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8. Realtà Nascosta

"È inutile che fai finta di essere così perfettamente candido verso il mondo, quando ti prendi tutto quello che vuoi come se ti fosse dovuto."

Due di Due - Andrea de Carlo

E come pensi che possa risponderti, Signorina Morgan? Vuoi sapere troppo e non sei ancora pronta. Ti stai soltanto appprossimando all'idea, non sei ancora del tutto allineata.

Non guardarmi così...

«Allora, ti piace quello che vedi?» La mia perfidia tira troppo la corda, e l'ambiguità è la regina indiscussa di ogni mio gioco interpersonale. Mi vorrebbero più severo, schivo e distaccato... già!

Shelly, gli occhi grigio liquido, si concentra sulla mia bocca, mordendosi il labbro inferiore come se volesse assaggiarla. «Non capisco quello che vedo» risponde voltandosi verso la finestra, dove quello che ho deciso di mostrarle esplode di magia. «Sono sicura di aver vagato là fuori, sola, e non aver notato quelle luci. C'era troppa nebbia...»

«Vedi la nebbia ora?»

«No, ma...» prova a dire prima che io spezzi il filo dei suoi pensieri.

«Bene!» dico stringendo leggermente le braccia per toccarla. Accosto le labbra al suo orecchio e ripeto: «Smettila di raccontarmi la tua avventura, Shelly... ti ho chiesto se tutto questo ti piace, se quello su cui sono posati i tuoi occhi in questo momento è di tuo gradimento, oppure no.» Le sono così vicino che posso percepire distintamente ogni vibrazione nervosa del suo corpo, e quando mi guarda di nuovo le sue pupille sono due pozze scure completamente dilatate che quasi annientano il grigio dell'iride.

«Sì... sì mi piace» dice infine ricominciando a respirare. «Però, un particolare ancora mi sfugge» aggiunge seria.

Attenta, piccola...

«Quale?» decido di assecondarla mascherando la consapevolezza dietro un'espressione di finta meraviglia.

«Che ruolo hai, tu, in tutto questo?» mormora fissandomi intensamente. «E qual'è il mio?»

D'accordo, ero convinto che fosse più semplice, che bastasse ammaliarla con qualche trucchetto per deviare la sua attenzione dalla realtà, ma Shelly Morgan è un segugio con un pedigree lungo almeno un miglio terrestre.

Con il fianco urta il mio braccio, e io la libero, si porta le mani sulla testa, la maglietta nera si solleva sulla schiena nuda, e prende a passeggiare nella stanza. «Ho preso in considerazione tutto...tutto, ogni ipotesi possibile, dall'amnesia al coma... da un progetto segreto del governo a uno scherzo di cattivo gusto ad opera di Cliff».

Cliff? Ah, giusto... il suo capo: Clifford Withe.

Si ferma e implora il mio aiuto con una smorfia di pura frustrazione. I capelli biondi sono spettinati e formano delle onde sublimi che le arrivano fino alla vita stretta. L'uomo che è in me non può fare a meno di apprezzare i suoi fianchi voluttuosi e immaginare le sensazioni incredibili che scatenerebbero sotto le mie dita nell'atto di stringerli.

«Metcalf!» strepita pretendendo la sua risposta, irriverente come una scolaretta e bella come una ninfa.

«Shelly.» Infilo le mani in tasca e sollevo le spalle. «Non so che dirti, a parte che nessuna delle tue ipotesi è corretta.» Ed è la sacrosanta verità, io non posso dirle nulla, deve ragionare con le sue forze e trovare una via d'uscita senza il mio aiuto.

Mi guarda allibita. «Quella donna, l'infermiera, ha detto che sei stato tu a trovarmi dopo l'incidente, sempre tu a portarmi alla clinica, da lei.»

«Marta ha detto il vero, sono stato io. Sono sempre io, è il mio compito.»

«Sei un barelliere?» domanda ironica.

«No, non lo sono Shelly.» Sto per sorridere. Barelliere. E' la prima volta che qualcuno ipotizza un lavoro simile per me. Infrangendo le regole, le vado vicino, il contatto con lei sta creando dipendenza. «Devi cercare di ragionare...»

«Ragionare?» tuona muovendo un passo indietro. «Ragionare?» ripete con lo stesso tono. «Vaffanculo, tu e i ragionamenti!» Però! Questa non me l'aspettavo. «In che cazzo di posto siamo? Dove sono le mie borse? Dove cazzo è il mio dannatissimo telefono?»

Quanto è doloroso vederla in questo stato...

