7. Lullaby
[...] E non posso farci niente
Quando impaurito capisco
Che stasera sono la cena dell'uomo ragno!
Lullaby - The Cure
Le ninnananne sono scritte per bambini fragili, umani in miniatura la cui stanza da letto è troppo grande e raccapricciante per sopportarne il silenzio. Bambini che non riescono ad addormentarsi senza luce, che nel lume giocattolo sul comodino riconoscono la fatina personale, pronta a intervenire con una fattura se il mostro sotto il letto decidesse di farsi un giro, preparate a trivellare di bagliori magici l'uomo nero se mai osasse entrare dalla finestra.
Non mi piacciono le ninnananne, e detesto dormire con con la luce accesa; non ho mai avuto paura dei mostri, nè creduto all'esistenza dell'uomo nero. I deboli, quelli che sono stati troppo coccolati da piccoli, gli insicuri, quelli che hanno paura persino della propria ombra, loro sono i perfetti ascoltatori delle caramellose canzoncine pre-sonno. Io no. Ero una bambina dura, forte quanto bastava per raccontarmi da sola le favole della buonanotte e non dispiacermi del regolare menefreghismo dei miei genitori. Ascoltavo il buio e vedevo il silenzio, attratta dal potere che emanavano, imparando a gestire la solitudine con un un sorriso onesto, grata del tempo concessomi per inventare storie di guerrieri dalle armature ramate e prosperose amazzoni che falciavano teste a orchi puzzolenti.
Nemmeno il ruolo della principessa faceva al caso mio, credo di aver sognato il Principe Azzurro forse una o due volte e per sbaglio. Quelli erano i miei incubi, mondi di scintillante incanto in cui la disgraziata Cenerentola di turno era costretta a soddisfare l'aitante marito in ogni modo, come se l'appagamento di quest'ultimo fosse l'unico scopo nella sua vita. In nessuno dei miei incubi, però, l'uomo che interpretava il principe azzurro era tanto sublime come colui che sto guardando ora. Adesso che sono ovunque e in nessun posto, con il velluto sotto le braccia, le gambe leggermente rialzate e l'assurda commozione di trovarmi in un posto sicuro.
«Arcobaleni e unicorni?»
Spalanco gli occhi, incollandoli allo sconosciuto semisdaraiato nella penombra. «Direi... più tempeste e zombie» rispondo flebilmente senza azzardare il minimo movimento. Ho la paradossale convinzione di sentirmi bene, di non avere nulla di rotto, di non essere ferita o vittima di una qualche forma di amnesia, ma non voglio muovermi.
Il ragazzo ride. Sul serio. Il suono emesso dalle sue labbra è pulito, autentico, e la sua risata lo fa sussultare sull'ottomana scura. Il suo corpo slitta di poco verso il basso, e un raggio di luce rossastra investe i suoi abiti senza tempo. I pantaloni sono in uno strano tessuto ricamato, lo stesso della giaccha che, slacciata, lascia indravedere una maglietta bianca.
«Chi sei?» gli chiedo, interrompendo il suo spasso.
Lui si passa una mano fra i capelli biondi. «Sono Met» annuncia continuando a sorridere.
Diminutivo bizzarro, accento altrettanto inusuale. «Met come... Metcalfe Nott?» butto lì, stringendo le labbra; il modo in cui lo pronuncio tradisce l'evidente soggezione che mi provacano i ricordi associati a quel nome.
«Mmh... sei preparata.» Appoggia i gomiti sulle ginocchia, le mani giunte sotto il mento, e il suo viso è qualcosa di incredibile: delicato, sensuale e geometricamente armonioso. Due occhi grandi, leggermente allungati, mi scrutano interessati, forse sono verdi, magari azzurri, difficile dirlo da questa distanza e con così poca luce.
«Di norma non scordo il nome che mi è costato un'aggressione » chiarisco pungente, sollevandomi e incrociando le gambe.
«Ti hanno aggredita per colpa mia?» domanda incredulo.
«Sì, più o meno.» Lo fisso con occhi severi. «Facevo domande su di te e mi hanno colpita alle spalle, come la vedi?»
«Complicata» dice grattandosi la fronte increspata. «Certa gente è matta, non c'è altra spiegazione» termina abbassando le palpebre.
Ah, sì? Matta... Da quando sono intrappolata in questo posto dimenticato da dio non mi sono imbattuta in una sola personalità sana, quindi l'aggettivo non lo avrei usato per una circoscrizione, ma piuttosto per l'intero per villaggio che lui capeggia. Tutti sono fuori di testa qui, non solo certa gente! E' un manicomio fatto e finito, e abbondiamo pure di eufemismi...
«Mi sembra di aver capito che si tratta della tua gente. Dire che ti associano a un dittatore è poco... battono i denti semplicemente al sentirti nominare.»
