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Capitolo Ventiquattro - Idoneo

Ashton

Avevo perso la cognizione del tempo.
Dal momento in cui Edwin aveva poggiato la posta sull'isola della cucina, il mio corpo aveva iniziato a irrigidirsi e la mia mente a inondarsi di pensieri.

Quando poi, cercando tra quelle lettere, avevo trovato proprio quella che speravo di non dover mai più rivedere in vita mia, il nervosismo aveva preso il sopravvento.

Stringevo la busta bianca, caratterizzata dal timbro dello Stato e quello del Colonnello, nelle mani. Ero diviso in due, da una parte, l'irrefrenabile voglia di aprila e vedere cosa vi fosse scritto al suo interno. E dall'altra, la paura per ciò che avrei potuto leggere.

Era passato un mese e qualche settimana dal giorno in cui il Colonnello mi aveva convocato nel suo ufficio. Ormai ero speranzoso del fatto che non avrei mai ricevuto quella lettera.

Un mese, da quando mi aveva detto che i rapporti su di me erano migliorati e il mio psicanalista gli stava comunicando solo buone notizie.

E proprio quando pensavo che le cose nella mia vita non potessero andare meglio, ecco che arrivavano le brutte notizie.

Sembrava un circolo vizioso.
Prima un bambino felice e spensierato che riceve la notizia della morte del padre. Poi, un ragazzo che decide di arruolarsi per fare del bene e rendere onore al papà, che presto vede il suo migliore amico morire davanti ai suoi occhi. E infine, un uomo, che sembra aver ritrovato la spensieratezza grazie a quella ragazza che è entrata nella sua vita come un tornado, che riceve quella dannatissima lettera.

Piantai un pugno sul marmo di quell'isola, passandomi una mano tra i capelli in modo frustrato, mentre prendevo un profondo respiro e cercavo di calmarmi.

Decisi di aprire la busta prima che Benjamin o Edwin potessero irrompere in cucina. Infilai l'indice sotto la linguetta, iniziando a strappare la carta bianca. Estrassi il foglio, pieno di parole stampate con quell'inchiostro nero.

Chiusi gli occhi per qualche secondo, prima di iniziare a leggerne il contenuto. Il mio sguardo passò velocemente su quelle frasi, soffermandomi su una parola in particolare: idoneo.

Un conato di vomito si fece spazio su per la mia gola e il mio respiro iniziò ad accorciarsi. Cercai di calmarmi, non avevo il coraggio di continuare a leggere, ma mi costrinsi a farlo, perché restare nel dubbio mi avrebbe fatto solo più male.

"Il soggetto risulta quindi idoneo per ritornare a esercitare il lavoro sul campo in paese straniero."

Non sono credente, ma in quel momento pregai qualsiasi divinità, di qualsiasi religione, che su quella lettera non comparisse mai la parola Iran.

Potevo aver fatto tutti i progressi possibili e immaginabili. Potevo aver ritrovato la felicità. Willow poteva essere stata capace di migliorare la mia vita. Ma, mai e poi mai sarei stato in grado di ritornare a lavorare in quel luogo.

Rivedere quelle città distrutte, quei corpi morti che giacevano abbandonati sulle strade, i bambini che scappavano, perché sennò costretti ad arruolarsi e lavorare per quei terroristi. E i ricordi di Kyle, delle nostre notti passate a pattugliare il confine. Di quando ci davamo conforto a vicenda, ricordandoci i giorni che mancavano prima di poter tornare a casa.

No, non avrei potuto farcela a rivivere dal vivo tutto ciò. Il mio corpo non avrebbe potuto sopportare altre cicatrici, né fisiche e soprattutto né emotive.

Passai velocemente i miei occhi sul resto di quelle frasi, volendo andare a scoprire di quale paese stessero parlando.

"Si richiede quindi il trasferimento, in data Maggio 29 dell'anno corrente, a Città del Capo in Sudafrica."

Una parta di me si tranquillizzò nel leggere quella destinazione, ma subito il mio cervello mi ricordò che comunque avrei dovuto trasferirmi.

