Capitolo 3 (parte seconda)
«Come ti senti, oggi?» le chiese pacatamente il Dottor Ortega. Sophia, in tutta risposta, alzò gli occhi al cielo; era stanca di sentirselo domandare.
Con il passare dei giorni, aveva cominciato persino a pensare che si trattasse di una prerogativa per entrare nella sua stanza, quasi una parola d'ordine.
«Una meraviglia» ironizzò, accompagnando quelle parole con una risata appena percettibile. Dopotutto, non era ovvio? La ragazza stentava a credere che, a quella domanda e nelle sue condizioni, qualcuno avrebbe risposto diversamente.
Il Dottor Ortega non sembrò battere ciglio. Nel corso degli anni, ne aveva viste e sentite di tutti i colori; ricordava con affetto Michael che – dopo una lunga seduta – aveva cercato di mettergli le mani addosso.
E, ancora, ricordava quasi con nostalgia Nadia Dupois, sua paziente da anni – nonché madre di Sophia – che aveva minacciato ripetutamente di tagliarsi le vene davanti ai suoi occhi.
«Non hai perso il tuo senso dell'umorismo, questo vorrà pur dire qualcosa» le labbra del Dottor Ortega si sollevarono nell'accenno di un sorriso. «Mi hanno detto che hai fatto dei progressi» si affrettò ad aggiungere.
Sophia, soppesando quelle parole, si strinse nelle spalle. Aveva fatto di tutto, era successo di tutto, ma nulla le rimaneva fuorché un bicchiere mezzo vuoto, ancora da riempire. «Questa mi è nuova»
«Credi che non sia vero?» la incalzò Josè Ortega, dopo essersi ricalcato gli occhiali sul naso. «Dottore, forse si è dimenticato di guardare con occhio critico la prognosi che mi è stata rifilata» Sophia fece una piccola pausa, trovando il tempo per inspirare ed espirare profondamente, prima di proseguire. Fuori era placida, dentro era tempesta.
«Oh, Sophia, ti sbagli. Ho letto molto attentamente il fascicolo datomi dal Dottor Reyes; tuttavia, mi permetto lo stesso di dissentire. È anche vero che, non essendo uno specialista in tal senso, mi trovi del tutto impreparato su eventuali pareri professionali, non di certo eguagliabili a quelli che, invece, potrebbe darti qualcun altro» la sua osservazione acuta mise in soggezione la ragazza che, in assenza di tanta destrezza nel maneggiare le parole, si indispettì.
«Forse, è per questo che le mie affermazioni hanno peccato di credibilità; dopotutto, la psichiatria non è una scienza esatta» il Dottor Ortega fece il segno delle virgolette con le dita, sottolineando la citazione da lui appena menzionata.
Era luogo comune credere che lo studio della mente fosse soltanto una bazzecola; una brutta copia dell'arte suprema, la scienza e i suoi fedeli derivati. «A te cosa piacerebbe diventare da grande?» le chiese, infine.
Sophia aggrottò la fronte, confusa; annaspò fra le virgole di quel discorso di cui faceva fatica a distinguere l'inizio dalla fine. Il suo piano di scoprire le carte in tavola del buon Dottore si era rivelato nullo. Capire dove stesse cercando di andare a parare era più difficile del previsto.
«Non lo so» ammise, dopo averci riflettuto. La verità era che non si era mai crogiolata nell'illusione di un futuro roseo; era stata risucchiata dal passato, persino il presente non era altro che un punto lontano. «Pensaci bene. Tutti abbiamo dei sogni, Sophia, delle aspettative. Lasciati guidare dalla fantasia»
Il tono di voce del Dottor Ortega era morbido, quasi a voler dare l'impressione di star parlando con un bambino. Spesso, non se ne accorgeva nemmeno; lasciava il posto al pilota automatico, prendendosi poi la briga di osservare la scena da dietro le quinte.
Sophia Torres, seppur esteticamente somigliasse a Stephen, possedeva un temperamento singolare, unico nel suo genere; temperamento che Josè aveva avuto il piacere di riscontrare nella figura della madre, Nadia Dupois.
«Gliel'ho detto, non lo so!» rispose Sophia, esasperata da un'insistenza che, a detta sua, non aveva ragione di esistere. La sua pazienza, ormai, era ridotta all'osso.
Il Dottor Ortega estrasse dalla saccoccia del camice un orologio da taschino; in quel momento, Josè – agli occhi di Sophia – non era più un semplice Primario di psichiatria, bensì Freud, resuscitato dal mondo dei Morti per porgerle i suoi omaggi.
***
Il colloquio era giunto al termine e Sophia esalò un sospiro di sollievo. Erano passati da un argomento all'altro senza sosta e la ragazza sentiva di aver fallito; era come se il Dottor Ortega, per tutto il tempo, non avesse fatto altro che sottoporla ad un test che, però, non era stata in grado di superare.
«Direi che per oggi abbiamo dato a sufficienza; ci vediamo – sbirciò fra le pagine di alcuni fogli che stringeva fra le mani con espressione incerta – la prossima settimana, più precisamente martedì»
«Dottore, posso farle una domanda?» Sophia, timidamente, rivolse il proprio sguardo in direzione dei suoi piedi che, fasciati da un paio di calzini bianchi, penzolavano oltre il bordo del letto.
«Certamente» disse il Dottor Ortega, arrestandosi ad un passo dalla porta, in attesa che lei avanzasse. «Cos'ho che non va?» questa domanda la tormentava da giorni; sicura di aver subito un trauma, si era chiesta fin da subito quali conseguenze avesse accusato.