«Perché non ti siedi e parliamo» propongo con una manovra di conforto, indicandole il divano sul quale l'avevo deposta meno di un'ora prima.

«Voglio tornare a New York, Metcalfe, e voglio tornarci subito!» insiste bocciando la mia proposta. «Non puoi trattenermi contro la mia volontà in questo buco di merda!»

Mi domando se era davvero felice laggiù dove viveva, a New York, e quanto fosse omogenea la sua felicità, se per caso avesse una o più falle. So tutto di lei, informazioni da Sceriffo, ma nulla riguardo i suoi sentimenti. E' come tenere tra le mani un carillon aperto, con la ballerina in madreperla rosa ferma al centro, e non poterlo caricare per ascoltarne la melodia.

«Hai ragione, non posso» le dico calmo. «Sei libera di andartene se lo desideri» chiarisco con l'ennesima, ridicola omissione dell'altra parte di verità che non posso rivelarle.

«Perfetto, allora me ne sto andando» annuncia guardandosi intorno alla ricerca di una porta che non può trovare qui dentro. Rotea su sé stessa, una, due, tre, quattro volte prima di realizzare che quello che le serve non c'è. Và all'angolo vicino al camino e incomincia a tastare le assi verticali della parete, e continua a farlo lungo tutto il perimetro della stanza. Alla fine è stremata, le sue braccia si afflosciano lungo i fianchi e i suoi occhi si riempiono di lacrime.

«Ti prego, non piangere.»

«Ah, io non piango mai, si vede che non mi conosci» ringhia, l'espressione fiera e spavalda di Achille dinanzi a Licomede.

Allungo una mano per prendere la sua ma lei si scansa e torna in fretta alla finestra. Troppo in fretta, perché quando guarda giù non ho ancora fatto in tempo a modificare il panorama, non posso sapere cosa vedrà.

«Shelly, aspetta...» Ma è tardi, lei si porta una mano alla bocca e l'altra al ventre, le sue gambe tremano e, nonostante le reazioni del suo corpo, non smette di guardare giù.

«Oh, mio dio!» esclama trasalendo. «Che diavolo...».

Ne ho abbastanza e, prima che lei abbia il tempo di registrarlo, mi fiondo alle sue spalle e la stringo tra le mie braccia. Shelly trattiene a stento un grido, i suoi occhi si muovono frenetici da una parte all'altra, orribilmente appiccicati alle immagini che vede. Sfacelo, morte, sangue e volti mostruosi, ecco quello che vede, non può essere altrimenti. Aumento la stretta attorno al suo corpo spaventato e mi concentro al massimo, mettendole la mano sugli occhi aperti.

«Mi dispiace» dico. Mi dispiace che si sia scontrata con la verità in maniera tanto atroce, sono desolato di non essere riuscito a impedirlo. E' allucinante ciò che sto provando: pietà, dolore, rabbia... rimpianto. Il mio piede oltrepassa la linea rossa che delimita, senza eccezioni, un territorio in cui non posso inoltrarmi, nelle cui leggi mi è proibito interferire. Non so perché mi arrogo il diritto di sfidare apertamente questo divieto, so soltanto che il mio istinto ha deciso di prevalere sulla ragione e su tutto ciò in cui ho creduto fermamente fino a oggi.

Quando poi sento che si è quietata e il suo cuore sta tornando a battere regolare, tolgo la mano e le parlo piano all'orecchio: «Guarda.»

Apre lentamente gli occhi, che ho sentito chiudersi sotto il mio palmo mentre le oscuravo la vista, le sue ciglia mi hanno fatto il solletico, e si decide a guardare.

Quello che si è materializzato oltre il vetro della finestra mi costerà caro, una punizione che dovrò scontare nella sua interezza e che marchierà irrimediabilmente la mia condotta già imperfetta.

«Meglio adesso?» la incito dato che non proferisce parola.

«Cos'è?» mi chide con un mormorio appena udibile.

«E' Burgos.» La vera Burgos, aggiungo nella mia testa. Il mio corpo reagisce alla sua vicinanza, e non vorrei lo facesse in questo frangente, ma sono impotente anche in questo. Ci sono circostanze, azioni e emozioni che mi ricordano quanto io sia maledettamente ancorato all'emisfero umano.

«A-auto, luci accese... p-persone» balbetta incredula.

«Sì, c'è tutto quello che serve Shelly.» Respiro il profumo intenso dei suoi capelli, un'aroma di vaniglia misto a pesca, sto per farcire la mia descrizione con altri particolari che l'aiuterebbero a stemperare l'angoscia, quando Tristan irrompe nella stanza galloppando sul pavimento come un purosangue imbizzarrito.

