Side A
Al contrario di ciò che poteva sembrare, e nonostante mi avesse iniziato alle sue attività illecite che avevo appena sette anni, io con mio padre mi divertivo davvero tanto.
Non fosse altro perché, più spesso di quanto confessasse a mamma, seguirlo la mattina si rivelava un modo per saltare la scuola che tanto mi annoiava.
Ammetto a posteriori che a me pareva tutto un grande gioco, un intrattenimento che lui organizzava apposta per trascorrere de tempo col suo unico figlio.
La sveglia all'alba per scappare di corsa al porto, i tanti pacchi di Gauloises appena giunti dalla Francia, prima da nascondere dentro il cappottino sdrucito e poi svuotare in fretta in macchina, e ancora i pezzi di cartone da sbrindellare, i piccoli bulloni che mi raccomando Manu mettili in fondo, in fondo, a papà... non si devono sentire! e infine la felicità quando, arrivati vicino la stazione, ci mettevamo a vendere a degli ignari avventori.
Quanti mi piaceva quando faceva il suo trucco di magia!
Ricordo che mostrava sempre i pacchetti buoni di sigarette a coloro che, scettici, chiedevano di controllare e, dopo averli convinti dell'affidabilità del prodotto, batteva una mano sopra il banco cosicché da sotto sbucassi io ad allungargli le stecche piene invece di viti e cartacce.
Si complimentava ogni volta mio padre, diceva che non sarebbe mai stato capace di fare bene il mestiere senza di me, che dopo la quinta elementare avrei dovuto lasciare la scuola, non ascoltare mamma che mi voleva addirittura diplomato e continuare invece la tradizione di contrabbando della mia famiglia.
Che belle prospettive! E che bella parola contrabbando!, pensavo io, credendola ingenuamente un richiamo a qualche artista, forse alla musica di Pino Daniele e del suo complesso che – mentre fuggivamo dal porto – ascoltavamo di continuo in macchina.
Fu comunque in quelle mattinate in cui non esisteva né estate né inverno, ma solo la necessità di racimolare quanti più soldi possibili, che conobbi Chicca e Matteo.
Venivano da un quartiere diverso dal mio, ma anche loro con i rispettivi genitori – chi vendeva alcolici rubati, chi prometteva grandi successi leggendo la mano – operavano nella stessa zona.
Papà era piuttosto diffidente, mi ripeteva come non si potessero avere amici nel nostro lavoro, ma io non volevo credergli, che Matteo una volta mi aveva salvato da un bulletto più grande e Chicca mi aveva offerto un amuleto della fortuna preso dal banchetto della madre, e tali gesti qualche cosa dovevano pur voler dire, no?
Ci trovammo a crescere insieme noi tre, confrontando ognuno la propria miseria, la quale, ai nostri occhi di ragazzini, sembrava invece una grande fortuna, una serie di opportunità diverse a cui votarsi ogni giorno, senza sapere mai cosa ci riservava il domani.
Io, ad esempio, non potevo proprio prevedere che qualche anno dopo, in una gelida domenica di novembre, mio padre si sarebbe fatto fregare da una bella donna che, accanto a lui sul molo, continuava ad importunarlo.
Fin quando si accorse del tempo perso, della guardia in borghese che la signora in realtà era, e si precipitò verso la macchina con me al seguito che a stento riuscivo a stargli dietro, altri agenti avevano già iniziato ad inseguirlo e, dopo una breve colluttazione, a prenderlo.
Lo imparai in quel frangente di puro terrore che, le canzoni tenute a volume tanto forte dall'autoradio, erano sempre stato il modo di papà per coprire le sirene della polizia.
*
Non fu facile ricostruire una vita che potesse definirsi tale dopo quel giorno.
Le stesse guardie del molo ci entrarono in casa d'improvviso, la rovesciarono senza pietà, frugarono ovunque, anche in posti che io nemmeno sapevo avessimo, come il piccolo nascondiglio sotto un'asse più scricchiolante delle altre nel pavimento.