E io non volevo lasciare Vancouver, non volevo lasciare la vita che stavo iniziando a costruirmi e soprattutto non volevo lasciare Willow.

Stropicciai leggermente quella lettera, poggiandola sulla superficie piana dell'isola. Cercai di sistemare tutta la posta, impilandola esattamente come l'avevo trovata. Era una cosa che, per il momento, non volevo dire a nessuno.

Pensai che l'opzione migliore fosse quella di correre immediatamente nell'ufficio del Colonnello e parlarci.

«Edwin, prendo la tua macchina!» urlai, afferrando le chiavi e uscendo dalla porta di casa, ancora prima che potessi ricevere una risposta. Salii sull'auto e in pochi secondi stavo già guidando, decisamente sopra il limite di velocità, per le strade di Vancouver.

Ventisette minuti dopo avevo parcheggiato malamente e stavo camminando a passo veloce dentro l'imponente stabile davanti a me. Il cuore mi martellava nel petto, mentre attraversavo quei corridoi ampi, diretto in quell'ufficio.

Mi fermami davanti alla porta in legno scuro, alzando un braccio e restando fermo in quella posizione per qualche secondo, prima di decidermi a bussare.

«Avanti» la voce rauca del Colonnello mi diede il permesso di entrare. L'ufficio era dominato da quell'imponente scrivania alta, sopra la quale vi erano sparse un mucchio di scartoffie.

Le pareti dipinte di grigio erano tappezzate di foto commemorative e premi da lui vinti. Mi sedetti dalla parte opposta di quel tavolo da lavoro, le mani sulle cosce e il cuore in gola. Attendevo con ansia che lui mi dicesse qualcosa, non avevo il coraggio di parlare, di chiedere.

«Se è qui, significa che ha ricevuto la mia lettera» commentò lui, senza nemmeno alzare lo sguardo su di me. Continuava a sfogliare quei fogli pinzati, leggendoli distrattamente e aggrottando, di tanto in intanto, le sopracciglia.

«Esatto, Signore» risposi semplicemente, provando a calmare il mio nervosismo. Il Colonnello arricciò le labbra, abbandonando quei fogli sulla scrivania.

«Allora suppongo che lei sia qui per queste» mi disse poi, alzandosi da quella comoda sedia e incamminandosi verso un armadietto a cassaforte posto sulla parete di fronte a me.

Inserì un codice e poi recuperò una scatola in legno scuro e una borsa sportiva con il logo dell'esercito canadese. Poggiò entrambi quegli oggetti davanti a me, lasciandomi a metà tra il confuso e lo stupito.

Prima ancora che me ne potessi rendere conto, le mie mani stavano vagando sulla superficie di quella scatola. Aprii il coperchio, rivelando ai miei occhi alcune delle medaglie che mi erano state assegnate durante i miei anni di servizio.

Per un momento tutti i bei ricordi della mia carriera lavorativa mi tornarono in mente, facendomi sorridere orgoglioso. Mi feci rigirare tra le dita quella medaglia rotonda, dal colore oro e il bordo ricamato. Una medaglia all'onore, che mi era stata consegnata dopo che avevo quasi perso la vita per difendere e portare in salvo una famiglia iraniana.

Istintivamente mi chiesi che fine avessero fatto quelle persone. Se stessero bene e fossero riusciti finalmente a scappare da quel luogo di guerra, iniziando a vivere la vita che meritavano.

E allora mi resi ancora più conto della reazione che avevo avuto dopo la morte di Kyle. Di come fossi scappato via, allontanandomi dai miei doveri e fingendo che mai nulla fosse accaduto.

Non ero un codardo, non lo ero mai stato. Eppure, davanti alla morte di quelle persone a me così care, avevo preferito andare via, lasciare che le mie responsabilità se le prendesse qualcun altro.

Ma nessuno, se non io, avrebbe potuto sistemare i miei casini e le mie emozioni.

