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CAPITOLO 78

Il bagno

Jennifer

«Vieni», mi incita l'uomo davanti a me e io mi stringo di più intorno alla coperta, che mi hanno concesso. Dopo avermi obbligato a mangiare il panino che avevo buttato per terra, con una pistola puntata alla tempia. Non ci servi morta. Eppure se Matt non farà come vorranno, se non gli darà quella somma spropositata, mi uccideranno. E io sarò solo in cadavere, senza nessuno a seppellirmi. Senza che nessuno della mia famiglia possa ritrovarmi.

Ma poi hi scoperto un'altra cosa, in teoria dovrei essere in Canada. A Toronto per la precisione come diceva il foglio di giornale che avevo tra le mani stamattina. Ma è tutta una bugia.

A parte il fatto che anche con le mie scarse doti geografiche, so che per arrivare in quella città, da New York sono circa una decina di ore. E anche se ho perso i sensi, so che quando mi sono ritrovata in questa stanza era ancora notte. E poi un'altra cosa molto strana e che il foglio dietro era vuoto, c'era solo la pagina frontale. Ma perché vogliono far credere che io sia così lontana? Per limitare i sospetti?

«Non costringermi a portarti con la forza» borbotta, notando la mia indecisione.

Sospirando profondamente, mi alzo con gambe tremanti stringendomi le braccia intorno al petto, in una rara speranza di proteggermi.

Apre la porta, incitandomi ad uscire, cosa che non so se mi renda felice o impaurita. Perché in queste quattro mura in qualche modo mi sento "sicura" mentre ora, ho paura di cosa potrebbero farmi. Osservo un lungo corridoio davanti a me, senza finestre, ma con qualche porta sui lati paralleli. E alla fine di questo ci sono due vie che si separano. Questo posto è più grande di quanto pensassi.

«Vai avanti» ordina dietro di me. Mi volto e per un attimo riesco a vedere la mia porta dal fuori, prima che lui mi spinga verso la fine del corridoio.

Il suo aspetto è come quella dentro, rovinato e vecchio, ma oltre alla serratura da dove aprono la porta, c'è anche una specie di chiavistello arrugginito. Sembra quasi quello di una persiana, dove devi sollevare il pezzo di ferro, incastrato nella base.

Merda. Non solo una serratura vecchia, anche un fottuto chiavistello.

Con passo lento avanzo, con lui dietro di me, come un'ombra pronta ad uccidermi in qualsiasi momento.

Senza farmi vedere, mi guardo attentamente intorno sebbene l'assenza di luce, tranne per la pila che l'uomo ha acceso dietro di me per curare ogni mia mossa.

Cercando di cogliere ogni particolare che mi capita davanti, come alcune pareti completamente sgretolate dalla vernice, oppure il pavimento in cotto antico, anche lui scalfito e impolverato.

È un casale o una casa abbandonata da molto tempo.

Assomiglia molto come una casa di campagna, in quel vecchio stile. Non si vedono più case del genere, però assomiglia molto alla casa che aveva mia nonna in Ohio, molto lontano dalla città. Gigantesca e immersa nel verde.

Arrivati al bivio, una leggera luce proveniente da sinistra attira la mia attenzione. È luce naturale, è il sole, che intimidito sbuca da sotto una porta, illuminando il pavimento. Per dirmi che lui è lì.

Come una gigantesca freccia che mi indica che l'uscita è da quella parte. Devo solo fare dieci passi.

Ma l'uomo mi spinge ancora dalla parte opposta, ringhiandomi un avvertimento. La prossima volta non sarà così gentile.

Poi gira a destra e poi a sinistra, infine mi appoggia contro una porta, sbarrandomi la strada e aprendola alle mie spalle.

Sussulto e stringo i pugni, preparandomi al peggio, ma appena mi volto noto che un bagno con l'essenziale, una doccia, un lavandino e un water.

Anche qui la finestra è stata sbarrata, tranne per uno spiffero in alto, che fornisce abbastanza luce per illuminare la stanza.
Ritorno a guardare l'uomo, in cerca di risposte alle centinaia di domande che mi affliggono.

Lui mi spinge dentro e mi passa una chiave. L'afferro con mani tremanti, attenta a non toccare le sue mani. Per poi fissare la strana forma della chiave.

Non è la solita chiave in metallo che uso tutti i giorni. No è marrone a causa della ruggine, è molto più lunga e la scanalatura e solo una e molto piccola.

