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Giorno 3 - Il potere esasperante dell'ostinazione umana

Quando mi svegliai, il terzo giorno – o forse lo stesso giorno, visto che la data sulla sveglia digitale accanto al letto non cambiava mai – avevo finalmente capito che i nuovi ricordi che si accumulavano nella mia mente non erano il frutto di sogni, bensì la realtà.

La forza dell'abitudine mi spinse fuori dal letto e nella doccia, e poi al lavoro. Una parte di me mi diceva di essere cauta, di valutare con cura ogni azione e le sue possibili conseguenze; l'altra mi ricordava puntualmente che era tutto inutile, perché sarei morta comunque.

Contrariamente a quanto mi aspettavo, la fine della giornata lavorativa giunse senza incidenti e, cosa ancor più strana, ero viva. Per il momento, almeno.

Quel giorno fu l'ascensore a tradirmi.

Vivere al settimo piano ti fa sviluppare un amore incondizionato verso questo particolare pezzo di tecnologia. Dopo una giornata di duro lavoro, in bilico sui tacchi alti, accogli con gioia qualunque cosa ti eviti di fare a piedi più di dieci rampe di scale, che si tratti di un uomo così galante da portarti in braccio fino al tuo appartamento o, appunto, un ascensore.

Ero quasi arrivata quando l'ascensore si bloccò. Sospirai di sdegno: morire per un guasto in ascensore era banale, fin troppo per i miei gusti. Pigiai il bottone che attivava l'allarme e attesi pazientemente l'arrivo dei soccorsi.

I Vigili del Fuoco ci misero poco ad arrivare: un quarto d'ora dopo che l'ascensore si era bloccato, loro erano già lì ad armeggiare per liberarmi. Mi chiesi se non fosse stata una mossa stupida, la mia: in fondo sapevo di dover morire prima che la giornata finisse, quindi magari avrei fatto meglio a restare dov'ero e aspettare che accadesse quello che doveva accadere.

Le porte opposero una fiera resistenza, ma alla fine riuscirono ad aprirle almeno un po'. Un Vigile del Fuoco – un bel ragazzo, da quello che mi era dato vedere al di sotto del casco – mi rassicurò mentre i suoi colleghi continuavano a lavorare. Bizzarro, davvero, o almeno era così che la vedevo: quel poveretto ce la metteva tutta per convincermi che mi avrebbero tirata fuori senza che mi accadesse nulla, mentre io sapevo già che non era così.

Dai bisbigli degli altri, capii che c'era qualcosa che non andava. Convinsi il bel ragazzo a dirmi cosa succedeva, promettendo che non sarei diventata isterica.

«C'è un problema con i cavi» si decise a dirmi, ormai persuaso della mia calma – ai suoi splendidi occhi verdi probabilmente appariva come un encomiabile sangue freddo, mentre in realtà erano solo consapevolezza e divertita rassegnazione. «Potrebbero cedere, quindi adesso ti tiriamo fuori di qui».

L'apertura delle porte era troppo stretta per permettergli di passare, e tentare di forzarle ancora di più avrebbe potuto spezzare i cavi; d'altra parte non potevano neanche rischiare di perdere tempo passandomi un'imbracatura e spiegandomi come infilarla per poi agganciarvi un cavo.

«La cabina si è bloccata a metà tra il sesto e il settimo piano» mi spiegarono. Il Vigile del Fuoco che aveva passato tutto il tempo a rassicurarmi mi tese la mano.

«Aggrappati forte, prometto che ti tiro fuori senza farti fare neanche un graffio» disse.

Per un attimo mi sentii in colpa al pensiero di come si sarebbe sentito quando non sarebbe riuscito a tener fede alla promessa che mi aveva appena fatto. Gli sorrisi.

«Ammiro la tua sicurezza» ammisi. «Ma se anche non riuscissi a tirarmi fuori di qui incolume, ti perdonerei».

Le sue pupille si dilatarono. Evidentemente sentirsi dire una cosa del genere doveva essere a dir poco strano e insolito, ma ci tenevo. Non volevo che si sentisse responsabile per qualcosa che non avrebbe mai potuto evitare.

«Non ci sarà niente da perdonare» replicò, stringendomi il polso in una morsa ferrea. «Non mollare la presa e in un attimo sarai fuori».

Puntai i piedi contro le porte dell'ascensore e lui mi tirò su. Riuscii a far passare la testa e le spalle attraverso l'apertura; puntai la mano libera sul pavimento e mi spinsi fuori un altro po', fino alla vita. Il Vigile del Fuoco mi guardò con un sorriso incoraggiante sul volto, come a dire "te l'avevo detto".

E il momento successivo i cavi cedettero.

Non so se fu la sorpresa o il buonsenso, ma mi lasciò andare. Anch'io avevo mollato la presa sul suo braccio, e fui felice che avesse fatto lo stesso: non avrebbe potuto aiutarmi in nessun modo, e non volevo trascinarlo con me.

Fui risucchiata di nuovo dentro la cabina mentre questa precipitava giù per sette piani – anzi, otto, contando il seminterrato. Era ovvio che avessero ceduto anche i sistemi di sicurezza: una sfortuna, avrebbe pensato chiunque altro. Uno scherzo della Signora delle Perle, pensai io mentre la cabina si schiantava alla fine della sua caduta libera.