Chili di cocaina continuava a dire il maresciallo e io mi ripetevo questa parola nella mente senza sapere cosa fosse e a che servisse.
Ricordo che mia madre ne venne fuori distrutta, annegata nei sensi di colpa per l'assoluta ignoranza – così giurò e spergiurò a chi la interrogava – delle attività illecite del marito e ancora di più dal terrore che qualcosa di brutto avrebbe potuto coinvolgere me.
Si prese addosso il peso degli eventi, anche di quelli che per la mia giovane età mi furono nascosti, raccolto tutto insieme come a contenerlo il più possibile in lei, a non lasciarlo straboccare oltre i suoi stessi confini.
Una massa scura e densa di dolore che accolse senza batter ciglio e che le trasfigurò il volto, glielo incupì, togliendole il sorriso e rendendola a tratti irriconoscibile.
Davanti a me, comunque, cercava di colorare il malessere di una finta normalità, quasi che nulla fosse cambiato, quasi che fossimo sempre stati solo noi due e nessun altro in quella casa.
Ma io di mio padre e della sua presenza mi ricordavo bene e alla pantomima in atto non volevo cedere.
Allora divenni presto burbero, inquieto, odiai mamma come si odia ciò che non si capisce, senza mettermi in discussione, ma con la pretesa di essere nel giusto, di non aver bisogno di conoscere altro se non le mie ragioni.
Che la nostra serenità fosse stata stravolta in modo tanto devastante mi pareva inaccettabile, non mi faceva prendere pace e finivo per scaricare su di lei la responsabilità di ogni cosa.
Le gridai che se aveva cacciato papà pur di obbligarmi alla scuola aveva perso tempo, che faceva prima a farlo tornare, che tanto mi ero preso la licenza elementare e questo mi bastava, che lei lo doveva capire, alzai la voce, mi sentii cattivo mentre parlavo, storpiato da una bruttezza che dalle parole prendeva la bocca, il viso, tutto.
Mamma non reagì, stette ad ascoltarmi come se davvero avesse senso ciò che dicevo.
Dopo un po' però scoppiai in lacrime nervose e solo allora si fece vicino, mi strinse prima che lo facessi io, quasi a chiedere ammenda anche con il corpo.
Si scusò a lungo, di tutto il male che ti ho fatto vedere, disse e io, al sicuro tra le sue braccia, mi acquietai almeno per quella sera.
*
Le musicassette di papà sopravvissute alla retata riuscii a riprenderle in mano solo parecchi mesi dopo, quando ormai, grazie anche all'intervento di Chicca e Matteo, mi ero convinto ad iscrivermi alle medie, anche solo per fare qualcosa che non fosse bighellonare da solo per ore.
Mamma infatti, per assicurarci un minimo di entrate necessarie a vivere, aveva preso a lavorare in una drogheria nel quartiere.
Non credo lo avesse mai fatti in vita sua, poiché quando c'era papà rimaneva sempre in casa su richiesta di lui e a me pareva una bella cosa.
Vuole proteggerla – mi dicevo – perciò non la fa mai uscire.
Il proprietario della bottega era un anziano signore, accogliente, eppure discreto, che della vicenda caduta sopra le nostre teste non solo non se ne interessava, ma obbligava pure qualunque cliente, a fare altrettanto.
Quanto a me, nonostante avessi ripreso a studiare, devo dire che fra i banchi non ero tutto questo gran talento.
Me la cavavo in alcune materie, certo, ma ai tomi accademici continuavo a preferire l'ascolto della musica, soprattutto le nuove uscite, quelle che finivano nella hit parade della settimana e che io seguivo attentamente dalle decine di tv esposte nel negozio di dischi difronte scuola.
Trascorrevo ore intere là dentro, al punto tale che mamma – da quando aveva scoperto la mia nuova passione – nemmeno si preoccupava più se non tornavo a casa prima che fosse pomeriggio inoltrato.