«Maledizione, Met!» urla infischiandosene della mia ospite. «Che macello hai combinato?» Istintivamente proteggo Shelly, nascondendola dietro la mia schiena e contemporaneamente voltandomi per affrontare l'ira di Tristan. La sento sporgersi a lato della mia spalla per sbirciare l'invasore che, in piedi tra i due divani e pallido come un cencio, ansima e ci fissa sgomento.

Sostengo il suo sguardo e indurisco i lineamenti del viso. «E' una cosa temporanea, Tristan.»

Viene verso di noi a passo sostenuto e sono costretto ad alzare una mano per fermarlo. Una barriera che solo io posso vedere si frappone tra noi e lui. «Rimani dove sei» gli ordino, e Tristan va a sbattere contro il muro invisibile.

Furibondo per essere caduto in trappola, alza un dito contro Shelly. «Cosa ci fa lei qui? Avevi detto che non avrebbe creato problemi, e invece guarda!»

«Nessun problema, amico» dico tranquillo. «Era spaventata e ho pensato che un cambio di prospettiva potesse aiutarla, tornerà tutto come prima te lo prometto.» Parlo con lui e non mi accorgo che Shelly ha notato la porta che ha permesso l'ingresso di Tristan.

«Un'uscita...» sibila, poi riesce a superarmi e si lancia nella direzione agognata, là dove è apparsa un'apertura nella parete sud. Anche lei impatta con la barriera, è meno abile di Tristan perchè picchia la fronte e rimbalza come una pallina da squash.

Tristan batte i pugni e continua a urlare, ma non risco a sentirlo.

«Se tolgo il blocco, lui non ti lascerà passare» l'avverto pregando che mi dia ascolto.

«Fammi uscire di qui, Metcalfe!» La richiesta ha un suono cavernoso e ha decisamente superato il limite di sopportazione del rifiuto. Con l'arrivo di Tristan, anche la mia calma è salpata per lidi sconosciuti e devo risolvere il malinteso con il mio assistente se voglio guadagnarmi il privilegio di trascorrere altro tempo in compagnia di Shelly Morgan.

Disegno una parentesi nell'aria con la mano e la barriera si curva restringendo la porzione che rinchiude Tristan. «Vai!» le dico, gli occhi fissi sul pavimento perché questa concessione illogica mi fa male sul serio.

Shelly non aspetta un secondo invito, raccoglie il suo corpo da favola e raggiunge l'uscita senza più voltarsi indietro, senza nemmeno salutarmi. La sento scendere le rampe di scale con dei salti pericolosi e mal calibrati, la voglia che ha di mettere distanza tra lei e il mio mondo è talmente travolgente da farle scordare che qui può davvero subire danni.

Mi tiro i capelli e vorrei strapparmeli. Dò un'occhiata a Tristan, abbozzolato dal mio incantesimo, e ho la sensazione che non sarà per niente un incontro piacevole.

***

«Lo so che pensi che io sia stato troppo irriflessivo...»

«No, Metcalfe! Irriflessivo non rende per niente l'idea, cazzo!» Tristan sta testando la resistenza del proprio nervosismo. Posso comprendere come si sente e, soprattutto, come la vede. «Hai fatto un casino di proporzioni cosmiche e se Cathrine lo scoprisse - perché Cat lo scoprirà, non ci sono dubbi a riguardo -», continua assumendo un'espressione tra il terrorizzato e lo sconfitto, «insomma... siamo tutti fottuti, Met! Io, tu, gli altri... il Consiglio ci sbatterà nel cesso e tirerà il fottuto sciacquone. Siamo fottuti. Fottuti, cazzo!» Se ripete fottuti un'altra volta temo che ci morirà d'infarto con quella parola sulle labbra. «Che cazzo facciamo adesso, me lo spieghi?» si schiaffeggia le cosce e mi guarda con gli occhi fuori dalle orbite.

Torno alla finestra e appoggio i gomiti sul davanzale, prendendomi il viso tra le mani. «La manderò da Sandra, è la mossa più sensata da fare.»

«Quella pazza? Ma ti sei completamente bevuto il cervello, eh Met?»

«Quella pazza può vederla, Tristan» gli ricordo esasperato.

«Certo! E' pazza!» rimarca raggiungendomi, dà uno sguardo al paesaggio e poi strizza forte le palpebre. «Non voglio guardare» dice scrollando il capo.

«Allora non guardare.»


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