1. Galeotto fu il fico
Diciotto anni dopo...
Assorta nei ricordi del mio passato, dalla finestra della mia stanza guardo la luna, mia madre: è piena e luminosa come la notte del mio ritrovamento. Un po' le assomiglio. La mia pelle è chiara come i suoi raggi, in netto contrasto con il continente nero in cui mi hanno trovato: l'Africa. Anche i miei occhi non hanno niente a che fare con quelli scuri tipici dei suoi abitanti: sono piuttosto un mix ben bilanciato tra l'intensità del blu e la freschezza del verde, un colore che ricorda le acque limpide di una laguna. Spesso mi sono fatta domande sulle mie origini, ma mai sono riuscita a trovare risposte.
La luna sembra ora sorridermi. È il momento, non posso tardare oltre! Devo andare a far visita a mio padre, il grande sicomoro che qualche mese fa ho scovato in una tenuta sulla collina a picco sulla baia. È stata una scoperta emozionante. Da quando mi sono trasferita in questo angolo di Italia, di notte ho bisogno di esplorare, stare all'aria aperta, sentirmi libera, cosa che di giorno non mi è possibile vista la mia condizione.
In una delle mie fughe notturne mi sono addentrata su per i fitti boschi di una collina e mi sono poco dopo imbattuta in piantagioni di alberi da frutto tropicali. Improvvisamente un profumo dolce, intenso mi ha attirata verso la sommità della collina e al di là di un'alta recinzione l'ho visto: il re degli alberi africani, un gigantesco sicomoro, mio padre. Così, senza pensarci due volte, ho scavalcato la cancellata, un gioco da ragazzi per una che ha passato la sua infanzia nella savana africana, e sono corsa da lui. L'ho abbracciato piangendo e ho cominciato a baciare la sua corteccia e ad annusare i suoi grappoli di fichi pieni e rosati.
Da quel giorno, tutte le sere lo vado a trovare per cibarmi dei suoi preziosi e squisiti frutti.
Meglio muovermi. È già l'una di notte. Ma anche se è tardi, io sono perfettamente riposata perché ho già cinque ore di sonno alle spalle: mi corico verso le otto tutte le sere, consuetudine forzata a cui mi sono abituata, ma che detesto. Apro la porta della mia angusta camera e controllo il buio corridoio. Silenzio e immobilità: tutti stanno dormendo. Mi dirigo leggera come un colibrì verso il piano terra, percorro oscuri corridoi e ariose zone scoperte e finalmente varco la piccola porticina di legno marcio che dà su un viottolo di sassi bianchi e polvere. È un'uscita secondaria che ho scoperto casualmente mentre mi occupavo di potare la siepe di gelsomino arrampicata sul muro di cinta.
La imbocco.
A passo svelto e leggero attraverso un bosco di salici piangenti, poi una distesa di ulivi e dopo circa mezz'ora di camminata, arrivo finalmente nel mezzo di agrumeti e frutteti tropicali. In lontananza vedo la recinzione di ferro battuto che protegge il mio sicomoro. Mi avvicino avvolta nella notte.
Ma una melodia cattura la mia attenzione. In direzione della casa padronale il buio è illuminato da luci intermittenti che si accendono e si spengono a ritmo di musica. Probabilmente i proprietari della tenuta stanno dando una festa in grande stile.
Per fortuna la villa è parecchio lontana dal mio albero.
"Nessuno oserà disturbarmi".
Così saluto con un inchino il sicomoro, accarezzo la sua corteccia e raccolgo alcuni fichi rosei e maturi. Comincio ad assaggiarli e la loro dolcezza mi provoca un senso di benessere, di appagamento. Ma la musica proveniente dalla magione stimola sempre di più la mia vivida curiosità, sono attratta dalla melodia e soprattutto da quello che potrei osservare se mi avvicinassi.
Lo faccio.
Mangiucchiando un fico delizioso, mi incammino verso la fonte della musica.
Giungo vicinissima alla villa e mi posiziono su un minuscolo terrapieno per poter osservare bene, protetta dalla vegetazione. Ciò che si erge davanti ai miei occhi è un casale in mattoni ricoperto in gran parte da una lussureggiante vite americana; l'ampio portico è illuminato da centinaia di minuscole lucine color ghiaccio che sembrano stelle. L'edificio è preceduto da un piazzale di ghiaia che pullula di persone eleganti e sorridenti e da un incantevole giardino di rose di ogni specie e colore, profumatissimo e completamente recintato. Lo spazio esterno è elegantemente decorato da piante ornamentali come magnolie, rododendri, azalee e percorso da vialetti di ghiaia bianca. Verso lo strapiombo si intravede una piscina che sembra tuffarsi come una cascata nella baia sottostante.