Coinvolgevo pure Chicca e Matteo, ormai diventati miei compagni di classe, in questa attività e anticipavo anche agli altri amici quali artisti sarebbero arrivati dall'America a scalare le classifiche e a dettare nuove mode.
La titolare del posto, poi, a furia di vedermi tutti i giorni, aveva sviluppato un vero e proprio debole per me, mi trattava come fossi il suo miglior cliente anche se non compravo quasi mai nulla, mi regalava album appena usciti, che questo ti piace sicuro Manué! attestava e persino un piccolo registratore con cui cominciai a prendere confidenza fra un brano e l'altro ascoltato in radio.
Mi divertivo a creare delle brevi playlist – all'epoca si chiamavano mixtape – e le mettevo su cassettine vuote che sempre la gentile signora, Rossana, mi procurava senza mai chiedermi un soldo, solo di fargliele ascoltare in anteprima, così mi fai contenta... che tu sei bravo assai.
Non sapevo se ero bravo davvero, non conoscevo nessuno che facesse una cosa del genere a cui paragonarmi, ma mi divertivo tanto a sperimentare, a legare brani di cantanti diversi che, secondo me, trovavano un loro filo conduttore se ascoltati uno dopo l'altro.
Ad ogni modo, l'occasione di pensare alle mie compilation come altro da un semplice hobby, arrivò casualmente a seguito di una richiesta di Matteo.
Se ne venne un pomeriggio a cercarmi al negozio, dove mi trovò intento a riascoltare l'ultima uscita degli emergenti Duran Duran e a prendere appunti sulle loro differenze dagli già noti Spandau Ballet.
Era paonazzo in volto e nervoso nel parlare.
Disse vago che doveva chiedermi una cortesia, che solo io potevo aiutarlo, testuali parole, e già allora non lo ascoltai più, ma cominciai a temere che cercasse un complice per commettere furti o cose di quel tipo.
Mi spaventai, mi offesi.
Ma più di tutto, senza un'apparente logica, mi tornò alla mente un libro letto mesi prima che spiegava come, sulla figura del genitore, ogni figlio finisce per modulare la propria esistenza.
Per quanto anche tenti di scollarsene – ripeteva – di approcciarsi a modelli del tutto antitetici, c'era una sorta di marchio atavico che in qualche maniera tendeva a segnarlo per tutta la vita.
Ragionai allora su di me, su quello che credevo di essere e su quanto invece era frutto di un'imitazione involontaria di chi mi aveva messo al mondo.
Lo stesso tomo che sfogliavo tra le mani, sottratto da una pila di libri in camera dei miei, pareva ratificare quanto in esso scritto, confermare insomma che la mia indole non si sarebbe incurvata a scoperte ed esperienze fatte o ancora da fare, ma avrebbe sempre teso a quello che aveva già acquisito per insegnamento passivo.
Davanti agli occhi confusi del mio amico immaginai non ci fossi più io, Manuel, quindicenne con la barba incolta, gli occhi curiosi e la tuta acrilica, ma mio padre, la sua faccia invecchiata, il suo vissuto, i suoi reati.
Feci appena in tempo ad andare in affanno, a non sentire più l'aria scendere nei polmoni che subito due dita schioccarono per ridestarmi.
"Ao! Guarda che se è 'n problema non me la devi fa' per forza sta cassettina."
Oh?
"Oh? Ma di che parli?"
Iniziò a sbuffare, poi scosse il capo un paio di volte e "calcola che so almeno dieci minuti che te sto a parla' de sta pischella!" disse "le vojo fa' un regalo... na cosa per farle capi' che so serio e magari tu me potevi fa' una di quelle raccolte tue con un po' de canzoni romantiche... niente di serio, eh! Che non se dovemo mica sposa'!"
