CAPITOLO 82
Correre
Jennifer
Qualche ora prima...
Aspetto che il cielo si dipinga di rosso, attraverso la piccola finestrella a mezzaluna, per tentare la mia fuga. O forse il mio suicidio.
Dopo essermi assicurata che in corridoio non ci sia nessuno, appoggiando l'orecchio sulla superficie ruvida della porta, decido di partire dalla parte più difficile, sollevare il chiavistello.
Dopo aver smontato i ferretti del reggiseno ho passato non so quanto tempo a cercare di unirli per renderli più forti con solo una spallina sempre del reggiseno. Continuavano a fuggirmi o a uscire dalla presa, ma alla fine ci sono riuscita. Anche se dubito fortemente del suo utilizzo.
Con mani tremanti mi avvicino con la mia misera creazione e la infilo in mezzo alle due ante, e lo spazio è abbastanza largo da far passare i ferretti, ma non abbastanza da farmi vedere la posizione corretta del chiavistello. Perciò vado a tentoni, cercando nella mia memoria fotografica la posizione corretta della levetta.
Con i polpastrelli già dolenti che bruciano e mi pregano silenziosi di smetterla, di mollare questa insulsa idea. Di arrendermi.
Quando all'improvviso sento un rumore metallico. Eccolo. Aumento la presa e la spinta, ma qualcosa m'impedisce di sollevarla. Forse è più arrugginita e dura di quanto pensassi.
Un urlo di disperazione mi si blocca in gola, e rimane lì come qualcosa che non riesci ad ingerire. Dannazione! Forse si è bloccato. Proprio ora che volevo uscire. O forse la mia stupida creazione non è abbastanza forte per sollevarla. O io non sono abbastanza forte.
Riporto dentro la mia leva improvvisata e la lancio sulla brandina, se dovesse cadere dall'altra parte, sarebbe davvero la fine.
Effettivamente il dolore al costato è talmente forte, che fatico a tenere le spalle sollevate, figuriamoci imprimere della forza nelle mie braccia. Però devo farlo. Devo uscire di qui. O almeno provarci. Perché se andrà bene potrò dire a me stessa che ho fatto tutto questo per essere libera. Ma anche se non dovessi farcela, almeno ci ho provato, ho messo tutta me stessa e le mie forze, e ci ho provato. Stringo i pugni e i denti per poi guardare la porta, come se fosse lei il mio unico ostacolo, il mio unico nemico. Forse si è solo un po' bloccato il chiavistello, con tuttala ruggine e il freddo, forse ha solo bisogno di una spinta.
So che farà male, so che farà male, so che...
Con tutta la forza che ho mi butto contro alla porta con una spallata, dalla parte destra, mentre il mio corpo mi pregava di non farlo, di non sentire altro dolore.
Però appena sento un tintinnio metallico un sorriso mi spunta sul viso, mentre il mio corpo urla di dolore. Mi accascio a terra con la testa premuta contro la superficie di legno e le lacrime che senza ormai più controllo m'inumidiscono le guance.
È come se ogni minimo centimetro del mio corpo fosse sotto attacco dall'interno. I muscoli sono contratti e dolenti, la mia pelle tra un po' sarà più livida che bianca e le mie ossa stridono tra di loro quando a tentoni mi alzo.
Riprendo la piccola leva e mi rimetto in posizione, agganciando di nuovo la barra di ferro che questa volta quando faccio pressione, finalmente si solleva, provocando un rumore sordo nel silenzio assoluto del corridoio. Merda. Spero che nessuno abbia sentito. Devo muovermi.
Prendo la chiave che avevo nascosto ancora tra i capelli e la inserisco, e come qualche ora fa, all'inizio entra con fatica ma poi trova la sua sede.
Con lentezza giro la chiave in senso antiorario, attenta a fare il più piano possibile, mentre trattengo un urlo di gioia.