La tenuta è davvero favolosa, sono molto colpita e affascinata.
Prendo dalla tasca un altro fico.
Sto per addentarlo quando una mano mi afferra violentemente il polso e il frutto cade a terra sfracellandosi.
«Ti ho presa, ladruncola. Sono mesi che cerco di capire chi divora i fichi del mio sicomoro! Finalmente ti ho beccata! Ora vieni con me, ti porto al casale e ti denuncio» e mi strattona con forza.
«Ti prego, lasciami, non osare toccarmi, lasciami!»
«Col cavolo che ti lascio, ora ti sistemo io» e mi punta la luce del cellulare in faccia.
Io rimango accecata per una frazione di secondo, poi fisso fiera e indomita, come una vera selvaggia, il mio sequestratore. Anche il ragazzo mi sta squadrando: noto che spalanca gli occhi come folgorato da qualcosa e rimane così per alcuni secondi. Poi scuote rapido la testa quasi volesse togliersi un'immagine dalla mente. Approfitto del suo smarrimento per pestargli con violenza un piede e colpirlo con calci e pugni. Lui mi blocca contro il tronco di una pianta alle mie spalle con il suo corpo e sibila a un centimetro dal mio viso:
«Datti una calmata, piccola selvaggia! Chi diavolo sei? Il tuo viso non corrisponde ai tuoi modi: sembri un angelo, ma ti comporti come un demonio. Ora rilassati e respira, quando ti sarai calmata mi seguirai docile e obbedirai a...»
«Non mi toccare, nessuno mi può toccare, levati!» lo interrompo urlando con tutto il fiato che ho in gola.
Il ragazzo mi mette una mano sulla bocca.
«Sssh, non gridare, potresti spaventare i miei ospiti, piccola scimmietta urlatrice.»
Ma una voce mielosa in lontananza interrompe la sua paternale.
«Samuel, Samuel... tesorino, ma dove ti sei cacciato, Samuel!»
«Accidenti, mi ha trovato! Ma perché non la smette di perseguitarmi? Che pesantezza!»
Poi si ricorda di me e mi dice sofferente:
«Lei è Clara, è convinta che un giorno ci sposeremo. Peccato che io non abbia nessuna intenzione di impegnarmi né con lei né con nessun'altra. Ma lascia perdere... » e appoggia la sua fronte sulla mia come se tra noi ci fosse una certa intimità.
Poi di colpo apre le palpebre e mi fissa e io perdo un battito: mi smarrisco nei suoi occhi blu come l'oceano, talmente profondi e intensi che per guardarci dentro devi saper nuotare. Da come mi scruta non mi stupirei se l'indaco delle sue iridi si fondesse al verde-blu delle mie.
È come se cercasse di far crollare ogni mia difesa con quello sguardo. Rimaniamo incollati per lunghi secondi, col respiro un po' accelerato, il mio sicuramente; il suo più simile a un ansito accompagnato anche dal sollevarsi e abbassarsi ritmico delle spalle. Ma in che guaio mi sono cacciata, accidenti a me! Continuiamo a fissarci incapaci di sganciarci. Il ragazzo, che deve chiamarsi Samuel, sussurra tra i denti:
«Chi diavolo sei tu?»
Ma una voce stucchevole alle nostre spalle domanda dubbiosa:
«Samuel, che cosa stai facendo?»
E lui, in tutta risposta, toglie la mano dalla mia bocca e copre le mia labbra con le sue in un bacio tenero, continuando a fissarmi intensamente. Io subito rimango spiazzata e cerco di oppormi, ma le mie resistenze crollano in poco tempo sotto il suo sguardo così dolce e sensuale.
Lui sorride malizioso perché comprende che mi sto arrendendo e comincia a premere con più insistenza le sue labbra sulle mie e io cedo miseramente, incapace di resistere alla sua sensualità. Lascio che dischiuda la mia bocca con la sua lingua e trovi la strada per intrecciarla alla mia. Non ho mai provato una sensazione simile: gambe che cedono, un senso di calore al basso ventre, testa che gira. Lui continua a divorarmi con crescente passione e io lo accolgo con desiderio. Respiriamo affannosamente, mi accarezza le labbra con le sue, poi le mordicchia, entra ed esce dalla mia bocca sfiorando la mia lingua con dolcezza e andando sempre più in profondità con movimenti circolari. Ormai le gambe non mi sorreggono più.
