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Giorno 433 - Della caducità dell'incompiutezza umana

Il giorno quattrocentotrentatré mi svegliai immediatamente e di colpo.

Non ho idea di cosa, quel mattino, lacerò con tanta violenza il velo del mio sonno; ma accadde. Scattai a sedere senza quasi rendermene conto e le mie mani corsero d'istinto allo stomaco mentre il respiro mi si bloccava in gola; frugai attraverso la stoffa della maglietta fino a quando le mie dita frenetiche non incontrarono la pelle, alla ricerca dello squarcio che vi era stato aperto il giorno precedente.

Ma la mia carne era viva e intatta.

Presi fiato lentamente per calmare i battiti impazziti del mio cuore.

Avevo appena avuto la riprova – non che ne avessi bisogno – della fondatezza di uno dei punti che io e la Signora delle Perle avevamo toccato nel nostro ultimo confronto.

Spesso il dolore lascia impressioni più durature di qualunque altra cosa.

Era vero e neanch'io, con tutta la mia ostinazione e la mia forza di volontà, avrei mai potuto modificare quella realtà; dovevo accettarla come chiunque altro e, in fondo, andava bene così.

Perché non necessariamente un'impressione era destinata a dar vita a un cambiamento.

Quel pensiero mi spinse fuori dal letto e sotto la doccia con rinnovato vigore.

Una volta tanto, mi capitò di vivere l'intero corso di una giornata; ormai era un evento così raro che ebbi difficoltà a occupare oltre dodici ore di vita pressoché normale.

Quando finalmente arrivò la sera ero in parti uguali sospettosa e piena di speranza. Possibile che avessi giunto il termine di quel circolo vizioso? Possibile che stessi per abbandonare il mio personale Limbo?

Volli crederci.

Lo volli al punto che, chiedendomi cosa fare della prima serata da viva in mesi, ricordai l'appuntamento che io e i miei amici avevamo fissato durante quella notte fatale in cui, per la prima volta, avevo incontrato la Signora delle Perle.

Domani, stesso posto, stessa ora.

Mentre uscivo di casa, l'unica cosa che le mie orecchie riuscivano a sentire era il rombo sordo del mio stesso sangue.

Non riuscivo a capacitarmi delle mie azioni.

Non riuscivo a capacitarmi del fatto che una parte di me mi stesse spingendo a tornare nel pub dove tutto aveva avuto inizio.

Forse era un residuo di senso di ribellione, o uno strascico di quel desiderio di sfidare la Signora delle Perle che tanto a lungo mi aveva accompagnato – forse era una bizzarra forma di masochismo; forse era pura e semplice follia.

Poteva trattarsi di qualunque cosa.

E io non ero in grado di dare un nome a ciò che mi muoveva verso quel luogo.

Ma neanche l'incertezza sulle mie stesse sensazioni fu abbastanza forte da fermarmi.

Arrivare di fronte al pub fu spiazzante ed esilarante al tempo stesso.

Varcarne la porta senza che la Signora delle Perle mi fulminasse sulla soglia liberò una scarica di adrenalina nelle mie vene.

Quando, infine, sedetti tra i miei amici, ero talmente su di giri che se ne accorsero all'istante.

«Rose? Va tutto bene?» mi chiesero in coro prima ancora che potessi salutarli.

In quel momento – così concreto e normale da farmi quasi credere di essermi riappropriata della mia vecchia vita – non potei trattenere un sorriso.

«Più che a posto» risposi di getto; le parole sembravano volermi sfuggite dalle labbra prima ancora che potessi pensarle. «È tutto...»

La mia voce non arrivò mai a pronunciare quel "perfetto" che mi stava risalendo spontaneo alle labbra; si spezzò prima.

Insieme a qualcosa nella mia testa.

All'improvviso una fitta di dolore simile a un colpo di pugnale mi trafisse il cervello; davanti ai miei occhi ogni cosa si sdoppiò, mentre la nausea mi rivoltava lo stomaco e la luce diventava accecante. Provai di nuovo a parlare, ma non ci riuscii; sentii il mio corpo iniziare a tremare in modo incontrollabile e cadere sul pavimento, senza che io potessi farci nulla.

I miei amici si scaraventarono intorno a me; udii qualcuno gridare di chiamare un'ambulanza, ma già percepivo gli spasmi affievolirsi di pari passo coi battiti del mio cuore e con essi spegnersi.

Ero morta.

Di nuovo.

Osservai i miei amici e gli altri avventori attraverso occhi che dall'esterno dovevano apparire vuoti: si disperavano, gridavano, alcuni si allontanavano inorriditi mentre altri, al contrario, allungavano il collo nel tentativo di gettare uno sguardo incuriosito al macabro spettacolo che era il mio corpo ormai morto.

Una parte di me trovava profondamente irrispettoso un simile comportamento; la morte era parte dell'esistenza di ogni essere vivente e, come tale, andava rispettato, non fatto oggetto di una sciocca e vacua curiosità.

Una parte di me avrebbe voluto potersi alzare e gridare a quelle persone che non c'era nulla di affascinante in un cadavere.

Una parte di me era furiosa per quel modo di fare tanto superficiale.

Un'altra parte di me – la parte diametralmente opposta – provava compassione per quegli individui; quelli vittime dell'orrido che affascina o, come lo chiamavano alcuni saggi dei tempi passati, il Sublime.

