CAPITOLO 24
Confidenze
Jennifer
Ha organizzato tutto, ogni minimo particolare, cosa che mi sconvolge a dir poco.
Ha fatto preparare un tavolo, che da un ottima visione su Times Square, dove video, pubblicità e auguri per l'anno nuovo, riempiono gli schermi sui palazzi. La musica continua a riempire l'aria, mentre l'orologio posto vicino alla palla, indicano che manca qualche minuto alle undici.
La cena è stata a dir poco silenziosa, la tensione si tagliava con un coltello. Ma ora dopo aver mangiato della pasta e della carne e un dolce l'aria sembra essersi alleggerita. O forse è il vino dolce e frizzante che mi scorre nelle vene.
«Posso farti una domanda?» chiede, appoggiandosi completamente contro allo schienale della sedia, incrociando le mani davanti all'addome. Lo copio, appoggiandomi completamente, portandomi con me il calice. Menomale che dovevo smettere. Ma per poter stare qui con Matt, ad affrontare i suoi occhi, ho bisogno per lo minimo di questo.
«Dai forza Dallas, fai del tuo peggio», mormoro insolente facendolo ridere. Sì forse dovrei bere un po' d'acqua.
«Da dove viene la tua paura per le altezze?» chiede facendomi sussultare per la domanda. Nessuno mi ha mai fatto questa domanda, non che abbia mai dato motivo per farla. Tess sa solo che odio prendere arei, per questo quando si solito facciamo qualche viaggio andiamo in treno o in barca.
Mentre Aiden non mi ha mai chiesto nulla, come se non se ne fosse nemmeno mai accorto.
Invece eccolo qui, "mio marito", che si è accorto della mia fobia solo per un sussulto, che ho fatto quella sera nel suo ufficio. Come ha fatto ad accorgersene? Possibile che mi stesse osservando così attentamente? E possibile che la prima volta che rimetto il piede su un macchinario volante, dopo anni e anni di assoluto diniego, e con Matthew? Ancora mi chiedo come ho fatto a salirci o come ha fatto a convincermi.
«È una storia lunga...», mento sperando di disilluderlo dall'investigare oltre. Ma lui in risposta mi indica l'orologio alle sue spalle «in realtà, abbiamo ancora tempo», mi avvisa facendomi l'occhiolino. Non ha torto dopotutto.
Prendo altro vino, e lascio che mi scenda lungo la gola pizzicandola.
«Eh va bene, se proprio insisti», mormoro e immediatamente si sistema meglio sulla sedia, chinandosi verso di me, come per prepararsi ad ascoltarmi attentamente.
«Avevo dieci anni, ero su un aereo con mio padre, solo io e lui. Per andare in Ohio da mia nonna, ed io ero così eccitata di prendere un aereo, era la prima volta», mormoro ricordandomi di quanto ero eccitata e felice per quel viaggio. Ero così felice che non avevo chiuso occhio per tutta la notte.
«Per la prima ora era andato tutto bene, avevo guardato fuori dal finestrino per tutto il tempo, ero felice di essere tra le nuvole e di guardare tutto dall'alto», deglutisco, pronta a raccontare quell'episodio che mi ha segnato così tanto nel tempo.
«Poi all'improvviso uno dei motori iniziò a prendere fuoco, più avanti dissero che si trattava di un uccello che era entrato per sbaglio, una rarità», borbotto, per poi spostarmi i capelli dal viso, incastrandoli dietro le orecchie.
«Ricordo che la gente ha iniziato ad urlare, che il capitano ci chiedeva di restare calmi, che l'aereo iniziava a ondeggiare nel vuoto...mio padre che mi teneva stretta, che mi metteva la maschera dell'ossigeno dicendomi che tutto si sarebbe andato bene, mentre io non riuscivo a staccare gli occhi dal quel motore ricoperte di fiamme, e dal terreno che sembrava avvicinarsi sempre di più».