Ci impiegai un po' a capire cosa mi stava domandando, ancora scosso dal turbinio di pensieri in cui era precipitata la mia testa, ma mi ripresi in tempo per notare che quel giorno era venuto a trovarmi stranamente solo – lui che non buttava un passo senza la sua migliore amica – e allora le sinapsi si rimisero in funzione tutte insieme.
"E' per Chicca!" urlai senza riuscire a fermarmi "il mixtape che vuoi è per lei!"
Matteo, se possibile, divenne ancora più rosso, si guardò attorno allarmato, ma trovò soltanto la signora Rossana che ci osservava divertita.
"Ma che te strilli?! Si, è per Chicca, va bene? Me la puoi fa' o no?"
"Non strillare tu, ao! Guarda che te la faccio" risi appena del suo imbarazzo "e non ti preoccupare che già domani è pronta!"
Quella promessa sembrò calmarlo, mi ringraziò, si mise a fischiettare un motivetto di una canzone che ammise però di non sapere, ma aveva sentito da Chicca e se l'era trascinato da casa sua al negozio pur di non dimenticarla.
Mi chiese se la conoscessi, ma capii che non gliene fregava nulla della mia cultura musicale, voleva solo che la inserissi nella compilation.
«More than this – Roxy Music» annotai distrattamente su un foglietto e da lì mi premurai di trovare tutto ciò che di simile a quella era uscito negli ultimi tempi.
Se ne andò contento Matteo, non prima però di avermi detto: "quando ti concentri metti sempre le mani sui fianchi e te viene pure 'na specie di ruga in mezzo alla fronte."
"...E quindi?"
"E quindi niente... me fa' sorride perché sei identico a tu' madre."
*
Dell'idea di mettere su un business con le cassette se ne parlò seriamente poche settimane dopo.
Specifico se ne parlò perché a farlo furono prima i miei amici tra di loro e solo poi, trascorsi quel paio di giorni necessari a definire la gestione dell'attività, si ricordarono di interpellarmi.
Io nel frattempo ero stato assunto part-time dalla signora Rossana la quale, con la scusa dell'età a rallentarla, del non farcela da sola a gestire tutto, era riuscita a farmi credere che servissi a quel lavoro più di quanto, in realtà, quel lavoro servisse a me.
Mi voleva un gran bene lei, me lo ripeteva di continuo, e non dubitava mai che sarei stato capace di fare tutto ciò che avrei voluto.
E anche quando Matteo e Chicca si presentarono al negozio per parlarmi della loro trovata, con tanto di dati alla mano e lista di futuri clienti già disponibili a comprare i miei mixtape, si pronunciò favorevolmente.
Si fece seria come poche volte l'avevo vista, disse che non dovevo perdere questa opportunità per nulla al mondo, che era importante per me e pure per gli altri, con le macchine moderne non ci vuole niente a registrare la musica – spiegò – ma tu la inventi daccapo Manué, la fai diventare un'altra cosa.
Mi vergognai, provai a schernirmi, ma lei non mi stette a sentire, si rivolse a Chicca e Matteo, li chiamò con vezzeggiativi affettuosi, quasi fosse una nonna ai nipoti, quello Manuel è stato così bravo con le canzoni che è riuscito pure a farvi mettere insieme, è vero?, indagò.
Precipitammo tutti e tre in un forte imbarazzo, balbettavamo frasi sconnesse che anche in tal caso non ascoltò, preferendo piuttosto spiegarci come con le cassette avrei fatto innamorare un sacco di gente, qualcuno anche di me.
Vaneggiò per un po' di una fantomatica persona di cui invaghirmi, non declinò mai le parole solo al femminile e mi venne l'ansia che stesse insinuando cose che nemmeno io avevo capito bene di me stesso.
Era un periodo confuso quello e, nel silenzio del mio disagio, arroccato dietro una muraglia di dischi, pensavo spesso a mio padre, alle volte in cui uscivamo all'alba e incontravamo per la città dei ragazzi che poi parevano scomparire appena faceva giorno.