Giro un'altra volta, fino a quando, finalmente sento scattare completamente la serratura.
Con una lentezza assoluta abbasso la maniglia, per poi aprire la porta di uno spiraglio. Fortunatamente non cigola e una volta guardata intorno, la spalanco il giusto per attraversarla, accertandomi che nessuno sia nei dintorni.
Come al solito il corridoio e buio e una puzza di stantio e marcio aleggia nell'aria.
Aspetto qualche attimo, calmando il mio respiro, ma non sento nessun passo, nessuna voce, nessun rumore, perciò prendo coraggio.
Chiudo la porta alle mie sia con la chiave che con il chiavistello. Probabilmente non servirà a nulla, ma forse mi darà qualche minuto o secondo in più per scappare.
In punta di piedi percorro il corridoio dove solo una tenuissima luce mi riesce a far vedere almeno i muri, perché il pavimento mi sembra solo una massa oscura, e infatti i miei piedi vanno contro delle macerie, che spero nessuno mi abbia sentito.
Dopo diversi passi a tentoni raggiungo il portone dove la luce spunta da sotto, salutandomi e invitandomi ad attraversarla.
Mi avvicino alla porta esitante, perché so benissimo che dall'altro lato dovrò arrangiarmi, affidandomi alla fortuna, visto che non conosco la strada.
A mio rischio e pericolo, ma è per la mia libertà.
Con lentezza, afferro la maniglia e scopro con sollievo che non è chiusa a chiave. Stolti.
Apro lentamente la porta in modo da prevenire cigoli o rumori insoliti, il giusto per poter passare anche da questa porta.
Dall'altra parte la luce del tramonto mi acceca per un'istante, dopo tutto il tempo passato al buio.
Però la luce calda che entra da una finestra dell'atrio, mi accoglie gentile, come una dolce carezza che m'invita a continuare, a salvarmi.
Mi poso una mano sugli occhi, in modo da poterli aprire e abituarmi al chiarore, che nel mentre si posa sulla mia pelle, baciandomi con i suoi raggi.
Ancora con gli occhi socchiusi mi affaccio sulla finestra, scoprendo al di sotto un pavimento in pietra, saranno almeno tre metri di altezza. Devo continuare per la strada.
Continuo a camminare, mentre m'immagino i tre uomini che spuntano da dietro l'angolo divertiti, e mi saltano addosso, fermando la mia insulsa fuga.
Ma invece, appena svolto l'angolo e mi affaccio, sospiro nel vedere un altro lungo corridoio e delle scale in pietra sulla sinistra. Probabilmente è quella che ho percorso sulle spalle di quell'uomo quando sono arrivata qui.
Mi affaccio all'entrata delle scale, dove un'aria fredda che proviene dal piano di sotto, mi fa irrigidire e tremare per qualche istante, mentre l'odore di umidità e muffa sembra invadere sempre di più le mie narici.
Con passo lento, scendo scalino dopo scalino, e rizzo le orecchie, cercando di captare qualsiasi rumore, che fortunatamente non arriva, fino alla fine dei gradini, dove trovo l'ennesima porta che mi sbarra la strada, che però sembra appoggiata contro lo stipite e non con chiusa con la serratura. Probabilmente è rotta.
Con mani tremanti la spingo lentamente e mi affaccio, scoprendo un'enorme stanza, anch'essa quasi buia, perché ci sono anche qui delle travi di legno inchiodate davanti alle due finestre.
Ma l'illuminazione mi permette di vedere diversi mobili coperti da lenzuoli bianchi, ormai diventati grigi e pieni di polvere, ragnatele che riempiono le pareti e le lampade spente e i pavimenti cosparsi di sporcizia e cocci abbandonati sulla superficie scura.
Un vociare indistinto arriva dall'altra parte della stanza dove riesco a vedere un altro corridoio, l'unica via percorribile.
Percorro la stanza attenta a non colpire nulla con i piedi e una volta arrivata alla uscita mi stendo sulla parete e mi affaccio.
