Prologo
Alzò gli occhi al cielo e diede rapidamente una passata di rimmel sulle ciglia, prima di dover sbattere le palpebre per bloccare il bruciore e le lacrime di fastidio.
Sputò sullo specchio, e cercò di tirar via con le dita le incrostazioni di dentifricio e calcare che si erano raccolte intorno alla cornice. Chissà come doveva essere, truccarsi ad uno di quei tavolini con lo specchio incorporato, con lo sgabello col cuscino rigorosamente rosso e tutte le luci che facevano da cornice al proprio volto.
Si alzò in punta di piedi, piegandosi contro il lavandino. Per il rossetto ci voleva sempre concentrazione. Una sola passata come le dive della televisione, forse un ritocco all'arco di cupido, e poi un bacio soffiato a uno spasimante immaginario.
Sentiva la sabbia, quella che si infilava sotto le porte, negli infissi e nella trama della moquette, raschiare sotto i denti. Quella sabbia malefica si nascondeva dappertutto, non c'era modo di liberarsene. La trovava nei vestiti appena piegati, tra le lenzuola, nelle buste della spesa. Di certo negli alberghi della strip anche il deserto manteneva un certo decoro, e non si infilava nelle camere dei gentleman e delle lady. O forse era solo merito delle donne delle pulizie, che passavano ogni giorno a lustrare da cima a fondo gli appartamenti presidenziali di modo che nessuna persona degna di nota dovesse sopportare quel supplizio.
Il rossetto della Avon, comprato da sua madre chissà quanti anni prima, non era bello come quello di Marilyn. Si raggrumava intorno all'arco di cupido che aveva tentato di accentuare, e nella luce smorta del bagno sembrava più un arancione, che un rosso da star.
Dopo il rossetto, la donna di gran classe avrebbe sfilato la vestaglia di seta che usava per dormire – non la canottiera lisa e i pantaloni della tuta sformati – e avrebbe pensato rapidamente a un look da sfoggiare per quel giorno. Se il pomeriggio prevedeva shopping, allora qualcosa di più pratico, ma non sciatto. Sciatteria non esisteva nemmeno come concetto, nella testa di quelle signore. Forse un blazer Chanel, o un tailleur – la moda non era il suo campo, il tailleur nemmeno sapeva cos'era, però aveva capito che era un vestito alto borghese, quindi poteva andare bene. Avrebbe anche preparato il vestito per la sera, che inevitabilmente avrebbe trascorso nella lounge di un casinò di lusso, ad ascoltare musica jazz mentre il suo uomo faceva scala reale al tavolo del poker. La sera si poteva osare di più. Forse un vestito rosso, delle balze, cose del genere. Un vestito da gran diva, comunque.
Però doveva per forza essere un vestito. I pantaloni non erano eleganti per la sera. E, soprattutto, sulla strada di ritorno, il gentleman con i grandi soldi in tasca avrebbe tolto una mano dal volante della Jaguar e l'avrebbe allungata tra le gambe di lei, e una donna di gran classe sa che quello è il momento per tirare leggermente su la gonna, e pregustare la serata che sarebbe continuata nella suite. Rigorosamente pulita da cima a fondo.
Glenn si tirò una sega che lo fece vergognare. Si mise a piangere – però questo era positivo, perché il piagnucolare inutilmente era tipico delle signore – e poi dovette sistemarsi il trucco da capo un'altra volta.
Si accorse che gli stavano già ricrescendo i baffi. Allora ricominciò a piangere. E non smise finché non ebbe riempito il reggiseno di collant vecchi e messo ai piedi le scarpe col tacco che sua madre avrebbe dovuto usare per quel matrimonio mai avvenuto. Le rubò anche venti dollari. Giusto per un drink sofisticato e un paio di pasticche per sentirsi un po' meno male.
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