Capitolo 2
Dominik Foster, che nome inusuale. Sophia rimase in silenzio per qualche minuto mentre lo guardava. Non poté fare a meno di assecondare i suoi pensieri indisciplinati, che la sospingevano verso una serie di apprezzamenti impuri.
Un uomo di ventisette anni dai capelli folti e dello stesso colore del miele, dopotutto, non poteva suscitarle di certo l'effetto opposto.
Dominik la stava scrutando, i suoi occhi ambrati non la perdevano di vista un attimo. Sapeva a cosa sarebbe andato incontro, accettando l'incarico offertogli gentilmente dal Dottor Reyes: non era altro che l'ennesima pedina di una partita a scacchi. Il suo compito era quello di diventare l'ombra della figlia di Stephen, accertandosi che tutto andasse per il verso giusto.
Un leggero brivido corse lungo la schiena di Sophia; la pelle cominciò a formicolarle. Improvvisamente, il suo cuore mancò un battito. Dominik non la stava guardando, la stava vedendo.
«Prima devi prendere questa» disse il nuovo arrivato, allungandole una pastiglia dalle piccole dimensioni. Si era arrotolato le maniche della divisa fino a poco sopra gli avambracci; nonostante fuori la temperatura non fosse ottimale, l'aria calda della stanza lo aveva fatto sudare già a sufficienza.
I suoi muscoli guizzarono quando si accinse a spostare il carrello, leggermente arrugginito, che si stava trascinando dietro dall'inizio già sofferto di quella mattinata.
«E poi questa» proseguì, porgendole per finire una seconda pastiglia leggermente più grande della precedente. Da brava bambina, Sophia le mandò giù entrambe; il sapore amarognolo le impastò la bocca. Fece una piccola smorfia di disgusto, mentre sistemava il bicchiere mezzo vuoto sul comodino.
«Buone?» chiese Dominik, ironico. Dopodiché, tornò a scarabocchiare sul foglio che aveva in mano. Di rimando, Sophia inarcò un sopracciglio; era la seconda volta che qualcuno le facesse notare - implicitamente - di starsi divertendo alle sue spalle. "Tutta questa confidenza è sospetta" pensò, arricciando la punta del naso; era come se tutti la conoscessero, tutti tranne lei.
«Squisite. Così buone che vorrei il bis»
«In tutto fanno cinquecento dollari. Paghi in contanti o con la carta?» Dominik si strinse leggermente nelle spalle, a mo' di scherno.
Non gli capitava tutti i giorni di potersi concedere il lusso di ridere e scherzare con un paziente. Eppure, non aveva saputo resistere. Sarà stata la giovane età di entrambi, sarà stato il suo sorriso, saranno stati i ripetuti avvertimenti di John; non se lo spiegava.
Ines, nel frattempo, si era fatta da parte. Alza, piega e tira. Alza, piega e tira. Ripeté queste parole fra sé e sé mentre si affrettava a sistemare il letto, l'unico ancora disponibile nella stanza.
Se c'era qualcuno di contrario a ciò che era stato deciso - senza chiedere permesso neanche alla diretta interessata - era proprio lei. Sophia meritava di più; molto di più. Ci pensava e ci ripensava e più passavano i giorni e più si convinceva di doverne stare fuori. Altrimenti, conoscendosi, avrebbe finito per non riuscire più a tacere.
Sbuffò, indaffarata fra le fatiche di un lenzuolo che si rifiutava di stare al suo posto. Non capiva perché le stessero facendo rifare un letto che nessuno stava utilizzando. Aveva cose più importanti di cui occuparsi.
«Ines, direi che qui siamo a posto. Proseguo con il giro?» Dominik la distrasse giusto in tempo per impedirle di maledire la sua responsabile.
Sophia, d'altro canto, si sentì come una bambina di cinque anni; incrociò le braccia al petto e si trattenne dallo sbattere i piedi per terra. Non poteva rimanere per altri cinque minuti?
Ines annuì, assorbita dal suo incarico. A sessant'anni non si sentiva per niente soddisfatta dalla vita che conduceva. I suoi capelli biondi, leggermente sfumati di bianco, erano raccolti in uno chignon disordinato. Qualche ruga di troppo le incorniciava il viso, conferendole un'aria affranta.
Capitava spesso e volentieri che Sophia sentisse l'impulso di abbracciarla, di dirle che sarebbe andato tutto bene. Ricordava con affetto quando, due sere prima, le aveva portato di nascosto un budino al cioccolato extra, rischiando di essere scoperta e quindi rimproverata.