Nella mia mente si ripete tutto, la paura che mi attanagliava, come una stretta alla gola, che mi impediva di respirare. Il sudore che mi imperlava la fronte e i capelli, la preoccupazioni nello sguardo di mio padre, le turbolenze, le urla. C'era una tale confusione e mi ricordo che volevo urlare, che volevo piangere, ma ero talmente pietrificata che non riuscivo a fare altro.
«E poi?» mi chiede, e noto che il suo tono è cambiato, sembra più dolce e gentile. Allunga la mano sul tavolo, con il palmo rivolto verso l'alto, in una richiesta silenziosa. Esito, e osservo la sua pelle marmorea. Si è slacciato i polsini e si è arrotolato leggermente la camicia bianca, mettendo in risalto i suoi muscoli in tensione, e le sue vene bluastre in rilievo.
Cedo e congiungo la mia mano con la sua, che prende in una stretta dolce.
«Abbiamo fatto un atterraggio di emergenza a Pittsburgh, fortunatamente nessun morto e solo qualche ferito, ma da quel giorno non sono più riuscita a prendere un aereo...o dovrei dire fino ad oggi», mormoro sarcastica, ma la sua faccia diventa un blocco di cemento. E ora cosa ho fatto?
La sua mano mi stringe di più e le sue dita si intrecciano alle mie, mentre il suo sospiro profondo mi rimbomba nelle orecchie.
«Ti devo chiedere scusa, io non sapevo che fosse così grave questa fobia. Perdonami Jennifer, se avessi saputo non avrei mai organizzato una cosa del genere».
Le sue scuse sono come un bagno caldo e profumato, che mi avvolge dolcemente con la sua schiuma. Non me le aspettavo, eppure le accetto. Effettivamente non è andata così male come avevo immaginato. Infondo un attacco di panico l'avevo messo in programma.
«Non lo sapevi, perciò non devi chiedermi scusa», mormoro, ricambiando la sua stretta.
«E poi, dopo tutto quello che hai organizzato», mormoro indicando tutto quello che abbiamo intorno, «credo che tu ti sia fatto perdonare abbastanza».
Finalmente torna a sorridere, provocando anche il mio, «dimmi solo una cosa...dimmi che non dobbiamo riprendere quell'elicottero di nuovo questa sera» gli chiedo con un leggero terrore nella voce. Si c'è l'ho fatta, ma non potrei farlo di nuovo, non in un tempo così ristretto.
Un ghigno gli allunga le labbra mentre indica la camera alle nostre spalle.
«Abbiamo una stanza, anche perché scordati di riuscire a prendere l'auto, la piazza sarà bloccata per tutta la notte» commenta sardonico.
«Quindi la tua tattica era di portarmi in una camera di hotel, senza lasciarmi via di scampo?» domando con l'ilarità, godendomi la sua espressione divertita. Non so perché, ma trovo queste interazioni tra di noi così naturali, che quasi sempre dimentico che tutto tra di noi è pura funzione.
«Esattamente signora Dallas». Lui si alza dalla sedia, senza staccare il contatto con la mia mano, mentre il lontananza risuona il pianoforte, con un motivo che riconosco all'istante.
«Vuoi ballare con me Jenny?» mi chiede davanti a me, con uno sguardo che conosco e al quale non so dire di no. Peggio del gatto con gli stivali di Shrek.
La voce di Elton Jhon riempie le casse del palco, facendo gridare molte persone che stanno ascoltando. Allungo lo sguardo verso il parapetto in vetro, per poi rimanere stupita. Eccolo lì. Seduto sul suo pianoforte, mentre la sua voce canta la sua canzone più iconica, Your Song.
«Wow», commento, incapace di distogliere lo sguardo. I capelli rossicci, gli occhi coperti da degli stravaganti occhiali azzurri, come il vestito che indossa, che è pieno di brillanti. Che come dei piccoli prisma riflettono la luce sul palco. Ma appena il mio sguardo si sposta su Matt, la sua domanda torna incessante nella mia mente.
