pugno lo sento appena quando sfrega sullo zigomo. Ma l'intensità con cui scopro chi si trova alle mie spalle, fa molto più male.
Ci voltiamo tutti in direzione del suono e Luna se ne sta sulla soglia. Gli occhi sbarrati, le mani che tremano mollemente sui fianchi.
No, non posso crederci!
«E lei che cosa ci fa qui?», Ben la indica come se fosse uno scarafaggio.
Vorrei saperlo anch'io.
Mia madre invece, notandola sconvolta, dandosi un contegno le si avvicina. «Tesoro, stai bene? Perché sei qui? Ti serve qualcosa?»
Luna continua a fissarmi respirando affannosamente. Ricambio con odio. «Vattene!», sibilo.
Coglie al volo l'avvertimento. Sbatte le palpebre e guarda smarrita mia madre: «Scusate, ho solo... volevo...», balbetta poi gira sui tacchi ed esce di corsa.
Ben ride e di seguito lascia uscire un colpo di tosse, pulendo l'angolo della bocca con il bordo della camicia. «Adesso hai messo gli occhi sulla figlia di Ector Maddox? Sei davvero stupido come ho sempre pensato. Quella là non è alla tua portata. Tu non sarai mai abbastanza per lei. Sei solo feccia! Un ingrato! Un piccolo bastardo!»
Lo spingo. «Non sei nella posizione di darmi consigli o di giudicarmi. Adesso se sei calmo, va' a fare una doccia. Puzzi come un gatto randagio. Prima però chiedi scusa a mia madre», lo minaccio.
Lui sbuffa come un bambino e avvicinandosi a lei sorride come uno psicopatico. «Non ho ancora finito con te».
Gli mollo un calcio sul sedere abbastanza forte da farlo incespicare. «Muoviti e non farmi incazzare!»
Solleva i palmi in segno di resa. «Prima o poi ti darò una lezione, piccolo di casa».
Ignorando la sua minaccia, controllo che sia entrato nel bagno. Mi volto subito verso mia madre e la guardo con rimprovero. «Sai che ho ragione».
«Tor...»
Scuoto la testa e deluso mi allontano da lei per correre fuori e risolvere un'altra questione.
La cerco. So che è ancora qua. Infatti se ne sta appoggiata al mio pick-up. È spaventata. Lo vedo da come tortura le dita e cerca di trattenere le lacrime.
È venuta a piedi?
Mi avvicino a lei afferrandole il mento. «Tu non hai visto un cazzo, intesi?»
Corruga la fronte così tanto da unire le sopracciglia, deglutisce a fatica, ma a causa della pressione esercitata dalle mie dita, annuisce.
Le apro la portiera. «Aspettami un momento qui. Ti riporto subito alla festa».
Senza attendere una replica da parte sua torno in casa. Mamma sta raccogliendo i cocci di un bicchiere. «Mi dispiace», dice afflitta.
«Tu questa notte non ci dormi qui con lui», passo la mano tra i capelli cercando una soluzione. «Posso pagarti una stanza».
Lava le mani. «Tor, non posso lasciarlo solo. Si incazzerà di più, lo conosci. Si è appena calmato e non farà più niente. Era solo arrabbiato per avere perso una partita e io...», smette di parlare, ha capito al volo che non è quello che voglio sentire. «Va' dalla tua amica. Qui me la cavo».
La azzittisco con uno solo dei miei sguardi. «Non gli permetterò per nessuna ragione di metterti ancora le mani addosso. Ha superato un confine. Non avrebbe dovuto arrivare a tanto. È un maledetto verme schifoso che non merita più alcuna pietà. Solo di essere schiacciato. Dovresti lasciarlo definitivamente, farti una nuova vita», frustrato le do un bacio sulla tempia abbastanza prolungato. «Chiamami se hai bisogno. Più tardi passerò a controllare».
«Non devi. Ti voglio bene, Toren».
