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Capitolo 4 (parte prima)

Nadia Dupois era stata una giovane ambiziosa; i suoi genitori, entrambi spirati l'inverno scorso, l'avrebbero definita un uragano.

Prima che la malattia prendesse il sopravvento, la sua irrequietezza le aveva permesso di distinguersi dalla massa. Era stata una donna tutta pepe; fin da subito, aveva espresso il desiderio di vivere dettando lei - e solo lei - le regole da seguire.

I suoi capelli, di un rosso fiammeggiante, non passavano di certo inosservati. Per questo, alla sola età di diciassette anni, si era ritrovata a dare continui due di picche a chiunque si fosse presentato alla sua porta; non era interessata agli uomini.

Nadia Dupois, all'epoca, poteva vantarsi di avere solo un obiettivo, quello di mangiarsi il mondo.

Correva l'anno 2010 quando, per la prima volta, sentì parlare del Disturbo Borderline di personalità. A quel punto, tutto divenne improvvisamente più chiaro; i suoi sbalzi d'umore, la sua instabilità nei rapporti, la sua perdita di appetito, i pensieri suicidi.

Le mille sfumature che la caratterizzavano, nel bene e nel male, vennero riassunte in poche e semplici parole.

La malattia, dal decorso lento, non le aveva creato grossi problemi; durante quei primi anni, era riuscita a condurre una vita pressappoco normale. Con il passare del tempo, tuttavia, le difficoltà - subdole e silenti - non avevano tardato ad arrivare.

Conobbe Stephen Torres nella primavera del 1986; tra i due fu amore a prima vista. Convolarono a nozze nel 1989 e nove mesi dopo, nacque Matthew, il loro primogenito. Era un bambino vivace, dolce; aveva gli stessi occhi color nocciola del padre, mentre i suoi capelli - sottilissimi come la filigrana - erano arancioni. Nadia diceva sempre che le ricordavano il tramonto.

Nel 1996 - come un fulmine a ciel sereno - arrivò Sophia; lunghi capelli neri e inconfondibili occhi verdi. Quando la mano esile di Nadia toccò per la prima volta quella, al contrario paffutella, di Sophia, sentì di non poter chiedere altro dalla vita; aveva avuto tutto, il meglio.

Stephen e la sua consorte, tuttavia, dovettero sacrificare molto lungo la strada che li avrebbe condotti ad essere una famiglia. Nadia, più di tutti, fu privata dell'unica cosa che le fosse necessaria per essere una buona madre: la sanità mentale.

E ora, eccola qui, intenta a spiare sua figlia; era colpa sua se Sophia, quel fatidico giorno, aveva deciso di scappare. Era colpa sua se Sophia, quel giorno, aveva scelto di mettersi alla guida, con gli occhi traboccanti di lacrime e la mente tutt'altro che lucida.

Da sempre, aveva cercato di tenerla lontana dai meandri della sua pazzia; tuttavia, né lei e né Matthew l'avevano mai abbandonata, neanche per un secondo.

***

Sophia non aveva scelta; doveva pensare ad una soluzione e doveva farlo in fretta. Tuttavia - per qualche strana ragione - il suo sesto senso le intimò di prendersi ancora del tempo. In cuor suo, nonostante lo spavento iniziale, sentiva che quella donna, ancora immobile, non le avrebbe fatto del male.

Aveva un non so che di familiare; non riusciva a scorgere niente di lei, se non il suo corpo magro, fasciato da un paio di vestiti così grandi che, se si fosse messa di impegno, sarebbero calzati a pennello con anche lei dentro.

«Sto per chiamare la sicurezza» sussurrò Sophia; era passata dal volere che la donna se ne andasse al cercare - quasi disperatamente - di suscitare in lei una reazione. «Se mi conosci, questo è il momento per dirlo» asserì, il tono di voce tremolante.

Il cuore le batteva all'impazzata; non sapeva se avesse preso la decisione giusta, ma aveva scelto di seguire l'istinto, impavida come mai lo era stata prima di quel momento.

Nadia Dupois, dal canto suo, non proferì parola; avrebbe voluto rivelarle la sua vera identità, abbracciarla, ma era conscia che, se si fosse concessa nuovamente il lusso di farsi conoscere, Stephen non l'avrebbe mai perdonata.

Dopotutto, i sensi di colpa della stessa l'avrebbero consumata, molto più di quanto già non lo avesse fatto la malattia.