Per la terza volta in tre giorni ero spalmata su un pavimento, e la cosa iniziava a infastidirmi parecchio. Insomma, perché ogni volta dovevo stare scomoda? Di più: era la terza morte dolorosa di seguito.

Sì, dire che ero scocciata dalla situazione era un eufemismo.

«Imparata la lezione?» chiese la Signora delle Perle, apparsa in un angolo della cabina sgangherata: come per rimarcare la differenza tra me e lei, era seduta in una comoda poltrona.

Mi consolai pensando che stavolta potevo parlare.

«Spero che tra tutte le morti che hai in serbo per me ce ne sia qualcuna comoda e semplice. Tipo una bella morte nel sonno, indolore, a causa di un infarto: un giorno di ferie me lo prenderei volentieri» dissi ironica.

«Vedo che non perdi mai il sarcasmo» replicò la Signora delle Perle.

«E tu non perdi mai il gusto di farmi a pezzi» sbottai. La botta che avevo preso nel momento in cui i cavi avevano ceduto non mi aveva tranciata a metà, vero, ma in compenso mi aveva sbriciolato buona parte delle ossa: sentirle spezzarsi e frantumarsi non era piacevole, e la sensazione dei frammenti che mi infilzavano la carne lo era ancora meno. «Che problema hai col farmi morire lasciandomi tutta intera?» aggiunsi rancorosa, sputando una boccata di sangue. Dovevo avere anche un'abbondante emorragia interna. Fantastico, davvero.

«Le morti traumatiche e dolorose sono quelle più utili per insegnarti ad aver paura di me» rispose semplicemente la Signora delle Perle.

«E infatti si notano i risultati» replicai sarcastica mentre il mio cuore smetteva di battere. Ecco, ero morta. Di nuovo. E ancora non avevo paura di lei. Bel lavoro, non c'era che dire!

«Sei ostinata, più di qualsiasi altro essere umano abbia mai visto» disse la Signora delle Perle, irritata. «E la tua ostinazione ha il potere di esasperarmi».

«Me lo dicono sempre, che sono ostinata ed esasperante» risposi noncurante: ormai ero morta, potevo di sicuro concedermi il lusso di fare quattro chiacchiere!

«Tu devi essere nata per essere il mio tormento» sibilò la Signora delle Perle.

«Credo che lo stesso valga per te» replicai brontolando.

«Non essere impertinente» mi rimproverò.

«Se tu puoi farmi a pezzi e uccidermi una volta al giorno, allora io posso essere impertinente e qualsiasi altra cosa voglia» ribattei.

La Signora delle Perle batté il piede a terra, stizzita. «Perché non ti spavento? Ormai dovresti aver paura almeno del dolore che posso infliggerti».

«Magari dipende dal fatto che so che il dolore e la morte non sono collegati» offrii; non volevo certo aiutarla, ma magari se avesse capito perché non avevo – e probabilmente non avrei mai avuto – paura di lei, l'avrebbe fatta finita con tutta quella pagliacciata. «Voglio dire, gli eventi che possono condurre alla morte non sono necessariamente tutti dolorosi, né tutti gli eventi dolorosi conducono inevitabilmente alla morte: succedono ogni giorno cose terribili, che provocano un indescrivibile dolore fisico e mentale nelle persone, senza che le vittime di questo dolore finiscano per morire; viceversa, tante persone muoiono in modo indolore, o almeno così rapidamente da non avere il tempo di soffrire. Quindi il dolore non è nella morte, è negli eventi della vita».

La Signora delle Perle rimase in silenzio per un bel po'.

«Sei più evoluta di quanto pensassi» mormorò, «e questo non fa che rendere il mio lavoro più duro e la tua lezione più difficile da imparare. Dovrai fare ancora molta, molta strada».

Sbuffai, rassegnata. «Quante volte ancora mi toccherà morire?» chiesi.

Lei esitò.

«Dieci volte, forse. Magari cento. O addirittura mille». Sospirò. «Non lo so ancora. A questo punto, sono costretta a rivedere tutte le mie previsioni al riguardo».

Mi tastai il petto; alcune schegge d'osso mi avevano addirittura bucato carne e vestiti, e spuntavano dalla pelle come improbabili strumenti da agopuntura di un serial killer psicopatico. Mi misi a ridere, un po' istericamente a dire il vero.

«Altri mille giorni come questo? Che fortuna!» sputai acida.

«Non sarà sempre così» disse la Signora delle Perle, alzandosi e lisciandosi la gonna del tailleur. «Può essere più semplice e pulito. Ma questo dipende da te».

«Allora non ne usciremo mai. Dovrai continuare a tenermi in questo limbo e farmi morire ogni giorno fino alla fine dei tempi, perché non cambierò modo di pensare» la avvisai.

La Signora delle Perle mi rivolse un'occhiata strana, quasi compassionevole.

«Cambierai idea, alla fine. Tutti quelli che sono venuti prima di te, presto o tardi, l'hanno fatto».

Lei svanì e la solita oscurità liscia e setosa mi avvolse come un sudario funebre, riportandomi al punto di partenza di quel macabro gioco di ruolo.


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