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11. god of nothing

La Rolls Royce correva sulla strip, in direzione del Mirage. Le luci dorate tremolavano nel cielo nero della notte già inoltrata, smorzate dal velo dell'alcol e dalla tensione che si respirava tra i finestrini chiusi. Anche se Glenn lo avesse abbassato un po' per respirare l'aria bollente che saliva dall'asfalto e lo smog delle altre macchine, piuttosto che la stantia puzza di liquore e fumo, non sarebbe servito a nulla. La nausea gli avrebbe lo stesso stretto lo stomaco e allargato la pancia fino a tendergli il vestito. Continuava a grattarsi le gambe con i piedi nudi, nella speranza che il formicolio ai polpacci se ne andasse.
Lance, trincerato in un ostinato silenzio, guidava con una sola mano, mentre l'altra era occupata tra i sui denti. Ormai il suo non era nemmeno più un rosicchiarsi le unghie, ma strappare pezzi di pelle in preda a un nervosismo che niente sarebbe riuscito a tenere a bada.
-Era la serata buona, eh?-
Glenn corrucciò il viso in un'espressione offesa. -Non dare la colpa a me- aveva le palpebre così pesanti che rimanere sveglio sembrava un'impresa impossibile. Tentò di tirare le ginocchia contro il petto, nel tentativo di sentire le gambe più vicine, davvero attaccate al suo corpo. I polpacci intorpiditi non erano altro che due pezzi di carne trovatisi per caso lì, senza sapere cosa fare.
-Non ti sto incolpando di nulla. Era così, tanto per dire.-
Lance lasciò andare la schiena contro la pelle rovente dei sedili, e l'unico suono che Glenn sentì da lì in poi fu il rombo del motore su di giri, e la radio che gracchiava sulla frequenza sbagliata.

Lance sprofondò nel divano, ma ora non lo occupava più come un trono. Stringeva le spalle tra i cuscini, e la testa reclinata sulla sponda non dava più l'idea di un signore della guerra, con le mani in pasta in chissà quale affare e il potere di fare tutto quel che gli aggradava.
Glenn camminava avanti e indietro per la sala della suite, respirando l'aria pesante di silenzio come se fosse tossica.
-Portami la bottiglia che c'è in frigo. Quella del Porto-
Si affrettò a compiacerlo, nella speranza di poterlo tirare su di morale. Lance sembrava distrutto. Gli occhi vacui lo fissavano senza quel guizzo di lussuria, di perversione che aveva visto in lui la prima volta. Dei pesi invisibili, formati forse da debiti, perdite e fallimenti, gli avevano fatto cascare le guance, il mento, le borse sotto gli occhi. Il suo viso si era trasformato in una maschera di grasso e pelle cadente.

Passò le dita sulle carte sparpagliate sul tavolo. Avvisi di debito, di denuncia, di pignoramento, di processo. Lance si sarebbe dovuto presentare in tribunale il ventisette di settembre per l'udienza preliminare.
Glenn nemmeno li capiva, tutti quei paroloni. Non sapeva cosa fosse un'udienza preliminare, e pignoramento non aveva un suono così minaccioso. Non capiva come delle semplici cartacce poteva far sprofondare così in basso un dio come Lance.
Stava lì a trangugiare Porto, come se non avesse sempre saputo che quella era una guerra persa in partenza.

-Perché te ne stai lì come un porco al macello?-
Lance strabuzzò gli occhi.
-Con tutte le volte che hai vinto e hai perso, solo perché ti è andata male una scommessa alla roulette? Ma che uomo sei?-
Glenn gli strappò dalle mani la bottiglia di Porto. L'odore acre che usciva dalla bottiglia gli fece venire la nausea. Ne aveva abbastanza di quella merda. Non faceva altro che abbruttire le persone. Lance non era fatto per stare su un divano a compiangersi.
Non poteva perdere così l'uomo che le aveva promesso quel sogno americano che aveva tanto desiderato. Tra una bottiglia di Porto e l'autocommiserazione. Era lei, quella che doveva struggersi, piagnucolare, e lamentarsi, e lo stesso non lo faceva perché aveva ottenuto dalla vita più di quanto si potesse mai aspettare. Poteva piangersi addosso perché la sua voce era troppo profonda, perché i suoi fianchi non erano rotondi, perché tutte le mattine doveva farsi la barba. Ma Lance le aveva cucito addosso il vestito migliore che potesse immaginare, quello che l'aveva trasformato da Glenn Robinson alla signorina Robinson, che ogni sera cambiava nome e viveva la sua vita migliore, tra luci, sesso, musica, coca...
Ora che l'aveva provato, quel vestito da signorina Robinson, non aveva alcuna intenzione di toglierlo tanto presto. Lance doveva alzarsi da quel divano, e trattarla come Cristo comanda.

-I poveracci stanno lì a deprimersi. Sei un uomo di un certo livello, Lance. Mi deludi, se ti fai fermare da un paio di cartacce. Lo so cosa vuoi fare. Lo so che vuoi spararti in testa. E allora perché ti preoccupi di come va a finire?-

-

Le carte dei debiti e del processo vennero inzuppate del viola scuro e dell'odore nauseante del Porto, e quelle che non erano state colpite dai residui della bottiglia finirono in terra, calpestate dalle scarpe eleganti di Lance e dai piedi nudi di Glenn. L'aria si era riempita di risate piene di coca e maledizioni sbiascicate.
La zip del vestito finì per rompersi. Le sue mani grassocce non riuscivano a gestire qualcosa di così piccolo e complesso, ora che erano in preda ai tremori esagitati. Glielo tirò via a forza, strappando lustrini e cuciture. Glenn rideva, e diceva di amarlo solo quando si comportava così, quando era un uomo rispettabile. Lance la piegò sul tavolo bagnato di Porto, lì dove poco prima c'erano tutte le evidenze dei suoi fallimenti. Ora riusciva solo a vedere la linea pallida della sua spina dorsale, e i capelli sparsi sulle spalle, appiccicati alla fronte sudata. Chiuse gli occhi, e di quello che era stato non ci fu più nulla. Sentiva solo i bisbigli della coca che si rincorrevano nella sua mente, interrotti solo dai gemiti di Glenn e dallo stridio delle giunture del tavolo.

Quello scherzo della natura aveva ragione. Perché preoccuparsi? Niente era ancora perduto del tutto. C'era ancora una possibilità. Poteva ancora fare all in. Scommettere tutto, per un'ultima volta

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