5. A cena con Nightmare... (o quasi)
"I personaggi principali di questa storia, di cui vorresti diventare intimo amico, non sono qui.
Non ti stanno aspettando: tu non significhi niente per loro."
The Crimson Petal and the White - Michel Faber
Quando entro nel piazzale antistante la tavola calda, devo fare i conti con tre cose sostanziali: la nebbia si è diradata, non ci sono auto parcheggiate negli spazi preposti e ho un disperato bisogno di caffeina. Il primo cambiamento è il più confortante, forse ho scovato il passaggio segreto per uscire dal nulla; il secondo è a dir poco stranissimo, visto e considerato che, oltre i vetri del locale, si intravedono luci e sagome in movimento; il terzo, al primo stadio di astinenza, mi rende lucida, riconciliandomi con la parte pragmatica di me stessa.
Costeggio le vetrate appannate, metto una mano sulla fronte per schermare il riverbero e vedere meglio l'interno della tavola calda. Una donna piuttosto anziana si muove lentamente dietro il lungo bancone e, munita di spugna, sta pulendo il ripiano con movimenti ampi e circolari. Né lei né gli altri clienti sembrano essersi accorti di me, quindi mi avvicino fino a sfiorare il vetro con il gomito.
All'improvviso tutto si spegne e qualcosa di gigantesco mi oscura la vista. Arretro all'istante, una mano sul cuore che prende a battere convulsamente, e l'altra sulla bocca per soffocare lo spavento.
Un uomo, con un berretto calato malamente sulla grossa testa pelata, preme il viso sul vetro. La punta del naso è bianca per la pressione contro la superficie, e i suoi occhi allucinati puntano nei miei con mostruosa insistenza. Lo sorprendo ad alzare le braccia, piano piano, come un uccello ferito che fatica a spiegare le ali, e poi con un gesto brusco schiaffa entrambe le mani sul vetro facendolo vibrare sotto il peso del colpo poderoso.
Inizio a tremare, tutto il mio corpo si raffredda con un formicolio che mi ispessisce la pelle delle braccia e, sono sicura, anche quella delle gambe. Non riesco a pensare a nulla che non sia l'impellente necessità di ritrovare il mio telefono, prendere una macchina in prestito e infrangere i limiti di velocità sulla strada che separa questo buco di merda dalla moderna e rassicurante Buffalo. Per rispettare le tappe del mio logico piano, mi occorre però un contatto, una persona normale in grado di aiutarmi a concretizzare la mia fuga, e fino ad ora questa città mi ha proposto di tutto meno che un accenno di normalità.
L'uomo mi sta ancora fissando, immobile. E' vecchio, tarchiato e vestito come un borghesotto degli anni '50. Riconosco il taglio della giacca scura e quello della camicia bianca, i soli due abiti buoni che possedeva mio nonno erano cuciti in maniera identica. Respirando con cautela, noto una donna della stessa età, seduta di fronte a lui. Indossa un tailleur chiaro e un cappellino le copre il volto abbassato sul tavolino, dove le sue dita lavorano meccanicamente sfilacciando un tovagliolo di carta; ogni striscia di velina è ordinata orizzontalmente sul tavolo.
Scrollo la testa, e senza perdere altro tempo mi fiondo all'ingresso del Blue Swallow Cafe, così recita l'insegna spenta sopra la porta. Spingo con decisione e il battente si apre con il dlong stridulo di un campanello. Rimango per un attimo intrappolata nella mia azione, la mano tesa sulla porta ben spalancata; l'idea di toglierla mi provoca un'insana paura... paura che possa richiudersi isolandomi per sempre dal resto del mondo. Mentre penso a cosa fare, mi lascio distrarre da ciò che vedo e, se è possibile, qui dentro è anche peggio dell'ectoplasmico paesaggio esterno. Una puzza di grasso bruciato è diffusa in tutto il locale, la trovo appropriata, un sottofondo perfettamente omogeneo alla trascuratezza dell'arredamento. Ogni cosa sembra avere un secolo: i tavolini sbiaditi con rifiniture metal flake, i divanetti slabbrati, il bancone macchiato da centinaia di anelli giallognoli e la pericolosa ruggine che ricopre gli sgabelli alti. Il pavimento, rigorosamente a scacchi, ha un colore indefinito, ed è talmente sudicio che mi è impossibile indovinarlo.
Una squadra di teste grigie, girandosi in sincrono, mi accoglie con un un coro di grugniti sommessi e non serve essere un genio per capire che ho appena interrotto un religioso silenzio. E' difficile trovare la concentrazione con tutti questi nonni che mi inchiodano con i loro occhi spiritati e mi studiano come se fossi una ragazzina pronta a derubarli delle loro sudate pensioni, ma ho poche alternative se voglio andarmene da Burgos.
«Salve.» dico un po' a chiunque. Ogni attività si è interrotta, e penso che il turismo deve essere davvero magro da queste parti se il mio arrivo ha suscitato un tale sbigottimento.
«Buonasera, signorina.» mi saluta sottovoce l'anziana donna dietro il bancone. Anche lei ha interrotto le pulizie e la sua mano è ferma sulla spugna logora.
E' sera, dunque. Eppure, un attimo fa, la nebbia mi era parsa chiara, come se nascondesse ore di luce.