Quella parte di me era divisa tra compassione e rassegnazione per l'incapacità altrui di cogliere una realtà che ai miei occhi era tanto semplice da essere banale: e cioè che la morte non era una fine, bensì un semplice rito di passaggio.

Qualcuno si inginocchiò accanto a me e si sporse fino a portare il viso esattamente sopra il mio, una mano appoggiata a terra per sostenersi.

Per un lungo minuto la Signora delle Perle ed io ci scrutammo in silenzio mentre, nel pub, continuavano ad alternarsi le reazioni più disparate di chi era ancora vivo. Non che la loro risposta istintiva alla morte, quale che fosse, avesse importanza: entro poche ore se ne sarebbero dimenticati e la loro vita avrebbe ripreso a scorrere senza che vi restasse traccia di ciò che avevano appena visto, senza che nulla di questa serata li turbasse.

Senza di me.

Per un momento girai gli occhi a destra e a sinistra, sul caos tutto intorno a me, mentre cercavo le parole.

«Come ci riescono?»

«A fare cosa?»

Alzai lo sguardo. «A vivere senza accorgersi che sono sparita. Come ci riescono?»

La Signora delle Perle chiuse gli occhi per un attimo e prese un respiro corto e secco. «Non è poi molto complesso, il meccanismo» esordì. «Sei, sostanzialmente, simile a un miraggio o a un sogno molto realistico: per gli altri, assumi consistenza solo in un breve lasso di tempo – che sia un minuto o un'ora non conta – ma, nel momento stesso in cui termina, altrettanto fa quello spessore che avevi preso nella mente delle persone con cui ti eri rapportata».

«Quindi io non esisto più» mormorai.

«Certo che esisti». Tacque per alcuni istanti; quando riprese a parlare il suo tono era misurato ma stranamente privo di qualunque inflessione, freddo e impersonale come una voce registrata. «Non esistono più le tue interazioni con gli altri esseri umani; o meglio, esistono e si cancellano subito dopo senza incidersi nel corso del tempo, come se non fossero mai avvenute; e non fissandosi nel tempo, non generano nuove conseguenze. Ma tu – tu fai ancora parte del tessuto dell'Universo, sebbene, dal mattino della tua prima morte, tu non vi abbia più potuto imprimere dei segni del tuo passaggio».

Rimasi in silenzio per un po' mentre riflettevo sulle parole della Signora delle Perle. La sua risposta apriva una nuova, terribile possibilità: quella della mia inconsistenza. Se non lasciavo traccia del mio passaggio – se non lasciavo un segno tangibile delle mie azioni – cosa restava di me in quanto parte unica e non replicabile dell'Universo?

Niente.

Era questa la risposta.

Niente.

«Sono una serie di possibilità» dissi ad alta voce. «Una sequela di realtà parallele che non si sono mai avverate». Battei rapidamente le palpebre per scacciare la sensazione di pianto che vi addensava dentro. «Sono incompiuta».

«Lo sei» confermò la Signora delle Perle con voce piatta. «E da incompiuta, che rilevanza speri di avere nell'immenso disegno del Creato?»

Se fossi stata ancora padrona del mio corpo, avrei tentato di deglutire il grumo viscido che mi sembrava di avere incastrato nella gola.

Era forse totale, quel mio esistere in cui mi era impossibile produrre una qualunque impressione, un qualunque cambiamento?

Lo era, senza dubbio.

Ma lo era solo per quanto riguardava il periodo ben definito che correva tra l'inizio e la fine – perché, ne ero certa, una fine prima o poi ci sarebbe stata – di quel percorso che condividevo con la Signora delle Perle; prima – prima – ero stata in grado di imprimere nel tessuto del mondo i segni del mio passaggio, e l'avevo fatto in più d'una occasione.

Ero stata incompiuta infinite volte e infinite volte avevo raggiunto, fosse pure per un solo istante, quello stato di totalità della mente e dell'anima che mi aveva permesso di lasciare un'impronta di me stessa nell'eternità.

Quel giorno, la comprensione arrivò simile al guizzo di una fiammata che divampi alta, vivida e bruciante prima di tornare ad ardere con quieta regolarità.

L'incompiutezza che tanto spesso avevo visto in me stessa e negli altri, e che talvolta mi aveva irritata o scoraggiata, non era che uno stato di equilibrio e preparazione: imprescindibile e necessaria alla realizzazione di un cambiamento o di un'impressione abbastanza forte da durare nel tempo, di qualunque tipo essi fossero.

Ero incompiuta e lo ero sempre stata; ma solo in quell'ultima, ancora attuale fase della mia vita ero incompiuta in tutto e condannata a rimanere tale... tranne che per una piccola, minuscola piega del mio essere.

«Soltanto una» risposi al termine di quella lunga riflessione. «Soltanto in una cosa penso di poter avere rilevanza, al punto in cui mi trovo: nel porre fine alla condizione che mi hai imposto».

La Signora delle Perle si raddrizzò di scatto e mi rivolse un'occhiata carica d'odio.

Quando parlò, la sua voce invelenita mi raggiunse insieme alle prime schegge d'oscurità.

«E come pensi di riuscirci, visto che non puoi compiere alcunché?»

A quella domanda, non potei trattenere un sorriso.

E pregustai la rabbia che avrebbe provato alla mia risposta.

«In fondo, anche non compiere mai nulla alla lunga lascia un segno, non è così?»

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