***
Il resto della giornata proseguì senza troppe interruzioni. Dominik era stato spedito da una parte all'altra dell'ospedale; era riuscito a malapena a dare un morso al pranzo che, quella stessa mattina, aveva comprato.
Sophia non riusciva a toglierselo dalla testa e quel dolce far niente non le era di certo d'aiuto. La sua mente aveva carta bianca, era libera di divagare senza mai fermarsi.
Sospirò leggermente, nel momento in cui decise di soffermarsi sul suo passato, sulla vita che così tanto crudelmente le era stata portata via. Per ora, non c'erano stati progressi. Di tanto in tanto, si ritrova a suggerirsi di lasciare stare, di guardare il bicchiere mezzo pieno; aveva la possibilità di reinventarsi, di ricostruirsi a partire da un solo cumulo di macerie.
Si chiedeva spesso se, magari, fosse stata una brutta persona e se, magari, si fosse meritata tutto quello che le era capitato.
Non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che, in realtà, sotto ci fosse molto di più. I sorrisi furtivi di alcuni, gli sguardi preoccupati di altri le trasmettevano vibrazioni contrastanti con quanto, invece, lasciavano trapelare in superficie.
«Oggi è una bella giornata, cara. Ti va se usciamo un po'?» Ines, in realtà, era alla ricerca di qualcosa che non solo distraesse Sophia, bensì anche lei. Per giunta, poter passare del tempo insieme, era la scusa perfetta per conoscerla meglio. John non le aveva detto niente; si era sigillato le labbra e aveva buttato via la chiave.
Ines, dopo un'attenta riflessione, era giunta alla conclusione di volerci provare. Voleva tutelare quella ragazza dal viso angelico, con i capelli neri come la pece e gli occhi verdi, simili a due smeraldi.
Sophia era accomodata sulla sedia a rotelle da circa una decina di minuti; stava guardando fuori dalla finestra. Il sole brillava alto nel cielo e - prestando sufficiente attenzione - ci si poteva lasciare ammaliare dal cinguettio delle rondini.
La ragazza, nonostante fossero passati diversi giorni, non era ancora in grado di reggersi in piedi. Le sue ginocchia erano malandate e le gambe le sembravano essere fatte di gelatina. I medici, come Sophia aveva previsto, le avevano puntualizzato che nulla fosse fuori posto.
Una frase l'aveva colpita: non si può tornare a correre senza aver prima imparato di nuovo a camminare.
Ma quella sedia a rotelle, se possibile, era motivo di ingombro per la ragazza, la quale non ne poteva più. Le ruote spesso si inceppavano e svoltare a destra o a sinistra era sempre un'impresa. Nonostante, ciò, le permetteva - bene o male - di arrivare ovunque lei volesse andare.
«Perché no» annuì, infine. Ines, a quel punto, non poté più fare a meno di rivolgerle un sorriso a trentadue denti, a tratti materno, mentre si avvicinava, sistemandosi così alle sue spalle.
***
Le due, mentre parlottavano del più e del meno, entrarono in ascensore. Proprio quando Ines stava per premere il pulsante che le avrebbe condotte al piano terra, una voce in lontananza la interruppe, lasciandola con l'indice sospeso a mezz'aria.
«Aspettate!» disse poi, con l'affanno di chi si era appena fatto due rampe di scale correndo. Sophia non aveva dubbi, era Dominik.
«Signore» aggiunse il ragazzo, dopo averle raggiunte. Il suo sguardo indugiò più del dovuto sul corpo minuto di Sophia, fasciato da una camicia da notte con le maniche lunghe. Sulle spalle, invece, aveva sistemato un golfino di lana color carne, così da potersi proteggere dalle intemperie provenienti dall'esterno.
Dominik si esibì in una reverenza appena accennata. La galanteria non era mai stata il suo forte; per questo, preferiva di gran lunga prendersene gioco. Uno scherzo che, presto o tardi, aveva finito per diventare parte integrante del fascino che lo contraddistingueva.
Sophia trattenne a stento una risata; sentì il suo respiro pesante fin dall'altra parte della piccola cabina. Se lo immaginava con il viso paonazzo, tutto sudato che, disperato, cercava di risalire a carponi gli scalini che lo separavano dal pianerottolo del quinto piano.
