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Negus

Se non fosse stato per quel cielo di porcellana alto e lustro non avrebbe esitato a giudicare quella giornata appena iniziata con la solita occhiata fosca.

Accanto alla finestra, come una bambola accomodata sulla poltrona, sua sorella moriva piano. Imprigionata in un presente senza domani, Amelia ascoltava la radio avvolta nell'immobilità mentre la mente vacua sorvolava un ricordo antico, capace di suscitare un sapore consunto al centro del palato.

Da molto tempo la facoltà di formulare suoni e parole l'aveva abbandonata scippandola  dell'arma con cui era solita esercitare la sua ira complessa e crudele. 

Ora quel corpo disseccato, ridotto ad un mucchio d'ossa privo di forma, la traghettava verso la morte nella coscienza piena del tempo immobile, nel silenzio del letto intonso. Lo sguardo di bambola riluceva del riflesso vuoto del vetro: azzurri, aguzzi globi lisci protesi verso l'esterno assorbivano la maggior quantità di mondo possibile.

Livia le pettinava i capelli. Li acconciava con delicatezza nonostante la caotica spavalderia del taglio d'ospedale. Nulla sfuggiva all'occhio attento di chi, per anni, aveva rassettato case estranee. Amelia non aveva mai esibito unghie tanto perfette, gentilmente laccate di rosa, mentre Livia ungeva le piaghe orrende con balsami propizi ad alleviare un dolore che la sorella non avvertiva, avvolta nella definitiva pausa dalle segnalazioni dei sensi.

Puntuale, Livia controllava la flebo. Amalia osservava la sua personale giardiniera attraverso il vetro azzurro degli occhi.

Livia aveva trascorso tutta la vita a servizio in casa di signori: negli anni si era convinta che solo la metodica ripetizione di gesti definisse lo spazio e il tempo. Piegare e sistemare, aprire e chiudere, cuocere e cibare, pulire e sporcare: questi i comandi in grado di sancire appieno le ragioni dell'essere. Si trattava di atti costitutivi in grado di definire i contorni labili del tempo.

Livia si avvicinò alla finestra scostando appena le tendine. Il vetro rifletteva ammiccante la sua immagine sospesa contro il verde del giardino e il giallo della strada.

La lungimirante saggezza della gente di paese l'aveva ribattezzata Negus a causa di quella sua sciocca testa d'uovo che ostentava in cima ad un collo ossuto dal colore sfrontatamente brunastro. Pelle spessa, conciata. A nulla era valso l'accostamento discreto d'un esiguo numero di doti naturali. I grandi occhi neri, cadenti all'ingiù e le sopracciglia morbide come seta sotto le dita erano piccoli doni privi di valore, soverchiati dalla scialba opacità diffusa attorno alla sua persona. Una lotta impari si consumava da decenni su quel suo volto: una continua concorrenza tra una bellezza nascosta e la spudoratezza eclatante della peluria tenera cosparsa sul labbro superiore. Localizzata. Inderogabile. Capelli neri bordavano la superficie conciata di quella testa d'uovo, attraversata da una striatura di bianco opaco.

Il rossetto sulle labbra rivolte all'ingiù celava una chiostra di denti d'avorio giallo da grande erbivoro. Piccoli spazi neri li separavano l'uno dall'altro. Un disco girava nell'aria. 

Negus: brutta, sciocca e priva d'intelligenza era invecchiata gobba e stretta tra le spalle sottili, mal sostenute dalla schiena e curvate da una precoce denutrizione. Gli anni della sua adolescenza li aveva trascorsi in sanatorio.

Ogni sera quando si addormentava ripercorreva con la mente gli alti padiglioni, le stanze in cui il suono rotolava nel ciabattare distratto delle suore. Ricordava la sensazione di piacere che si impossessava di lei al momento di coricarsi. La testiera in metallo laccato, il materasso di nodi di lana, le lenzuola ruvide in cui strusciare i piedi callosi. La notte, una suora appena illuminata da una lampada risplendeva nel bianco del velo mentre vegliava sulla intera camerata. Le bottiglie dell'acqua calda, in cui il liquido rimbalzava, gongolavano tra le lenzuola dei letti delle ragazze.