Meno male che un urlo acuto e stridulo, molto sgradevole, smorza l'intensità del momento.
«Samuel, no, non è possibile! Ora capisco tutto! Ecco perché non mi vuoi: tu hai un'altra! Mi hai spezzato il cuore, non ti voglio più vedere!» E si sentono singhiozzi e gemiti seguiti da passi veloci che si allontanano. Ma il ragazzo sembra non accorgersi della tragedia amorosa che sta andando in scena alle sue spalle. Non dice una parola, ma ha il fuoco negli occhi. Continua a baciarmi con dolcezza, desiderio e intensità. Sembra incurante del mondo circostante, siamo solo lui e io.
Poi d'un tratto si blocca. Con un gesto della mano, si sposta il ciuffo di capelli corvini sceso in onde disordinate sul suo viso per la foga. Pianta i suoi occhi color del cielo nei miei e mi sussurra sulle labbra come in un soffio:
«Scusami, non so cosa mi sia preso...»
Io però ho recuperato un po' di lucidità grazie alla Claranda furiosa e così gli assesto una ginocchiata nei gioiellini di famiglia. Lui sbarra gli occhi e mi fissa incredulo e dolorante.
Sibilo:
«Ti avevo detto di non osare toccarmi» e sguscio via come uno scoiattolo. Sento alle mie spalle la sua voce, più acuta del normale, che grida:
«Era l'unico modo per liberarmi di Clara... Permettimi di ringraziarti, signorina...? Dimmi almeno come ti chiami! Dai, fermati!»
Ma io sono già lontana. Corro a perdifiato giù per la collina tra i frutteti, con un balzo scavalco la recinzione di ferro battuto e mi infilo tra gli ulivi. Quando raggiungo il bosco di salici piangenti rallento il passo, sono senza fiato. Per la corsa, ma soprattutto per quello che è successo stanotte.
"Samuel" penso. I suoi occhi cobalto sono impressi nella mia mente, il suo profumo fresco, delicato, deciso, un mix di narciso, bergamotto e muschio mi è rimasto addosso. Mi tocco le labbra arrossate: il mio primo e unico bacio me lo ha dato un angelo dagli occhi color dell'oceano. Sono emozionata, inebriata, eccitata.
Ma non succederà mai più, è sbagliato! Io sono proibita. La mia condizione me lo vieta, il mio lato angelico, innocente mi impone di dimenticare tutto immediatamente. Ma la mia anima libera, selvaggia e indomita non è d'accordo. Così, tornando a casa, ballo sotto le stelle accese: qualcosa di nuovo e sconvolgente è scattato in me e ciò mi esalta e mi terrorizza al tempo stesso.
Attraverso la porticina di legno marcio e con passo felpato raggiungo la mia stanza.
Dalla finestra saluto con uno sguardo amorevole mia madre, la luna, che tutto vede e tutto sa.
Le luci dell'alba stanno cominciando a rischiarare l'orizzonte.
Così mi siedo sullo sgabello di legno e appoggio i gomiti sul semplice tavolo che uso come toeletta: mi guardo nello specchio opaco e crepato che ho rimediato in uno delle mie passeggiate notturne e che tengo nascosto sotto il mio essenziale giaciglio. Le labbra sono ancora un po' arrossate e gonfie, spero che le sorelle non se ne accorgano. Mi lavo il viso nel catino.
Poi raccolgo i lunghi capelli dorati in uno chignon e li copro con la cuffietta bianca tipica della mia congregazione. Indosso un'ampia tonaca dello stesso colore lunga fino alle caviglie e la stringo in vita con un cordone di iuta grezza. Infilo i sandali di cuoio, rivolgo un ultimo sguardo alla luna, che sta scomparendo nel cielo, e allo scoccare del settimo rintocco della campana mi dirigo insieme alle mie consorelle novizie verso la cappella per la recita delle lodi mattutine.
Il giorno della professione dei voti è sempre più vicino, ma io sono sempre più lontana, oggi più che mai.
Fonte immagine: https://www.google.it/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.canon.it%2Fget-inspired%2Ftips-and-techniques%2Fsupermoon-photography-tips%2F&psig=AOvVaw2VimFI5VcMzM4Jlngr3e4K&ust=1679335666335000&source=images&cd=vfe&ved=0CBAQjRxqFwoTCNjh5IDL6P0CFQAAAAAdAAAAABAF
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