«Dove sei diretto, caro? Sali o scendi?» chiese Ines, pazientemente. La ragazza, innocente solo all'apparenza, si domandò se chiamasse tutti usando lo stesso nomignolo accondiscendente. In parte, se ne sarebbe rammaricata; credeva di essere l'unica.
«Scendo, scendo. Mi riposo una mezz'oretta e torno ad essere operativo» Dominik, in realtà, si sarebbe voluto concedere molto di più. Mancavano diverse ore prima che il suo turno giungesse al termine. Come se non bastasse, John aveva chiesto di lui; voleva incontrarlo per discutere di alcune "faccende burocratiche".
Nel frattempo, un doppio bip impedì a Ines di rispondere. Sophia, rimasta sorprendentemente in silenzio fino a quel momento, spostò lo sguardo alla sua sinistra, cercando di tracciarne la provenienza.
L'infermiera, dopo aver appoggiato la schiena sulla parete in acciaio dell'ascensore, aggrottò la fronte, piegandosi poi in avanti per sollevarsi parte dell'orlo della maglietta; con le dita afferrò il proprio cercapersone che, imperterrito, continuava a suonare. Sbuffò infastidita. Sophia avrebbe giurato di averla vista persino alzare gli occhi al cielo. Lei, che non si arrabbiava mai.
«Mi dispiace, cara. Dobbiamo tornare indietro, è sorto un contrattempo» le rivelò Ines, passandosi una mano fra i capelli.
«Se vuoi, vado io con lei» Dominik Foster, un cavaliere con l'armatura luccicante che, dopo esser montato in sella al suo cavallo bianco, era giunto in soccorso di una povera donzella in difficoltà.
Una parte di Sophia non poté fare a meno di sorridere come un ebete. L'altra, invece, prese nota di quanto il suo ricordo non gli rendesse affatto giustizia.
***
«Hai qualche preferenza?»
Sophia, a quella domanda, arricciò il naso, indecisa più che mai. Dopo essersi data un'occhiata intorno, tuttavia, si rese conto di non avere molta scelta. Davanti a lei si aprì una distesa verde, inframmezzata da vialetti ciottolati e panchine in legno d'acero.
Al centro, c'era una fontana sfarzosa, tipica dello stile Barocco del 1600; due delfini intrecciati che formavano un cuore erano l'attrazione principale, mentre l'acqua sgorgava a intermittenza dalle loro bocche, creando un gioco visivo a dir poco piacevole.
Sophia inspirò profondamente dal naso, ammaliata da cotanta bellezza, sentendosi felice più che mai di potersi beare della sensazione dell'aria fresca nei polmoni. Chiuse gli occhi per un istante e si soffermò sulla leggera brezza che le scompigliava i capelli, spostandoglieli poco oltre le spalle.
Improvvisamente, tutto intorno a lei svanì; era rimasta da sola. I problemi che, fino a poco tempo prima le angustiavano i pensieri, ora se ne erano andati, lasciando il posto al suono armonico di una risata che le fece vibrare le corde vocali. Era tornata bambina.
«Non saprei» asserì Sophia, guardando quel ragazzo che, ad oggi, altro non era che l'incarnazione di un codice che ancora non era riuscita a decifrare. «È la tua pausa, dovresti decidere tu. Io mi adeguo»
Dominik, dal canto suo, non aveva mai smesso di sorprendersi a osservarla; le aveva rubato tante piccole istantanee che non aveva perso tempo a memorizzare. Se qualcuno gli avesse chiesto di usare un aggettivo per descriverla, avrebbe risposto "semplicità".
«Ed io che speravo di essermi sbarazzato di questa patata bollente» ironizzò, scuotendo leggermente il viso. «Per di là?» contemporaneamente, fece un cenno con la testa per indicare un ponticello alla loro destra. Sophia si limitò ad annuire.
***
Il tempo scorreva e il silenzio dei due giovani con lui. Entrambi avevano riscoperto il piacere del non dire niente.
«Caramella?» Dominik allungò una mano, nel quale palmo erano appoggiate tante piccole delizie da scartare. «Non hai qualcosa di più dolce?» Sophia fece una smorfia. La scritta sull'involucro le aveva svelato il gusto, facendole rimpiangere di non aver letto "menta" al posto di "liquirizia".
«Prendere o lasciare» la provocò, ridacchiando.