Usava sempre termini che non conoscevo per definirli, ma anche se non mi apparteneva il significato, ne percepivo la cattiveria, il disgusto, talvolta pure la violenza in essi contenuta, se oltre alla bocca papà adoperava qualche calcio.
Ci teneva che io li guardassi in faccia, ne vedessi l'aspetto, forse voleva che mi impressionassi, ma a me sembravano uguali a noi e se provavo a dirglielo lui perdeva ancora di più le staffe, sono malati Manuel, insisteva e via di nuovo con le stesse parole di prima.
Eppure – pensavo imperterrito – io così diversi non li vedo.
Lo realizzai qualche anno dopo che in effetti non lo erano e che, a prendere mazzate da mio padre, solo per aver baciato un altro ragazzo, avrebbe potuto esserci chiunque.
Avrei potuto esserci io.
Mi ridestavo allora da ogni strana idea fluttuante nella mia testa, mi imponevo di non darci più peso, e in poco tempo finivo pure per trovare, tra le compagne del liceo, una fidanzatina.
Di questa tipa ne parlai a mia madre con un'urgenza quasi comica.
Era essenziale per me che lei mi sapesse impegnato, che mi comportavo come gli altri miei coetanei, quelli che stanno con le femmine, quelli che sono normali.
A mamma, comunque, lei non piacque proprio.
"Sta sempre zitta, tu poi te la trascini come una bomboniera" si lamentava "ma non puoi trovare qualcuno che abbia i tuoi stessi interessi? Hai così tante cose da dire amore mio... con questa ti reprimi soltanto."
Io al mio solito le diedi contro, le dissi che parlava per dare aria alla bocca, che per quanto poteva servire era a me che doveva piacere e che, anche se ci frequentavamo da pochissimo, magari un giorno me la sarei pure sposata.
Chiaramente nulla di tutto ciò avvenne.
Erano i primi tempi in cui tentavo di far decollare la mia inesistente carriera da disc-jokey, nessun locale mi chiamava, né io sapevo propormi, e così mi limitavo a stare al negozio per realizzare i mixtape con l'aiuto di Matteo e Chicca.
Le cose non stavano andando di certo come avrei sperato, ma almeno nelle cassettine che vendevano a velocità supersonica, sfogavo tutto l'estro creativo che ancora non sapevo di possedere.
Non mi importava dei soldi – quelli li smezzavo subito con i ragazzi, per poi spendere la mia parte in regali destinati a mamma e Rossana – io volevo solo fare musica, creare compilation e godermi la contentezza di chi le acquistava.
E forse fu per questo motivo che, un evento all'apparenza insignificante, quasi passato in sordina agli occhi degli altri, portò invece me a reagire con una veemenza mai saputa.
La ricordo come se ce l'avessi davanti adesso l'espressione contrita del ragazzo entrato a passo di carica nel negozio con tanto di cassetta ad agitarsi fra le mani.
Non mi diede tempo di capire nulla, cominciò subito ad inveire, prima contro Matteo, poi, presumo per una pura antipatia fisionomica, direttamente contro il mio viso.
Parlava velocissimo, faticavo a stargli dietro, su per giù diceva che era inconcepibile propinare una compilation del genere, solo un incompetente l'avrebbe potuta fare, che lui aveva chiesto artisti New Romantic e si era trovato invece un'accozzaglia di roba post-punk senza né capo né coda.
Persi la pazienza, feci per rispondere, ma quello continuava a sproloquiare, elencava nomi di band inglesi a raffica come fosse una lista della spesa, mostrava un'efficienza spaventosa, nella concitazione del momento ne rimasi colpito, mi confusi e, dopo qualche secondo, pure il mio interlocutore.
Ci calmammo allora un po' alla volta, i toni più più pacati e la presa di coscienza che quella lite esplosa da zero si era consumata sotto gli occhi esterrefatti di tutto il negozio, Rossana e i ragazzi compresi.