Così, dopo aver bisbigliato un «nessuno di importante», balzò in avanti, rivolgendo un ultimo languido sguardo alla ragazza, prima di cominciare a correre in direzione delle scale.

Nadia Dupois sapeva; sapeva tutto e non aveva intenzione di rivelarlo a nessuno.

***

Passarono i giorni e Sophia non disse niente; aveva deciso di tacere per evitare che qualcuno tentasse di ostacolare la fatica che stava facendo nel cercare di assopire i dubbi che la assillavano. Non era finita lì; nella sua testa, qualcosa non tornava.

Ancora una volta, quella sensazione aveva fatto capolinea, spingendola sempre di più a credere di conoscerla. Tuttavia - nonostante ci si fosse messa d'impegno - non era riuscita a capire il perché di tutto quel mistero che la donna, imperterrita, aveva voluto ostentare con cotanta fermezza.

***

Il Dottor Reyes non sapeva più quali pesci prendere. Aveva passato gli ultimi quattro giorni sui libri; aveva sfogliato pagine e pagine di ricerche. Aveva memorizzato gran parte dei saggi che aveva letto; capitava spesso - ultimamente - che John si ritrovasse con la testa china su di essi, assopito.

Era convinto che, con la dedizione che gli faceva da sfondo, sarebbe riuscito ad arrivare al nocciolo della questione, guarendo Sophia con un solo schioccare delle dita.

Aveva promesso a sé stesso - e ancor prima a Stephen - che la sua bambina sarebbe tornata a casa entro la fine dell'anno; mancavano poco più di due mesi e, a giudicare dai suoi continui buchi nell'acqua, non gli sarebbero bastati.

Dominik bussò alla porta del suo studio; era diventato un appuntamento fisso. Si incontravano dalle due alle tre volte a settimana per discutere delle novità, belle o brutte che fossero; il Signor Foster, come lo chiamava lui, era stato promosso da specializzando a sentinella.

«Trovato niente?» chiese il ragazzo, indicando con un cenno della testa i fogli sparpagliati sulla scrivania del Dottor Reyes. John, certo che - da lì a breve - gli sarebbe venuto un attacco di emicrania, cominciò a massaggiarsi le tempie.

«Niente che già non sapessi» ammise, togliendosi gli occhiali; li lanciò distrattamente sul tavolo, troppo stanco perfino per riporli nella loro custodia. «C'è questo articolo che credo possa fare al caso mio» spiegò, accavallando le gambe. «Tuttavia, è scritto in russo e mi ci vorranno mesi per tradurlo»

Dominik, ormai, c'era dentro fino al collo; più volte si era chiesto se avesse sbagliato a lasciarsi coinvolgere. John e Stephen non solo facevano da giuria; erano giudici e boia allo stesso tempo.

Eppure, non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che - a scapito di tutto - stessero agendo negli interessi di Sophia, la ragazza che, quando ancora era solo un tirocinante, aveva visto crescere, incrociandola nei corridoi della struttura.

«Posso fare qualcosa?» domandò; aveva fatto trenta, tanto valeva far trentuno. «A meno che tu non sappia parlare russo, no» rispose John, pensieroso. «Anche se...»

Dominik drizzò le orecchie. Si disse di essere pronto a tutto; tirarsi indietro sarebbe stato da codardi. Tanti aggettivi si potevano usare per descriverlo. Vigliacco, tuttavia, non rientrava fra questi.

«Vedi, Signor Foster, siamo ad un punto morto. Mi sono confrontato prima con Josè e poi con Stephen; tutti e tre abbiamo concordato che, essendo Sophia di indole diffidente, non tanto facilmente si lascerà andare. Men che meno con me e con il Dottor Ortega» John si interruppe, cercando di decifrare l'espressione - alquanto ambigua - impressa sul suo viso.

«Mi rendo conto di starti chiedendo più di quanto forse tu sia disposto a darmi, ma credo che ciò che sto per proporti potrebbe accelerare le tempistiche che, come ti ho già detto, sono cruciali per la riuscita del piano»

Dominik, a quel punto, faceva fatica a stargli dietro; si era perso a metà fra la prima e la seconda frase di quella che sembrava essere - più che una richiesta - una riflessione fatta ad alta voce.

«Conquista la sua fiducia; fa' in modo che si apra, che veda in te un punto di riferimento, oltre che una valvola di sfogo. Solo così sapremo cosa davvero le passi per la testa»

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