«Per carità» Sophia, con disgusto, lo guardò rimettersi la mano in tasca, dove lasciò ricadere gran parte delle caramelle che aveva tirato fuori, ad eccezione di due.
«Meglio così, ce n'è di più per me» Dominik si strinse nelle spalle, in parte sconsolato; la verità era che la liquirizia non facesse impazzire neanche lui. Ogni suo tentativo di sbarazzarsene si era rivelato un fiasco, un vero disastro.
«Non le mangi?» chiese Sophia, vedendolo tentennare «eri così entusiasta». La ragazza osservò le sue labbra aprirsi e poi richiudersi, con le dita giocava con la carta delle caramelle, tergiversando. «Non dirmi che non ti piacciono» disse, accennando una risata; non si preoccupò neanche di provare a trattenersi. Si stava divertendo a sue spese e voleva che lui lo sapesse; voleva che lo sapessero tutti.
Nel frattempo, Dominik cominciò a far sfregare tra i palmi di entrambe le mani le liquirizie, simulando un'interferenza. «Non ho capito. Puoi ripetere? Non ti sento»
Sophia lo guardò come avrebbe guardato un bambino che, dopo aver combinato l'ennesima marachella, fosse corso a rifugiarsi dietro alla tenda della cucina, convinto che questa lo potesse proteggere da tutto e tutti. «Maturo, molto maturo»
Dominik continuò imperterrito; aveva cominciato perfino a farle il verso dietro. Sophia - però - per un attimo, si risentì della sua stessa battuta.
Si chiese se non avesse esagerato; parzialmente mortificata, cercò una spiegazione del suo comportamento. Il suo accompagnatore non sembrava essersi offeso, ma ciò le risollevava soltanto parzialmente l'umore. La verità era che non voleva ammettere - nemmeno a sé stessa - di avere la sensazione di averlo già conosciuto. Magari in un'altra vita.
«Però sono simpatico» asserì, dopo essersi ricomposto. Nel frattempo, Dominik aveva attirato lo sguardo curioso - più che altro esterrefatto - di tutti i presenti, davanti ai quali performò un inchino profondo, degno di una nobildonna. La folla scoppiò in un applauso assordante; Sophia avrebbe giurato di aver sentito qualcuno urlare "bravo", ma non ne era sicura. «Grazie. Grazie a tutti»
***
Sophia era di nuovo nella sua stanza, lo sguardo rivolto al soffitto. Con la mente ripercorse gli ultimi istanti di quel pomeriggio; lei e Dominik avevano riso, scherzato e si erano presi in giro. Si lasciò sfuggire una risata, ripensando a quella rovinosa caduta.
«Guarda a dove metti i piedi» gli ripeté Sophia per la seconda volta. Dominik, d'altro canto, non ne volle sapere. Imperterrito, continuò a camminare; la testa girata verso di lei e le mani che, muovendosi, accompagnavano ogni sua singola parola.
Improvvisamente, Sophia si fermò, incurvando le labbra in un sorriso quasi compiaciuto. Non vedeva l'ora di poter ammirare la sua faccia, una volta che il precipitarsi degli eventi avesse fatto il suo irreversibile corso.
Dominik, non accortosi di nulla, proseguì con il suo sproloquio; si stava lamentando animosamente del "farabutto" che gli aveva rubato lo spuntino. «C'era scritto sopra il mio nome. Sicuramente, chiunque sia stato, lo ha fatto di proposito»
Il ragazzo non fece nemmeno in tempo a finire la frase, che si ritrovò con il sedere per terra. Era inciampato sulla radice di un albero di castagne; radice che Sophia aveva già visto quando ancora erano lontani.
«Te lo avevo detto di stare più attento» lo rimbeccò lei, guardandolo dall'alto della sua postazione. Se solo le avesse dato retta, quando ancora ne aveva avuto l'occasione...
Sophia sospirò, annoiata; si spostò su di un fianco per poter sbirciare fuori dalla finestra. Il cielo era diventato nero, le tenebre erano calate su di lei e sul resto del Mondo. Non sapeva che ore fossero ma, a giudicare dallo scorcio di luna che riusciva a intravedere, dovevano essere quasi le undici di sera.
Le cominciarono a bruciare gli occhi; era stata una giornata impegnativa, se non faticosa. Come se non bastasse, nelle notti passate non aveva fatto altro che essere risvegliata dagli incubi. Alcuni realistici, altri un po' meno.