«Signore, io sono onorato di sapere che mi riteniate pronto per tornare sul campo» iniziai, mentre lui mi osservava dall'alto. Quell'espressione seria che l'aveva sempre contraddistinto e i lineamenti spigolosi del viso che non aiutavano a donargli un'aria distensiva.

«Ma qui a Vancouver io ho davvero trovato-» venni interrotto ancora prima che potessi terminare la frase. Il Colonnello prese nuovamente posto sulla sua sedia, sorridendo appena.

«Come si chiama?» mi chiese con un sopracciglio alzato. Rimasi interdetto per qualche secondo, non aspettandomi minimamente quella domanda.

«Prego?» cercai di fare un po' il finto tonto, non essendo sicuro di voler far vertere il nostro discorso su quell'argomento.

«Oh, Miller, crede che sia stupido? Quando ci sono indecisioni c'è sempre di mezzo una lei, o un lui. Perciò, come si chiama?» insistette ancora, incrociando le mani sotto il mento.

«Willow» alla fine mi decisi a rispondere. Pronunciare il suo nome, per la prima volta con qualcuno che non facesse parte della mia ristrettissima cerchia di amici, mi fece uno strano effetto.

Un effetto che contribuì a rendermi ancora più incasinati i pensieri. Amavo il mio lavoro, non avevo mai cambiato idea sul mio senso del dovere, sulla voglia di rendere servizio al mio paese. Anche se per un attimo avevo perso la strada, quella promessa che, molti anni prima, avevo fatto a me stesso, a mio padre, non avrebbe mai potuto essere infranta.

Ma dall'altra parte avevo lei, Willow. L'unica donna che avessi mai conosciuto in vita mia che fosse stata in grado di prendermi per davvero. Da quando mi ero arruolato, avevo sempre rinunciato alla mia vita sentimentale. Nessuna era mai stata in grado di attirare la mia attenzione.

Willow, invece, ci era riuscita. Era diventata il mio punto fisso. Ciò a cui pensavo quando ero al lavoro e che mi dava la forza di arrivare a fine giornata. La persona da cui mi veniva spontaneo correre quando ero felice e quando ero triste.

Erano sentimenti ed emozioni che mi spaventavano parecchio. Perché erano più forti di qualsiasi altra cosa avessi mai provato prima. Erano stati capaci di farmi dimenticare il dolore, eppure, per ironia della sorte, sarebbero stati anche gli unici in grado di farmi soffrire oltre ogni dire.

Nonostante questo, non volevo che svanissero. Non volevo lasciarla andare.

«Bel nome» commentò, sospirando e chiudendo gli occhi per qualche secondo. «Sa che non le avrei mai inviato quella lettera se non l'avessi ritenuto pronto, vero?» domandò retoricamente e io mi ritrovai ad annuire lentamente.

«E sa che non le avrei mai chiesto di ritornare se non fossi stato consapevole delle sue enormi doti e capacità» quella volta non la pose sotto forma di domanda, facendomi abbassare nuovamente lo sguardo sulle mie medaglie.

«Miller, è uno dei migliori nel suo campo, se non il migliore» incalzò, spingendo con una mano quel borsone verso di me. «È fatto per questo lavoro e questo lavoro è fatto per lei. Ne siamo tutti consapevoli. Come siamo consapevoli del fatto che la nostra vita sia dura, fatta di rinunce, dolore e incubi» continuò, mentre io mi mordevo nervosamente il labbro inferiore.

«Ma anche piena di soddisfazioni» concluse, invitandomi con lo sguardo ad aprire quel borsone scuro, che ormai si trovava sotto i miei occhi.

Tirai la cerniera con un unico scatto deciso, rivelando alla mia vista una divisa mimetica, diversa da quella che indossavo per andare in aeroporto.

Era la mia vecchia divisa, con ancora attaccati tutti i gradi sulle due spalline e le medaglie sopra la tasca sinistra.

Toccai quel tessuto, ritrovandomi a ricordare tutto ciò che era stato del mio passato. Strinsi quella divisa tra le mani, avvertendo un profondo senso di nostalgia per quello che era sempre stato il mio lavoro sul campo.