Esco di casa con un enorme peso nel petto. So che mia madre è forte abbastanza, ma per troppo tempo è rimasta intrappolata in una vita che lentamente la sta sfinendo e facendo sfiorire.
In passato ne ho discusso con le mie sorelle. Però non è servito. Mia madre continuerà sempre a essere legata a quel parassita.
Entro in auto sbattendo la portiera e senza dire niente torno verso la villa di Alissa.
Siamo quasi arrivati quando Luna adagia la mano sul mio avambraccio facendomi sussultare e ricordare la ragione per cui si trova in macchina con me.
Freno in uno stridio di gomme. Lei sobbalza lievemente in avanti, ma la cintura attutisce il colpo impedendole di spaccarsi la fronte sul vetro del barabrezza.
«Ho una sola domanda prima di lasciarti andare», comincio guardando la strada illuminata dai fari della mia auto. «Perché eri lì?»
All'inizio non parla e in me fa crescere la rabbia. Poi però sgancia la cintura. «Lascia guidare me. Vai troppo veloce. Ti porto in un posto così possiamo parlare», con un movimento fluido sgancia anche la mia cintura e tirandomi per un braccio mi fa passare sul lato del passeggero mentre lei si posiziona alla guida.
Impiega qualche istante per capire come funzionano i comandi e invece di proseguire verso la festa, mi trascina dentro una piccola radura, per poi fermarsi in uno spiazzale dove è possibile vedere la città dall'alto.
Esce dall'auto. La seguo a ruota appoggiandomi allo sportello. Mi accendo una sigaretta ascoltando il frinire costante delle cicale, il rumore delle auto che sfrecciano alle nostre spalle. L'aria è più leggera qui sopra. Un misto di terra e polvere e oceano.
Luna si avvicina. «Subito dopo che ti sei allontanato, avevo bisogno di fare due passi. Non mi è piaciuto come mi hai liquidata. Così mi sono incamminata tra i quartieri e quando ho visto la tua auto mi sono fermata. La porta era aperta e le urla si sentivano dal marciapiede. Io... io non volevo entrare, appena però la tua voce si è fatta roca ho iniziato ad avanzare, senza pensa...»
Chiudo i pugni sugli occhi. «Non avresti dovuto», la interrompo con rimprovero.
Poteva farsi male. Cazzo!
«Lo so. Ho invaso la tua privacy e mi dispiace. Ma ho avuto paura per te».
Fisso le luci delle case in lontananza. «Non è mai successo».
«Ma...»
La guardo fisso e lei trattiene il fiato. Passo le dita tra i capelli tirandoli lievemente fino ad avere male alla cute.
Rabbia. Risentimento. Distacco. Ho costruito la mia vita sotto queste macerie asfissianti per proteggermi.
La sua forza d'attrazione è così potente da essere costretto a lottare per non avvicinarmi, per non sfiorarla, per non risentire addosso il bisogno di un altro lungo brivido.
Lei è qui, accanto a me e non si accorge che riesce a mandare il mio mondo fuori asse.
Ma non posso proteggerla dai miei demoni.
«Hai vinto. Non appena la tua fottuta auto sarà pronta, verrà portata a casa tua e sparirà dalla mia vista. Non c'è bisogno che vieni all'officina. Non ti voglio lì».
Il suo viso divampa in una moltitudine di espressioni dalla più fredda alla più violenta. Ma non replica. Sa di avere sbagliato. Ma non sa di avermi salvato e di avere quasi spaccato il mio guscio con il suo gesto.
Lei mi sta strappando in due l'anima come se fosse un foglio di carta. Ma so che non potrà mai rimettere insieme i miei pezzi. Perché sono accartocciato, pieno di macchie d'inchiostro, di segni, di errori.
Salgo in auto e lei si affretta a prendere posto sul sedile.
Quando la lascio di fronte alla villa, i suoi occhi stanno cercando di suggerirmi qualcosa. Ma ho smesso di interessarmi ai sentimenti quando ho capito che mio padre era uno stronzo e io il frutto triturato di una società che non lascia scampo o spazio ai deboli.

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