Il respiro impercettibile della sorella sembrava tagliare l'aria con piccole lame d'acciaio. 

Il Negus la osservò inquieta lasciando scivolare lo sguardo sul lettino su cui passava le sue notti. Era ancora sfatto. Aveva preso l'abitudine di dormire lì, nella stanza della quasi-morta su una specie di barella sbrecciata che aveva affiancato al grande tabernacolo, l'enorme branda ospedaliera in metallo cromato in cui Amelia moriva.

Come ai tempi dell'infanzia dormivano l'una accanto all'altra, quando i loro capelli sottili e leggeri si intrecciavano nel sonno scomposto. Le loro menti, accostate per innumerevoli notti nel corso d'una vita passata, non avevano mai nutrito sogni comuni.

Il respiro tagliente di Amelia sibilava rapido nell'aria.  

Il Negus percorse con lo sguardo attento ogni singola striatura di quelle sue mani sottili e nodose come arbusti disseccati al sole. Ogni singolo grumo di pelle raccontava storie di sapone, di olio bollente. Un'artigliata di forno, giochi di gatto. Negus leggeva su quelle mani tutta la loro storia. Da qualche tempo una paura dal nocciolo doloroso la coglieva alla sprovvista nei momenti in cui la solitudine sembrava premere contro la sua anima tenera.

Di fronte allo spettacolo di sentimenti devastati, abbandonati come carcasse sporche in quel suo cuore di vecchia, la necessità di auto conservazione correva in suo soccorso plasmando la natura malleabile del ricordo. 

Nel silenzio delle cose che muoiono si faceva strada l'eco di immagini sopravviventi: il cigolio del pavimento nella casa della sua infanzia, la finestra che disegnava una strada incendiata di sole oltre la mussola bianca delle tende. Ascoltava le preghiere cattoliche di sua madre perdersi tra le fibre del legno sotto gli occhi languidi di una Madonna di Raffaello. La voce di suo nonno garibaldino che usciva da un buco nella barba bianca. Metodica, lustrò per bene i ricordi collocando con cura, al suo posto, la cornice d'argento che conteneva l'immagine di suo padre a vent'anni.

La paura era passata e il cuore batteva un tempo regolare.  

Mezzogiorno era arrivato senza preavviso. Attraverso le tende Livia spiava la grande ampiezza della palude e la lunga strada sterrata a forma di L che tangeva, con un'impensata curva a gomito, l'oratorio di San Gaetano da Thiene.

Si diresse verso la cucina. 

Degli anni sgraziati, passati ciabattando sui pavimenti delle case dei ricchi, conservava innumerevoli cimeli. Oggetti di pregio scartati dall'annoiata borghesia affamata di novità. Lungo il corridoio c'era un imponente armadio grammofono; qualche dozzina i libri illustrati nella libreria; unservizio di bicchieri in cristallo nel cuore sicuro della credenza. La pendola dal quadrante in vetro di Murano segnava cinque minuti dopo le dodici. Le restava anche una sorella immobile, carcassa nefasta di un'epoca passata che la osservava dal suo angolo lindo, con sguardo luccicante.

Amelia era già un ricordo che galleggiava sull'acqua. Niente più la legava al mondo dei vivi, certo non quel mattino di placida porcellana in cui l'indifferenza umana sembrava oltrepassare ogni pensiero. 

Il disco aveva smesso di suonare e il Negus tornò in salotto seguita dai colpi secchi delle ciabatte. Con gesto gentile aprì gli occhielli del sacchetto più nuovo e li avvolse con perizia attorno al collo della sorella. La sua faccia bianca sparì tra le pieghe crespe della busta gialla del supermercato. Con le mani si assicurò di stendere bene la plastica attorno al naso e alla bocca e legò un doppio nodo stretto, pizzicando la pelle molle del collo.

Rimase immobile per molto tempo, tenendo stretto il velo di plastica nel silenzio liscio del televisore spento.

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