Forse ero masochista. Dopo tutto quello che avevo passato, dopo tutto quello che avevo sopportato e visto, come poteva mancarmi quella vita?

Eppure era così, mi mancava.
Perché quello ero io, un militare dell'esercito canadese.
Un militare che, però, a quanto pareva aveva deciso di aprire il suo cuore nel momento sbagliato.

«E ora mi guardi negli occhi, Tenente Miller» ordinò il Colonnello con tono fermo. «Mi guardi negli occhi e mi dica che lei non è più pronto per questo lavoro, che questo non è ciò che vuole.»

ꨄꨄꨄ

Era lì, a pochi metri da me, rideva genuinamente con le sue due amiche. Il sole le illuminava il volto, i capelli castani, leggermente mossi, che le ricadevano sulle spalle e ogni tanto le finivano sul viso.

La stavo aspettando davanti a quel vecchio faro rosso del porto, come mi aveva detto. Mentre si avvicinava sempre di più a me, sentivo il cuore iniziare a martellarmi nel petto. Era passato un giorno da quel mio colloquio con il Colonnello.

In quel minimo lasso di tempo non avevo avuto il coraggio di dire a nessuno della lettera che avevo ricevuto. Ma sapevo che avrei dovuto farlo e anche alla svelta. Lei, più di tutti, meritava di sapere.

«Ciao!» esclamò Willow, nel momento in cui mi fu davanti. Lo splendido sorriso che non aveva mai abbandonato il suo volto e che si era fatto ancora più raggiante quando aveva incontrato i miei occhi.

«Ehi» risposi io con tono dolce, cercando di non far trasparire il nervosismo che montava dentro di me.

«Ma come siete aridi voi due» si intromise Brandi, scuotendo la testa. «Neanche un bacio» alzò gli occhi al cielo, dando una spinta a Willow che finì, inevitabilmente, contro il mio petto.

Le avvolsi le braccia attorno alla vita, stringendola a me e beandomi di quel contatto così ravvicinato. Mettendo, per una volta, da parte le mie abitudini distaccate.

Willow lanciò un'occhiataccia alla sua migliore amica, per poi rigirarsi tra le mie braccia e poggiare la sua schiena contro il mio petto.

«Va bene, piccioncini, divertitevi mentre noi andiamo ad ubriacarci alla festa nel parco dei Totem» disse Brandi, afferrando Cara per un polso e trascinandola via. Il mio sguardo confuso era bastato per far decidere a Willow di spiegarmi cosa intendesse la sua amica.

«C'è un parco di Totem Indiani più avanti, ogni primavera organizzano una festa all'aperto ad entrata libera» mi rivelò, facendo spallucce.

«Volevi andarci?» le domandai, preoccupandomi del fatto che magari avesse rinunciato sapendo che io non amavo molto le feste.

«No, tranquillo. Ci vado ogni anno e il giorno dopo mi sveglio sempre in qualche posto disparato e con un mal di testa assurdo» rispose ridendo e facendo ridere anche me.

Iniziammo a camminare dalla parte opposta, dirigendoci verso la spiaggia. Abbastanza vicini da far sfiorare le nostre mani, ci muovevamo a passo lento verso la nostra meta.

«C'è una cosa che dovrei dirti» iniziai quel discorso, nell'esatto momento in cui prendemmo posto sulla sabbia morbida.

«Dimmi» rispose lei, mentre si toglieva le scarpe e allungava i piedi fino a farli scontrare con quell'acqua ancora fin troppo fredda.

Provai più volte a cercare le parole giuste per comunicarle ciò che era accaduto, ma non ci riuscii. Perciò decisi di estrarre dalla tasca dei pantaloni quella lettera e porgergliela. Willow aggrottò le sopracciglia, assumendo un'espressione confusa, che preso si trasformò in preoccupata, dal momento in cui mi vide distogliere lo sguardo da lei.

