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11. Lui chi?




Mi sembra di avere un elefante seduto sul cranio: la testa pulsa a intermittenza e mi fa così male che ho la nausea. A fatica socchiudo gli occhi. Il luogo in cui mi trovo è in penombra ed è illuminato da due piccole lampade a olio poste accanto alla porta. La stanza è circolare, assomiglia a una capanna di legno e fango: un odore pungente di muffa e terra bagnata avvolge l'aria all'interno della mia prigione. Perlustro con le mani lo spazio intorno a me: sono distesa su un giaciglio morbido e confortevole, sembra la sezione di un covone di paglia avvolto in lenzuola di cotone e coperte di lana. Testa e schiena sono appoggiate su un grande cuscino. Adagio mi metto a sedere e comincio a tastarmi prima il capo, poi il viso, infine il resto del corpo, braccia e gambe comprese: sembra non ci siano ferite o lesioni. E stranamente non sono incatenata né legata.

Ho il fiato corto e affannato: l'ansia di capire cosa mi sta succedendo accelera i battiti cardiaci e imperla la fronte di goccioline ghiacciate di sudore.

«Che diavolo ci faccio in questo posto?» ringhio a fior di labbra.

Sposto lo sguardo lungo le pareti della capanna e di colpo mi si blocca il respiro: accanto allo stipite della porta una figura imponente, in jeans e maglietta scura smanicata, col viso travisato da una felpa col cappuccio e da un foulard, mi osserva in silenzio. Non parla ma sembra fissarmi a braccia conserte per lunghi secondi. Poi, senza dire una parola, se ne va, chiudendo la porta alle sue spalle e sigillandola all'esterno con qualcosa di metallico.

Io comincio a urlare, il mio spirito indomito e selvaggio ha il sopravvento sulla paura e grido con tutta la voce che ho in corpo:

«Cosa vuoi da me! Non ho fatto niente! Maledetto! Lasciami andare subito! Aiuto! Quando uscirò di qui ti verrò a cercare, brutto schifoso! Fammi uscire! Ti prego... » e comincio a singhiozzare  sopraffatta dalla rabbia e dal senso di claustrofobia che mi manda nel panico.

All'esterno solo silenzio.

I miei gemiti un po' alla volta si affievoliscono fino a svanire. Poi, presa da uno dei miei raptus, stacco dal pavimento una grossa scheggia di legno e grido:

«So che sei lì fuori da qualche parte, carogna di un rapitore! Ti avverto: preferisco morire piuttosto che rimanere rinchiusa, mi avrai sulla coscienza, bastardo! Almeno dimmi perché... perché? Maledetto, ora mi ammazzo, mi ammazzo!»

E con una rabbia incontrollata comincio a tagliarmi le braccia. Ogni stilettata è un gemito di dolore, appositamente accentuato per attirare l'attenzione su di me.

E, come da previsione, in pochi secondi la porta si spalanca e una figura vestita di nero si precipita nella capanna.

Mi provoco l'ultima ferita per essere più credibile nella mia sceneggiata.

Già... sceneggiata. Fin da piccola avevo uno strano modo di farmi ascoltare: farmi male per ottenere l'attenzione che, nella missione, non avevo mai, di nessuno. Solo facendo così qualcuno accorreva e si occupava di me per qualche minuto. E solo così mi sentivo per pochi istanti importante e accudita, e non la solita seccatura che tutti vedevano più come un obbligo, un dovere, una croce da offrire ogni giorno al Signore.

La figura vestita di nero si avvicina e mi toglie dalle mani la grossa scheggia di legno, cosa che le permetto di fare con facilità. Mi prende le braccia e le osserva: cinque taglietti cremisi lunghi qualche centimetro spiccano sulla mia pelle candida.

«Ma che cazzo pensavi di fare? Ora mi tocca pure esagerare per farlo sentire ancora più in colpa!»