Si chiese se qualcuno la stesse cercando - fuori di lì - o se la stesse pensando. Si chiese se qualcuno stesse sentendo la sua mancanza o se - ancora peggio - qualcuno fosse invece felice della sua assenza. Con questi pensieri, sbadigliò e si lasciò cullare dal suono del suo respiro che, minuto dopo minuto, diventava sempre più regolare.
Dei vetri si infransero, qualcuno gridò. Le si ghiacciò il sangue nelle vene; era un suono tormentato. Si trovava in un labirinto fatto di mattoni e di pareti che arrivavano a toccare il soffitto. C'era una luce soffusa, torce infuocate erano sparse ad ogni angolo in cui si trovava.
Aveva freddo, tanto freddo. Si accorse di essere scalza e di avere entrambe le ginocchia sbucciate; stava sanguinando. Indossava una camicia da notte, simile a quella omologata che davano in ospedale, con l'unica differenza che non fosse bianca, bensì scarlatta.
Si toccò forsennatamente tutto il corpo, andando alla ricerca di un taglio, di qualsiasi cosa che potesse spiegarle perché fosse cosparsa di sangue. Cominciò a respirare sempre più affannosamente mentre - un passo dopo l'altro - cercava una via d'uscita. Si sentì in trappola; ovunque lei si fermasse, ciò che la circondava non cambiava.
Tutto intorno a lei prese vita; le pareti, il pavimento e il soffitto cominciarono a girare su loro stessi. Per un attimo, si chiese se fosse lei a star girando in tondo. La confusione che avvertiva era causa del mal di testa che, martellante, le fece strizzare gli occhi. Si afferrò il volto tra le mani, pregando che tutto questo finisse il prima possibile.
Delle gomme stridettero sull'asfalto; il suono di una sirena quasi ne sovrastò il rumore. Sophia si inginocchiò e si rannicchiò su sé stessa, assumendo una posizione fetale. "Se rimango ferma, quando riaprirò gli occhi, tutto tornerà come prima" pensò fra sé e sé.
Nel frattempo, avvertì una fitta all'altezza della bocca dello stomaco; sentì il bisogno di vomitare, ma temeva di non averne la forza. Dopo qualche secondo, Sophia schiuse un occhio, rendendosi subito conto di avere commesso un errore.
Le pareti del labirinto, adesso, avevano cominciato ad avvicinarsi sempre di più, restringendosi sul suo corpo esile; a breve, l'avrebbero schiacciata. La ragazza si mise ad urlare; urlò con tutto il fiato che aveva in corpo.
Un grido irruppe bruscamente nel silenzio della notte. Dominik stava dormendo; o almeno ci stava provando. Con un occhio aperto e con uno chiuso, aveva deciso di ricaricarsi le pile prima di smontare. Erano rimasti in pochi, ormai; di tanto in tanto, si sentivano solo i passi degli inservienti riecheggiare tra i corridoi.
Il Dottor Reyes se n'era andato da un pezzo, così come del resto anche Ines. Dominik, in quanto novizio, ne aveva ancora di gavetta da fare. Un'ingiustizia, aveva pensato, mentre l'ospedale piano piano si andava svuotando.
Si svegliò di soprassalto, il cuore che gli finì dritto in gola; con gli occhi sbarrati, lo sentiva battere all'impazzata. Che cosa era stato? Si guardò intorno, drizzando le orecchie; niente, non sentiva più niente. Per un attimo, il pensiero di esserselo immaginato sembrò tranquillizzarlo.
Un altro grido gli fece accapponare la pelle; il sangue gli si gelò nelle vene. Con le mani sudate e il respiro affannato, si alzò dalla poltroncina sulla quale era comodamente seduto, precipitandosi alla ricerca della stanza in cui entrare.
Una donna stava piangendo, la sentiva dimenarsi nel letto; non ebbe più dubbi, si trattava di Sophia. Il rumore proveniva dalla camera 713.
«Sophia, ehi» si avvicinò, il suo tono di voce era basso, pacato. Le appoggiò - prima - entrambe le mani sulle spalle, provando a scuoterla leggermente. Dopodiché, le passò lentamente le dita fra i capelli; il suo corpo era scosso dai brividi, una patina di sudore le ricopriva la fronte. «Sophia, va tutto bene. È solo un incubo, sei al sicuro»
La ragazza si svegliò tutto d'un colpo, mettendosi seduta con uno scatto brusco. I suoi occhi erano intrisi di spavento e angustia.
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