"E volevo anche dire" concluse lui che a quanto pare di stare zitto non era capace "ma si può sapere chi è sto Manuel Ferro?! Che poi, che razza di nome è per un dj?"
*
Quando si parlava di canzoni, o in generale di musica, c'era questa abitudine fra i miei amici, e non solo, di riconoscere in me una sorta di nume tutelare dell'argomento.
Manuel ne capisce, mo se la vede lui, diceva Rossana ad ogni cliente che chiedeva un consiglio, quello la musica la parla, e io mi imbarazzavo, facevo il modesto, ma il ruolo alla fine mi piaceva, mi restituiva un po' di tranquillità, la consapevolezza che agli occhi degli altri avessi uno scopo, fossi utile a qualcosa.
La litigata che avvenne nel negozio, invece, mise in dubbio tutto, mi destabilizzò proprio laddove credevo di essere intoccabile.
Nei giorni successivi pensai molto a quel ragazzo, al suo atteggiamento, alla smorfia di disappunto che mise su appena gli dissi che Manuel Ferro ero io, quasi che la mia esistenza lo avesse offeso.
Gli urlai che nessuno si era mai lamentato dei mixtape, mi rispose che forse nessuno ne aveva mai capito nulla, non si fece intimidire dal mio tono, da come mi avvicinavo, ma mi venne contro allo stesso modo.
Qualcuno adesso si metterà in mezzo, mi difenderà, pensavo, o verrà a separarci.
Mi sorpresi nello scoprire che non fu così.
Solo quando se ne andò, mentre Chicca e Matteo mi tempestavano di domande, mi resi conto che, per tutta la discussione, avevamo usato una lingua comprensibile solo a noi.
Ai tempi non vidi una continuità logica fra quell'incontro così folgorante e il fatto che, una settimana dopo, la mia ragazza venne al negozio per lasciarmi.
Non contornò il gesto di nessun drama adolescenziale.
Piuttosto si espresse con calma, le parole ben scandite, assolute, che scartavano qualsiasi dubbio io riuscissi a esternare in quel momento anche solo per dare la parvenza di tenerci, di dispiacermi.
Eravamo stati assieme poche settimane e questo dato sembrava sufficiente per convincermi che come io non sapevo bene di lei, così lei non sapeva bene di me.
Mi sbagliavo.
Aveva un'immagine nitida in testa, delineava dettagli che mi sconvolsero nella loro precisione e che adoperò come colpi per travolgermi.
"Tu sei la persona più appassionata che conosca" cominciò in tono solenne "dedichi anima e corpo a quello che ti piace, ti infervori, traspare dai tuoi occhi, da come ti esprimi, dal modo di coinvolgere tutti attorno a te quasi a rendere universale l'esperienza, a voler fare vedere a chiunque che quello che fai ha un senso, ha un'importanza."
Annuii, mi ubriacai dei suoi complimenti, ma non capivo il discorso, lo feci presente.
Lei sorrise "tu sei tutte queste cose" ribadì "eppure con me non lo manifesti mai, tendi anzi a ridurti, non parli! Manuel a te serve qualcuno che ti sproni, che ti faccia rendere conto..."
Dopodiché mi salutò, ma non prima di essersi allungata oltre il bancone per sussurrarmi altre due paroline – pensa a quello che ti ho detto, mi raccomando – e schioccarmi un ultimo bacio che ricambiai in una resa pacifica, sebbene confusa.
Ad assistere alla scena di commiato, io, lei e un terzo incomodo che sceglieva proprio quel frangente per comparire.
Lo riconobbi dagli occhi grandi di stupore, era il ragazzo con cui avevo discusso qualche giorno prima.
Entrò quasi in punta di piedi, rallentato da una reticenza che mi stupì.
Si mantenne sull'uscio, "forse è un brutto momento?", chiese formale.