Metcalfe ride ancora, forte. «Addirittura!» commenta tra un sobbalzo e l'altro. «Credo che tu abbia preso un abbaglio, Signorina Morgan.» Pronuncia il mio cognome e mi irrigidisco, uno tsunami di rabbia invade il mio viso e se avessi a portata di mano uno specchio scoprirei senz'altro un colorito verdognolo.
Far scemare l'irritazione è il mio obiettivo numero uno. Se, come aveva detto quell'infermiera, era stato lui a trovarmi dopo l'incidente è probabile che sappia anche dove si trovano i miei bagagli, e io li rivoglio. Mi guardo intorno, la stanza non è ampia, la forma spiovente delle pareti e del tetto mi ricorda una soffitta. C'è molto legno, sopra e sotto, pochi arredi e nessun suppellettile. Alla mia sinistra, il camino in marmo è spento, muto e vuoto come la bocca di un dinosauro in un museo. Niente tappeti, niente quadri. Il divano che mi ospita è della stessa fattura di quello di fronte, dove Metcalfe è seduto come un sovrano a cui mancano solo scettro e corona. Su due finestre triangolari - sì, sono davvero triangolari - le tende grigie sono tirate e nascondono tutto, mentre l'altra ne è addirittura sprovvista e lascia entrare l'oscurità e l'ignota luce rossastra.
«L'arredamento lascia un po' a desiderare, ne sono consapevole, ma a me piace così.» Le sue parole riconvocano la mia attenzione, il mio sguardo converge automaticamente su di lui e, rimanendo in tema di abbagli, sono letteralmente ammaliata dalla sua bellezza. Adoro la raffinata eleganza di certi biondi, è come trovarsi al cospetto di un dipinto del Beato Angelico, sedotta dalla delicatezza dei suoi angeli.
«E' un abbaglio l'atmosfera funebre che regna a Burgos?» Metto una mano sul petto, all'altezza del cuore, per tenere sotto controllo il ritmo cardiaco ed evitare che gli istinti prevalgano sulla collera. «La nebbia... l'inattività...» Le squadre di anziani sparse nei locali, pronte a disputare una partita di polo con l'ospizio del paese limitrofo, vorrei aggiungere, ma riesco a trattenermi.
Inaspettatamente, Metcalfe Nott si alza, raddrizza la postura e mi tende una mano. «Vieni», dice dall'alto di quello che penso si avvicini al metro e novanta. E' di corporatura esile, odiosamente proporzionato e invitante.
Non ci penso neanche a stringere la sua mano, lo raggiungo eludendo l'invito fisico e lui mi lascia passare indicandomi la finestra. «Che c'è?» indago a disagio. «Cosa dovrei guardare?» Non so perché, ma muovo la testa da una parte all'altra nel tentatico di perdere tempo. Ce l'ho a morte con me stessa per questo atteggiamento immaturo, non è da me sminuire la perspicacia schiacciandola ai livelli mediocri della stragrande maggiornza della popolazione mondiale.
A Metcalfe sembra non pesare la mia recita infantile. «Avvicinati, per favore.» Appoggia la mano sulla mia spalla, sento una o due dita bollenti sfiorarmi il collo, e mi viene la pelle d'oca. «Ti piacerà» aggiunge in un sussurro fresco, che si unisce al calore della sua pelle sulla mia e mitiga l'effetto devastante d'insieme.
Faccio come dice e guardo fuori, usando il davanzale per sollevarmi sulle punte e vedere meglio. Oh, madre santissima!
«Dimmi, Shelly, cosa vedi?» chiede con il viso che sfiora l'incavo del mio collo. La sua mano dalla spalla si sposta sul davanzale, e ora il suo braccio mi intrappola tra lui e quello spettacolo sconvolgente.
«C'è... ci sono...quello è?...» Porca puttana, è impossibile! Le mie parole non riescono a partecipare allo stupore che mi coglie mentre osservo il panorama. Oro e argento dominano la scena, spruzzati nel cielo d'inchiostro, pettinati sui prati come se fossero invasi di lucciole, spalmati sui muri delle case e guarniti da milioni di piccoli diamanti; nel mezzo di questo quadro dipinto con foglia d'oro e d'argento, scorre la strada principale, quella che avevo malamente percorso poche ore prima, lunga e sinuosa, lucida come una pietra d'onice e arrotondata come il corpo di un serpente. Non distinguo anima viva ma, diamine, chi non vivrebbe in un posto del genere?!
Sopraffatta dallo splendore, me ne infishio della sua vicinanza, del suo pazzesco profumo di legno, porto le mie labbra a pochi millimetri dalle sue e sibilo: «Dove mi trovo, Metcalfe?» Sul volto non ha più il riflesso rossastro, a dire in vero non ho notato un faro di quel colore oltre il vetro della finestra, la sua pelle è baciata dal preziosismo esterno, e due sfere azzurro cielo trapassano il mio sguardo squarciandomi l'anima. «Tu, chi sei?»
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