È un altro corridoio mal illuminato, dove riesco a vedere una porta socchiusa da cui esce una luce bluastra che si riversa nel pavimento.
Mi avvicino a punta di piedi, accostandomi lungo la parete, mentre le voci diventano più nitide.
«...sta per arrivare, e poi ci trasferiamo verso il lago» dice la voce di un uomo, che riconosco come quello che fumava quella notte. Quello che mi ha detto quelle cose orrende.
«Finalmente, sono stanco di stare in questo buco di merda e sono stanco di dormire vicino ai topi» risponde l'altro, che riconosco come quello che mi ha buttato a terra. Dov'è il terzo? L'unico che finora ha interagito con me. Ma soprattutto chi è che sta per arrivare? Forse il creatore di questo rapimento?
Oltre alla porta, alla fine del corridoio noto una stanza dove una luce solare illumina il pavimento. Eccola la mia uscita, sono sicura che sia lì.
Con passi felpati inizio a percorrere il pavimento, con il suono di una partita di football in sottofondo, e il vociare dei due uomini, che continuano a lamentarsi, senza però darmi informazioni in più.
Supero la porta senza soffermarmi e poi mi fermo per qualche istante, nella paura di sentirli avvicinarsi, ma non succede, perciò continuo per la mia strada.
Mi avvicino allo stipite all'entrata nella stanza e lentamente mi affaccio, per poi ritirare subito la testa quando vedo un uomo sdraiato sul divano. Ecco dov'era.
Trattengo il respiro e torno a guardare, concentrandomi sui particolari che non avevo visto. Ha gli occhi chiusi, ma sono certa che non si sarà addormentato da tanto.
Senza passamontagna noto il suo viso giovane, i suoi capelli neri, e poi i miei occhi cadono sulle sue braccia tatuate.
Sposto lo sguardo sulla stanza, con delle pareti vecchie e rovinate, priva di mobili a parte un divano e un tavolino, completamente pieni di polvere e rovinati.
Ma poi eccola lì, la mia via di fuga. In fondo c'è una porta con un parte vetrata, che mi permette di vedere che fuori, c'è solo una distesa di alberi.
Quella è la mia libertà e la devo raggiungere ad ogni costo.
Mi tolgo le scarpe, sarebbe troppo pericoloso rischiare di far casino. Mi inginocchio con attenzione, per non far rumore, e poi inizio a strisciare sul pavimento, raggiungendo il dietro del divano.
Mi fermo e mi concentro sul respiro profondo dell'uomo, che non sembra essersi accorto di nulla e anche sul vociare ormai lontano degli altri due uomini.
Finalmente mi concedo di respirare anch'io, molto lentamente, senza produrre alcun rumore, ma consentendo all'ossigeno di riempire i miei polmoni che bruciano.
Striscio ancora sul freddo pavimento accorgendomi che manca soltanto qualche metro per raggiungere la porta. Qualche metro per la mia libertà.
Ma quando il divano finisce, mi sento meno protetta.
Esitante continuo, nessuno mi vieterà di provarci.
Davanti alla porta mi alzo in piedi, e impreco dentro di me, quando una piastrella balla sotto ai miei piedi, provocando rumore.
Mi volto verso il divano, ma l'uomo continua a dormire, ignaro di tutto. Ignaro della mia fuga.
Con mano tremante abbasso la maniglia, già mi sembra di sentire l'aria che mi scompiglia i capelli e l'erba sotto ai piedi.
Però l'immagine si spezza quando mi accorgo che la porta è chiusa, e che la chiave non è nella toppa.
Stringo i denti e cerco di non farmi prendere dal panico.
Mi guardo intorno, in cerca di una chiave appesa sul muro o appoggiata da qualche parte, quando ecco che la vedo.
Sembra brillare come una stella, come se mi chiamasse.