Aprì quella busta, iniziando a leggerne il contenuto. Rimase ferma in quella posizione, con la lettera stretta tra le dita, per interminabili minuti.

«Che cosa significa?» mi domandò, anche se aveva capito benissimo cosa ci fosse scritto e cosa comportasse. Mi feci coraggio, portando lo sguardo nel suo. Incontrai i suoi occhi, che non avevano più nulla di felice e spensierato. Un velo di tristezza aveva preso il sopravvento, mentre le sue mani non smettevano di stringere quel maledetto foglio.

«Ashton...» disse, quasi in un sussurro tremante e l'ennesimo pezzo del mio cuore si spezzò. Come avrei potuto lasciarla andare? Come avrei potuto partire senza di lei? Se solo vederla con quell'espressione triste mi provocava un dolore incurabile.

«Willow... io non...» la voce mi morì in gola. «Non volevo farti male. Te l'avevo detto che non sarei stato quello giusto, che sono un casino» ma quell'ultima frase la dissi più a me stesso che a lei. Mi stavo odiando per aver permesso, ancora una volta, alla mia vita di far soffrire qualcuno.

Un qualcuno a cui avevo scoperto di tenere oltre ogni mia aspettativa.

«No, no, no, aspetta» le sue mani si poggiarono sulle mie, un semplice contatto che bastò per calmarmi. «Farsi prendere dal panico non serve a niente. Cerchiamo di ragionare» mi disse, abbozzando un mezzo sorriso.

Prese un profondo respiro, mordendosi l'interno guancia e portando lo sguardo verso l'orizzonte. «Okay, qui dice che non dovrai partire prima di due settimane, abbiamo tutto il tempo per organizzarci e capire come fare» ragionò ad alta voce, per poi girarsi di scatto verso di me.

Mi guardò da dietro le sue ciglia lunghe, coperte da un leggero strato di mascara. «Non voglio perderti» ammise e fu a quel punto che mi resi conto che senza di lei nulla avrebbe più avuto senso.

Ero incazzato, perché l'unica cosa che era stata in grado di salvarmi, di farmi ritrovare la felicità, era anche la causa del mio trasferimento. Il mio stare di nuovo bene aveva determinato la decisione del Colonnello. Ero davvero incazzato con la vita in quel momento.

E davanti alle sue parole, al suo sguardo, pensai, per la prima volta in vita mia, di lasciare il mio lavoro.

«Nemmeno io voglio perderti» rivelai e lei si gettò tra le mie braccia. Ci baciammo, scaricando tutta la nostra frustrazione, staccandoci solo qualche minuto dopo per riprendere fiato.

«Posso anche non partire» dissi timidamente, guadagnandomi uno sguardo truce da parte sua.

«Non pensarci nemmeno, non rinuncerai a questa cosa per me» il suo tono era categorico e quasi mi fece ridere. «Se non vuoi partire devi farlo perché lo desideri tu e basta» concluse, lasciandomi un altro veloce bacio sulle labbra.

E più passava il tempo, più passavo il tempo con lei, più mi rendevo conto che sarebbe potuta essere davvero la donna della mia vita.

«Possiamo farcela» mi rassicurò, stringendomi la mano e facendo sì che i nostri occhi si incatenassero.

«Possiamo farcela» ripetei sorridendole e spegnendo per un attimo la mente.

🌟🌟🌟

Eccomi con il nuovo capitolo!

Scopriamo ciò che il Colonnello aveva detto ad Ashton la sera del compleanno.
Allora, voi cosa ne pensate? Credete che il trasferimento sia la cosa più giusta per lui?

E che fine credete che fanno i nostri protagonisti?
Ce la faranno a stare assieme nonostante la distanza?

Oppure Ashton potrebbe davvero decidere di non partire e abbandonare il suo lavoro?

Per scoprirlo non dovrete far altro che continuare a leggere.

Lasciate una stellina nel caso il capitolo dovesse esservi piaciuto e non dimenticatevi di commentare facendomi sapere cosa.
Per qualsiasi cosa non esitate a contattarmi.

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XOXO, Allison 💕

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