«Non hai niente che non vada, Sophia, questo voglio che sia chiaro. Avere delle fragilità non fa di te una persona sbagliata» fece una piccola pausa, schiarendosi la voce. Il suo viso si corrucciò in un'espressione severa, quasi di rimprovero. «Soffri di PTSD; non temere, lavorando sodo, diverrà presto solo un ricordo lontano»
***
Dominik Foster era riuscito a concedersi una giornata libera e – dopo aver lavorato come un matto, dovendosi fare in quattro per passare da un reparto all'altro con scioltezza – era proprio quello che ci voleva.
La fregatura, tuttavia, quella sera non era tardata ad arrivare; il Dottor Reyes, con il suo impeccabile tempismo, lo aveva contattato, suggerendogli che avrebbe fatto bene a raggiungerlo nel suo studio.
A quelle parole, gli ingranaggi nella sua testa si misero in moto; Dominik cominciò ad immaginarsi di tutto. Si chiese cosa fosse successo, si chiese cosa avesse sbagliato. Il tono perentorio di quel messaggio lo aveva mandato in tilt, un ko tecnico che non si aspettava.
Si vestì di tutto punto e afferrò di sfuggita le chiavi della macchina; non appena mise piede fuori dalla porta, il suo cellulare – che aveva dimenticato sul tavolo in cucina – cominciò a vibrare, la scritta "Avvocato Lewis" che lampeggiava sullo schermo.
Dominik arrivò trafelato davanti all'ufficio del Dottor Reyes. Tutto questo correre lo stava facendo desistere dall'andare ancora in palestra; fare della sana attività fisica, dopotutto, non gli mancava di certo.
«Foster, accomodati. Cosa ci fai lì impalato?» John ridacchiò sotto i baffi; provava un piacere quasi sadico nel torturare i novizi. Malgrado tutto, Dominik era un bravo ragazzo. Lavorava sodo e, spesso, anche più del dovuto.
Il Dottor Reyes, dopo avergli gentilmente chiesto di chiudersi la porta alle spalle, cambiò espressione; il suo corpo si irrigidì, assumendo una postura austera, quasi autoritaria.
Non era sua abitudine dilungarsi in convenevoli superflui e, per questo, arrivò dritto al punto. Dominik venne aggiornato sulle ultime novità; le volontà di Stephen – per quanto i due fossero in disaccordo con lui – erano giunte alle orecchie di entrambi forte e chiaro.
«Mi faccia capire un attimo. Per quanto ancora dovremo andare avanti con questa farsa?» chiese Dominik, scosso da un moto di audacia che non era riuscito a trattenere.
«Non lo so» ammise John, pensieroso. «Potrebbero volerci giorni, settimane; perfino mesi!» rimarcò le ultime parole con un tono di voce che, sempre più esasperato, si era alzato di qualche ottava. «Credimi quando ti dico che non ci stia dormendo la notte, ma ho le mani legate. Devo assecondarlo» concluse, prendendosi il volto fra le mani.
***
Disturbo post-traumatico da stress, Disturbo post-traumatico da stress. Sophia lo ripeté di nuovo, questa volta con più enfasi; aveva sperato che, dicendolo abbastanza spesso, sarebbe risuonato meno terrificante di quanto in realtà non fosse.
La mora non fece in tempo ad elaborare quel pensiero, che venne interrotta da Dominik, il quale si appoggiò – a peso morto – allo stipite della porta. «Non hai trovato niente su cui inciampare, oggi?» chiese Sophia; quelle immagini non si sarebbero cancellate tanto presto, così come l'impulso di rinfacciarglielo ogni volta che ne avesse avuto l'occasione.
«Ah-ah. Accogli tutti i tuoi ospiti in questo modo?» da una parte, sperava di no. Dominik, geloso di indole, aveva sempre cercato di rendere ogni suo rapporto unico. Li custodiva con riguardo, tenendoli lontani dagli sguardi altrui.
«No, non proprio. Del resto, non capita mica tutti i giorni di incontrare qualcuno che, dopo cinque minuti, sia già con il sedere per terra»
«Ti svelo un segreto» le disse Dominik, avvicinandosi. Dopo essersi accomodato sulla poltroncina di velluto rosso, tirò fuori dalla tasca del giubbotto una caramella.
Il suo tono di voce si affievolì in un sussurro, che liberò non appena si sporse in avanti, così da poterle sfiorare l'orecchio con le labbra. «È alla menta. L'avevo portata con l'intenzione di dartela, ma visto come ti sei comportata...»
Il ragazzo le sventolò la piccola delizia davanti agli occhi; la scartò con un gesto abile delle dita e... puff. Se la mangiò, lasciando Sophia esterrefatta.
***
Quella notte, Sophia sognò gabbie di ferro, angoli bui e due iridi dello stesso colore del miele, intente a perseguitarla.
Uno spiffero d'aria gelida la fece rabbrividire, svegliandola.
Con gli occhi ancora impastati dal sonno, si guardò intorno; che ore erano? Si strinse nel tepore delle coperte. Aveva i piedi ghiacciati, le mani intorpidite.
Notò la finestra aperta; che strano, era convinta di averla chiusa. "Ah, la forza dell'abitudine! Me lo sarò immaginato", pensò fra sé e sé, mentre si alzava per porre rimedio a quello sbaglio.
«Sophia» un sibilo la raggiunse, facendole accapponare la pelle. Si voltò di scatto, gli occhi sbarrati a causa dello spavento. La sagoma minuta di una donna comparve in penombra, rendendole impossibile identificarla; si paralizzò, sentendosi – per un attimo – mancare la terra da sotto i piedi. «Chi sei?» chiese, balbettando.
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