La mia ormai ex fidanzata si affrettò a rispondere pure per me con un diniego netto, poi si fece tenere la porta, gli rivolse un sorriso che lui non voleva molto ricambiare e uscì.
Io ero ancora scosso dagli eventi, mi tenevo al bancone come potesse impedirmi di cascare per terra, attesi che si avvicinasse, ma lo vidi guardarsi attorno.
Capii che cercava Rossana, "ci sono solo io oggi" dissi un po' piccato "il dj incompetente."
Mi aspettavo una replica risoluta, l'unica volta che avevo interagito con questo tipo ci aveva quasi ribaltato il locale, invece si strinse nelle spalle e, accostandosi, balbettò frasi ingarbugliate.
Disse che quel giorno era stato ingiusto con me, che a lui la cassetta in verità era pure piaciuta, ma aveva tentato di regalarla ad una persona per far colpo e quella l'aveva schifata.
Mi guardava a stento negli occhi, tamburellava nervoso le mani sul piano in legno e la sua onestà mi sembrò allora un grande sforzo.
La apprezzai, decisi di rassicurarlo sul fatto che c'erano tante altre cassette e avremmo trovato quella più adatta alla ragazza.
Ricordo che, mentre noi parlavamo, erano entrati un paio di clienti, avranno avuto cinquant'anni, forse qualcosa in più e stavano lì, vicinissimi a noi, tanto che con la coda dell'occhio vedevo quali vinili consultavano, se mi sforzavo appena sentivo di cosa parlavano.
Come li notai io, di sicuro li aveva notati pure lui, eppure non si scompose, né abbasso la voce, quando "non ho detto che era per una ragazza" chiarì.
Rimasi fulminato dalla sua calma.
Anche la penna che agitavo tra le mani, per annotare l'ennesima raccolta di canzoni da preparare, deviò sulla carta.
Mi partì una linea obliqua che la rese inutilizzabile, cercai di non dare a vedere lo sgomento, non volevo metterlo a disagio.
Fu lui a togliermi dall'impasse, mi chiese cosa stessi scrivendo, vediamo il genio della musica all'opera, ironizzò e come era leggero nei movimenti!, come era mite nel parlare!, io invece mi sentivo un automa a cui avevano dimenticato di oliare gli ingranaggi.
Gli indicai la lista che avevo davanti, la lesse a mezza bocca, mi consigliò qualche nome da aggiungere e, nel tilt che avvertivo, riconobbi comunque che aveva ottimi gusti.
Discutemmo della hit parade della settimana, il nuovo album di Mina che aveva bloccato la nazione, l'Oscar a Moroder per Top Gun e i Tears for Fears che cominciavano a scalpitare dall'Inghilterra e che secondo entrambi sarebbero presto esplosi pure qui.
Avevamo trovato un ritmo, io non pensavo più a quanto aveva detto prima e forse nemmeno lui, era solo una normale conversazione fra coetanei con interessi simili, tutto qui.
Ad un tratto però si fermò che stava ancora parlando e "cos'è questo?" chiese col dito verso un segno al bordo del foglio.
"È una M, l'iniziale del mio nome, la scrivo per segnalare a Chicca e Matteo che di quell'elenco ho fatto il mixtape."
"Mixed by M quindi?"
"Come?"
"Dico, tu sei M, no? Allora la cassetta di sta raccolta sarà mixed by M... un po' più internazionale, capito?"
Mi tolse la penna che ancora tenevo in mano e prese a scrivere con calligrafia ordinata, precisa.
«Mixed by EMME»
"Suona bene, ah?" disse e io lo guardai come se avessi davanti un genio e un pazzo tutto insieme.
Ebbi un'urgenza viscerale, quasi dolorosa di conoscere il suo di nome, glielo domandai irrequieto.
E non potevo saperlo, ma quello sarebbe stato un momento decisivo per me, da allora infatti non avrei trascorso giorno senza pensare a Simone Balestra.
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