«Davvero vuoi ballare con me questa canzone? È molto romantica, non vorrai...» mormoro cercando di prenderlo in giro. Ma prima che possa continuare, in risposta lui mi attira a sé, facendomi schiantare contro al suo petto. La sua giacca salta via dalle mie spalle, finendo ai nostri piedi, ma mi rendo conto di non avere freddo, anzi, il calore che esce dalle torrette e piacevole sulla mia pelle.
«Devi sempre obbiettare, non è vero?», mormora lui al mio orecchio, mentre il suo braccio come prima mi circonda il busto, incatenandomi a lui.
«Come se non ti piacesse discutere con me», farfuglio. Sì forse ho bevuto troppo.
Il suo sguardo passa da sorpreso ad enigmatico, prima di allontanarmi per farmi volteggiare, per poi attirarmi di nuovo a sé. Vado a schiantarmi contro al suo petto con la schiena, e l'impatto mi fa mancare il respiro per qualche attimo.
«Stai forse flirtando con me signora Dallas?» mi sussurra all'orecchio, infilando il naso tra i miei capelli. Migliaia di brividi che partono dalla testa, si prolungano in ogni mia terminazione nervosa, braccia, dita, gambe. Così tanto, che mi chiedo com'è possibile che sono ancora in piedi.
Il suo corpo continua a muoversi contro il mio, e automaticamente lo seguo, in questo gioco di attrazione e insisto, dove ogni gesto sembra predestinato, ogni respiro sincronizzato, come se fossimo parte di un unico flusso inarrestabile, trascinati da una forza che non possiamo e né vogliamo controllare.
«Forse...», mormoro, mentre la testa mi gira, insieme al mio corpo, mentre lui mi riacciuffa, questa volta faccia a faccia.
«Stai giocando con il fuoco...» mormora dolcemente, mentre i suoi occhi mi scrutano attentamente, passando dal mio sguardo, alla mia bocca fino al mio decolté, che in questo momento si alza e abbassa freneticamente.
« "Il grande vantaggio del giocare col fuoco è che non ci si scotta mai. Sono solo coloro che non sanno giocarci che si bruciano del tutto"», sussurro citando parola per parola a memoria.
Com'è possibile che ricordo questa frase, e non ricordo a me stessa e al mio corpo, che dovrei stare lontana da Matthew Dallas, più lontana possibile.
«Oscar Wilde? Davvero Jenny?» commenta divertito, mentre nuove canzoni vanno avanti, ed io e lui non smettiamo di ballare. Sembra quasi una cosa che facciamo ogni giorno, come se i nostri corpi si conoscessero da tempo.
«Perché no?» sussurro a fior di labbra. Lui ridacchia e il suo timbro sembra entrarmi nel petto, rimbombando in ogni parete.
«Da moglie sboccata, a moglie poetica...continui a sorprendermi», risponde con un certo divertimento.
Entrambi scoppiamo a ridere e i nostri nasi si scontrano ancora, in una dolce carezza.
«Qual è il tuo pronostico per l'anno che sta arrivando?» gli chiedo curiosa, e le mie mani senza che riesca a controllarle salgono verso il suo collo, accarezzandogli l'attaccatura dei capelli.
Lui non mi allontana, e solleva la testa, come per darmi accesso ai suoi morbidi capelli, cosa che non mi faccio ripetere. Quante volte ho immaginato di passarci le dita. E sono davvero come li immaginavo.
«Sarà un vero incubo, sai dovrò convivere con vera una rompiscatole, che mi ruba i cereali, con una vocabolario di parole, che è a dir poco volgare, che parla in continuazione durante i film...» fa per continuare, ma si ferma appena gli lascio un pugno sul petto. «Che gentile», bofonchio.
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