«Chiuditi dentro, fatti una doccia e quando finisci bussa sulla porta, non aprire se non senti la mia voce, ti do dieci minuti, sbrigati» lo guardo sbigottita e indietreggio.

«Hai capito?» chiede, fissando i suoi occhi nei miei. Sono di un azzurro, così chiaro, che sembra ghiaccio.

Sussulto e annuisco molto confusa, ma prima che possa chiedergli il perché, chiude la porta, e io non ci penso due volte a mettere la chiave nella toppa e a girarla.

Tiro un sospiro di sollievo e guardo la doccia. Quanto ho desiderato una doccia calda.

Eppure non riesco a smettere di chiedermi: perché mi ha detto di chiudermi dentro? Mi meraviglio della sua "bontà", se è così che si può chiamare.

Questo vuol dire che lui non mi farà del male? Che i suoi compagni potrebbero farlo?
Al ricordo della minaccia del fumatore, alla notte del rapimento, il mio corpo ha un uno spasmo e faccio in tempo a chinarmi sul gabinetto, per svuotare il mio stomaco. Cazzo.

Avevo resistito all'istinto così tante volte in quella camera. Ed è così stupido il motivo. Non volevo farmi vedere più debole, più fragile di quello che già sono. Perché così vorrebbe dire che loro mi hanno schiacciato, e non è così.

Vado verso la doccia aprendo l'acqua, che inizia a scrosciare dal doccino cadendo pesante sul piatto in ceramica.

E se mi stessero spiando? Mi guardo intorno, in cerca di qualche telecamera o buco nel muro, osservando tutte le pareti. Ma non trovando nulla di strano, faccio un sospiro profondo, sotterrando il panico sotto ad una maschera.

Mi tolgo i vestiti stracciati e noto con piacere che sul lavandino sono appoggiati una maglia e dei pantaloni puliti.

Stringo i pugni e mi obbligo a guardarmi il corpo.

Oltre il livido sull'addome e quello ancora più scuro sul costato, noto che il lato esterno della mia coscia e del fianco sono violacei tendenti al giallo, per quando mi hanno buttato nel furgone come se fossi un sacco della spazzatura. Infine le mie ginocchia, le mie braccia e le mie mani sono ricoperte di graffi, sangue rappreso e terra.

Entro sotto al getto caldo con gambe tremanti e mi faccio cullare dall'acqua che gentile come una carezza, toglie dal mio corpo il fango, le lacrime che ho versato e pulisce le mie ferite.

Automaticamente non posso non pensare alle mani di Matthew, quando abbiamo fatto la doccia insieme in quella baita.

Le sue mani calde mi avevano accarezzato il corpo, le sue labbra mi avevano lasciato baci sulle labbra, sul collo, e il suo corpo aveva stretto il mio.

Il solo pensiero di lui, mi fa sorridere e scaldare il cuore, anche se per solo qualche secondo.

Matt...se gli avessi raccontato subito di quel bacio, forse ora saremo insieme ad Atlanta lontano da tutta questa merda.

Forse la notte passata, l'avrei trascorsa fra le sue braccia e forse ora non sarei qui, in trappola. Dovevo dirglielo.

***

Busso alla porta, stringendomi nei vestiti puliti e morbidi, aspettando la risposta dell'uomo, che arriva dopo qualche minuto.

«Sei pronta?». È lui.

«Sì», sussurro per poi girare la chiave nella serratura con esitazione. Non posso restare qui.

Apro la porta e mi trovo lui davanti a me, come al solito, con la tuta grigia e un passamontagna sul viso. Mi punta la pila contro e mi osserva per un'istante, per poi indicarmi di andare davanti a lui.

«La chiave?» domanda e io tremante allungo la mano, per lasciargliela sul palmo aperto.

«Bene ora vai» mormora e io cammino, giro a sinistra poi a destra, fino ad arrivare al corridoio illuminato dalla leggera luce solare. Che illumina qualcosa che prima non avevo notato colta dalla sorpresa.

Le porte, sono tutte uguali. Tutte uguali. Le serrature tutte uguali.

E poi noto un'altra cosa. Una chiave dentro la toppa di una della porta. E dal manico, sembra uguale a quella del bagno, e molto probabilmente a quella che apre la mia. 

Mentre nella mia mente si attivano gli ingranaggi per pianificare la mia fuga,  l'uomo mi apre la porta della stanza, ingnaro dei miei pensieri.

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