La voce è quella di una ragazza che parla in italiano con un marcato accento toscano. Anche il suo viso è travisato da un foulard, ma non indossa una felpa col cappuccio: lunghi capelli rossi spuntano da un cappellino con la visiera e ricadono liberi sulle spalle. Non è la figura che ho visto poco fa accanto allo stipite della porta: l'abbigliamento è diverso e la corporatura del soggetto di prima era molto più imponente e possente.

E infatti, la ragazza grida verso l'esterno:

«Capo, qui c'è un lago di sangue, però la suorina è viva e vegeta. Ora la disinfet... »

Ma non termina la frase che il "capo" irrompe nella capanna e la scosta con poca grazia. Mi afferra le braccia e le esamina. Poi grugnisce a due centimetri dal viso della sua sottoposta e se ne va sbattendo la porta. É lui l'individuo appoggiato alla porta poco fa. E lui deve essere il responsabile di questa assurdità che mi sta capitando.

La giovane prende da una piccola sacca a tracolla un flacone e della garza. Imbibisce la benda col disinfettante e me la passa sulle ferite obbligandomi a stringere gli occhi per il bruciore che il farmaco mi procura a contatto con i tagli. Ma ho una soglia del dolore molto alta, per mia fortuna, e più che sofferenza questa operazione mi provoca fastidio.

La ragazza mi benda gli avambracci con strisce di garza e cerotto. È molto abile. Ogni tanto sbuffa e impreca in direzione della porta. Poi mi allunga due bottiglie d'acqua e alcune pagnotte avvolte in un telo giallo e se ne va senza dire una parola. Io comincio a sbocconcellare piccoli pezzi di pane e mi idrato con lunghi sorsi d'acqua. Devo rimanere in forze se voglio uscire da qui il prima possibile.

Poi mi sdraio sul mio giaciglio morbido e abbastanza confortevole e inizio a recitare il rosario: fin da piccola mi hanno insegnato che l'arma più potente è la preghiera. Tra un'orazione e l'altra, penso a chi abbia potuto farmi questo e soprattutto al perchè qualcuno abbia osato togliermi la mia amata libertà! Ma sono talmente disorientata e sconvolta che mente e anima sono solo attanagliati dalla paura e dallo sconforto.

Rapita.

Sequestrata.

Ave Maria, piena di grazia.

Rinchiusa.

Tu sei benedetta tra le donne.

Imprigionata.

Incarcerata.

Prega per noi peccatori.

Senza ali.

Senza stelle.

Adesso e nell'ora della nostra morte, amen.


***


Guardo fuori dalla finestra senza sbarre, fermata da una grossa corda di iuta: è già buio.

Maledizione, devo essermi addormentata mentre pregavo.

Mi tiro su di scatto dal giaciglio e mi guardo intorno: solo silenzio e oscurità a parte la flebile luce proveniente dalle lampade a olio.

Le braccia sono bendate.

E io sono ancora sola e sequestrata da chissà chi e chissà dove.

Mi alzo e comincio a perlustrare la stanza circolare in cui mi trovo. Nulla è cambiato rispetto a quando mi hanno portato qui e nessuno deve essere entrato mentre dormivo: non ci sono tracce o indizi che dimostrino il contrario. Ma d'un tratto intravedo, tra le fessure della palizzata che funge da parete, una luce all'esterno che si muove oscillando verso di me. Mi ributto sul giaciglio e mi copro dalla testa ai piedi con la prima coperta di lana che mi capita tra le mani.

Qualcuno armeggia fuori dalla porta e poi, con un colpo violento, l'uscio di legno si spalanca. Dal mio nascondiglio non riesco a vedere nulla. Sento il rumore secco con cui la porta si richiude e una voce femminile sopra di me comincia a parlare a macchinetta in un italiano con un marcato accento toscano e in tono scocciato:

«Sappi che mi hanno costretto a fare questa bischerata, rapire una suora è proprio una gran cazzata che mi si ritorcerà contro, lo so! Ma non potevo dirgli di no, proprio no, non dopo tutto quello che ha fatto per me, accidenti a lui! Comunque sono qui per soddisfare ogni tua necessità e per dirti alcune cose. Ecco, me le sono scritte così non sbaglio, anzi, lui mi ha dettato cosa dirti perché non si fida di me e fa bene! Comunque, ecco il foglietto delle raccomandazioni... ma in che cavolo di situazione mi sono infilata, maremma impestata!
Comunque... ecco...»