E tutto sarebbe fantastico, se non fosse sul tavolino, davanti all'uomo che dorme.
Ho due possibilità o prendo quella maledetta chiave, rischiando tutto o ritorno nella mia stanza, in balia dei miei rapitori.
Ma non voglio nemmeno pensare a una cosa del genere.
A punta di piedi raggiungo il divano, quando l'uomo all'improvviso si gira sul fianco, pronunciando qualche parola incomprensibile, per poi tornare a russare, come se nulla fosse.
Con il cuore in gola, cerco di non farmi prendere dal panico e mi allungo verso il tavolino, afferrando la chiave con mano tremante, che stride leggermente sul legno, prima che riesca a sollevarla.
La stringo in un pugno e con altrettanta calma torno alla porta. Infilo la chiave nella serratura, che faccio scattare per due volte in dei rumori così sordi da farmi sussultare.
Guardo un'ultima volta l'uomo e poi tiro la porta verso di me. Proprio mentre il sole mi scalda il viso, dopo quasi tre giorni di assenza, la chiave della mia prigione, che avevo messo nella tasca dei pantaloni, scivola dal tessuto provocando un rumore sordo, nella stanza vuota.
Tutto accade in pochi attimi, l'uomo si alza dal divano, ancora addormentato e il suo sguardo intercetta il mio. E in pochi attimi si alza in piedi, pronto a raggiungermi.
Ma prima che possa urlare, i miei piedi si stanno già muovendo verso il fitto bosco.
Anche senza le scarpe non mi fermo e corro sulle foglie e sugli aghi caduti, ignorando i dolori alle piante dei piedi.
Non sento l'uomo, ma sono sicura che è dietro di me e che presto mi raggiungerà, insieme agli altri due.
Trattengo la curiosità di girarmi, e continuo a correre con respiro ansimante, i polmoni che bruciano e il cuore che frenetico mi batte nel petto. Mi perdo tra gli alberi, schiacciando foglie, rami e aghi di pino. Cerco di prendere vie diverse andando in diagonale, per perdere le mie tracce, mentre il cielo si sta scurendo sempre di più, abbandonando al cielo scuro. Forse non è stata una grande idea uscire a quest'ora, morirò di freddo e probabilmente mangiata da un orso, ma almeno non sono più rinchiusa.
Non so da quanto corro, forse da trenta minuti o forse di più.
Il dolore mi sta facendo rallentare e anche il freddo, che ormai mi è entrato nei polmoni, affaticandomi il respiro.
Anche i muscoli sembrano congelarsi e irrigidirsi, ritardando i miei passi.
Poi eccola lì...una strada. Fatico a vederla oltre alla fitta vegetazione, ma quello è proprio asfalto. Sbatto qualche volta gli occhi, prima di rendermi conto che è vero, e non un miraggio. Eppure mi fermo, se ora vado in strada mi metterei in evidenza, e subito mi troverebbero. Ma se resto in questa parte di bosco, presto qualcuno mi raggiungerà.
Avvisto altri alberi, dall'altra parte della strada, ma qualcosa attira di più la mia attenzione.
È un sentiero tracciato, che di sicuro porterà da qualche parte. Lo vedo dai cartelli in legno, e da dei segni rossi sulla corteccia degli alberi.
In pochi minuti raggiungo il limitare della carreggiata, prendo un bel respiro e mi guardo intorno, assicurandomi che non ci sia nessuno, per poi iniziare a correre.
Vedo il sentiero, è solo a pochi metri di me, riesco già a immaginare di tornare a casa, ad abbracciare Matt, a cadere fra le sue braccia calde.
Ma prima che possa arrivare all'altra sponda della strada, sento il rumore di un motore non molto lontano, e poi uno stridio di freni proprio di fianco a me. Fai che non sia un furgone...Fa che non sia un furgone...ripeto tra me e me, ma quando mi volto, vedo qualcosa di molto peggio.
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