È la ragazza che stamattina mi ha disinfettato e bendato. Sembra molto contrariata da questa situazione, quasi sia stata costretta da qualcuno. Ma da chi?

«Non devi avere paura di nessuno di noi, non ti faremo del male, sei solo sotto la nostra custodia per evitare problemi. Sei nostra ospite. Seeeee, ospite... in questa catapecchia in mezzo al fango! Che gran coglione! Ma ecco... continuo... scusa...»

È molto buffa: il modo di aspirare le consonanti mentre parla e il suo disappunto espresso in maniera così esplicita e sincera non me la rendono ostile, anzi... la trovo parecchio simpatica.

«Non provare a scappare... ma tanto è impossibile visto che ti trovi in mezzo al nulla e potresti finite in un mare di guai. Beh, comunque ci sei già in un fottutissimo mare di guai, mi pare, o meglio, in una schifosissima palude di fango!»

Prima informazione molto utile: la mia prigione si trova nel mezzo di una palude. E ciò non mi preoccupa affatto.

«Continuo eh! Non scappare, non urlare, non chiedere: noi ci occuperemo del tuo benessere e al momento giusto ti riporteremo a casa senza che un solo capello ti sia torto, o se la vedranno con me... cioè, con lui. Beh, ecco che esce il supereroe che è in lui, il gran salvatore delle povere fanciulle in difficoltà... che però ha messo lui in difficoltà, ma lasciamo perdere!»

Continua a riferirsi a un fantomatico lui. Quanto vorrei sapere il suo nome!

Ma non oso parlare, voglio capire fin dove il dissenso della ragazza la spinge a rivelare.

«Puoi rivolgerti a questa ragazza, che sarei io, per qualsiasi bisogno, lei farà di tutto per soddisfarlo... altrimenti se la vedrà con me... cioè con lui, il grullo dei grulli insomma! Ma che palle questo spirito da paladino! Ecco finito! Ora dimmi: hai bisogno di niente? Ah, prima che tu ordini, ti ho portato qualcosa da mangiare e abiti puliti.»

Libero la testa dalla coperta che la ricopre e osservo ciò che mi allunga: una tunica azzurra con un profondo spacco laterale e un cartoccio con pane, formaggio e fichi.

Fichi?

Rimango a fissare i frutti rosei, pensierosa. Poi, con un sorriso di sfida, senza alzare lo sguardo, sussurro:

«Puoi dire a Samuel... cioè, a lui... al tuo capo insomma, che starò benissimo, di non preoccuparsi per me... ah, e digli anche che quando sarà uscita di qui, sarà lui a vedersela con me e non sarà piacevole.»

La ragazza indietreggia dando qualche colpo di tosse.

«Sei in gamba, suorina, mi garbi! Se vuoi una mano a suonargliele io ci sto! Prima che vada, sappi che l'acqua della palude arriva più o meno fino al bacino e che la finestra non ha sbarre nè barriere: è stretta, ma a occhio e croce ci passi senza problemi. Un saltino di un paio di metri e sei libera... ma io non ti ho detto niente, eh! Alla prossima, spero di non trovarti più qui.»

«Grazie, anche tu mi piaci... magari un giorno potremmo presentarci come si deve e chissà, diventare amiche...»

«Chissà... forse... mai dire mai! Mi piacerebbe conoscerti meglio perché sei davvero ganza! Ma preferisco saperti libera e lontana da questa bischerata! Addio suorina!»














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