«Ehm... scusate il disturbo, ma mi sono persa.» mormoro adeguando il tono alla taciturnità dell'ambiente.
La donna sembra stupita. «Come è potuto accadere, tesoro? E' impossibile perdersi a Burgos, è una città talmente piccola.» Sorride e delle risatine si levano intorno a me. «Vieni dentro, è tardi.» Mi indica uno sgabello vuoto davanti al bancone, tra un uomo grasso vestito da contadino e un uomo smilzo con la faccia da dobermann.
«Impossibile!» le fa eco qualcuno alla mia destra, non so dove di preciso. E non intendo appurarlo.
Sfidando ogni sensatezza, tolgo la mano dalla porta, che impiega un'eternità a richiudersi e non fa alcun rumore quando si incastra nella cerniera metallica. Nemmeno il campanello suona. Raddrizzo le spalle e a piccoli passi raggiungo lo sgabello che mi ha indicato la donna, lo sbircio distrattamente ma non mi ci siedo. Io e il tetano non siamo buoni amici.
Alla mia destra e alla mia sinistra i due uomini mi ignorano, dandomi le spalle e fissando dritto davanti a loro.
«Ho avuto un incidente», spiego alla donna. «Ho perso la borsa e non conosco Burgos. Posso fare una telefonata?»
«Non ci sono telefoni qui, signorina» mi informa la donna abbassando lo sguardo. Ricomincia a fregare il bancone con più energia.
Come sarebbe a dire che non hanno un fottutissimo telefono?
Mi guardo intorno, sperando che dica la verità, perché in caso contrario potrei diventare violenta sul serio. Sugli scaffali dietro il bancone ci sono solo polvere e file e file di bottiglie semivuote. Gli elettrodomestici - se così si possono chiamare gli aggeggi ante guerra che stazionano sui ripiani - sono spenti dal prolungato inutilizzo.
Che razza di posto è? Sarebbe fico se da un portale magico spuntasse Ricky Cunningham con tutta la banda... Fonzie relegherebbe in un angolo queste salme, con un un calcio farebbe partire il Jukebox trasformando l'incubo in festa sfrenata, e poi mi accompagnerebbe nel suo ufficio - la toilette -, piazzandomi dinanzi a un meraviglioso telefono nero a gettoni.
«Non fa niente, mi dica dove posso trovarne uno per favore.» Anche quello di Fonzie va bene, aggiungo mentalmente.
«Non ci sono telefoni qui, signorina» ripete senza guardarmi. «A Burgos non abbiamo bisogno di telefoni.»
Io, al contrario, ho la sacrosanta necessità di prenderla a schiaffi! Questa situazione ai limiti del surreale deve finire. Avverto la rabbia montarmi nel petto, e so che tra poco salirà fino al cervello, e sarà la fine... per tutti loro. Stringo la mascella, digrigno i denti e osservo questo ospizio travestito da tavola calda. Non uno fra loro dimostra meno di cinquant'anni o ha addosso un particolare che denoti il secolo in cui viviamo. Dovrebbe essere un ristorante, ma non ci sono pietanze sui tavoli, né una sola dannatissima tazza di caffè fumante sul bancone.
«Niente telefoni qui. Non servono.» E' la voce di prima e stavolta la seguo, irritata come non mai.
L'eco inesistente mi conduce a un tavolinetto rotondo, occupato da un'uomo di spalle infagottato in un giaccone di lana. Sono molto vicina e mi sposto per guardarlo in faccia. La scena è agghiacciante e un conato mi invade lo stomaco.
Davanti a sé ha una scodella piena di liquido chiaro, in cui galleggiano macchie di muffa e nuota - letteralmente -, una colonia di vermi neri. Vivi. L'uomo intinge il cucchiaio nella brodaglia e poi se lo porta alle labbra chiuse, contro le quali lo riversa sbrodolandosi la barba bianca, il giaccone e i pantaloni. Una cascata di vermi e fluido grumoso inzuppa i vestiti, si ingrossa all'altezza del ventre prominente ed infine gocciola per terra, dove una pozza schifosa si sta allargando a dismisura.
Intuisce il mio sgomento e, inclinando la testa nella mia direzione, sorride rivelando una mezzaluna di denti marci, impastati da una melma simile al catrame fresco che stendono sulle strade.
Mi premo le mani sullo stomaco e faccio un passo indietro, troppo velocemente perché mi sbilancio e inciampo, finendo con la schiena contro il vecchio allucinato della vetrina. Urlo con tutto il fiato che ho. Mi aggrappo ai bordi del tavolo e provo a rimettermi in piedi. Nel farlo, incrocio lo sguardo della donna che sta spezzettando il tovagliolo di carta, i suoi occhi sono cerchiati di nero e i bulbi oculari sono completamente bianchi, un bianco in putrefazione, tendente al grigio.
Tento di gridare una seconda volta, ma la voce mi si incenerisce in gola dove il famigliare sapore del vomito sta scalando velocissimo verso la bocca.
«Signorina, non si agiti la prego» la vecchia barista richiama la mia attenzione con sorprendente calma.
«C... che diamine di posto è questo?» balbetto sull'orlo dello svenimento. Cerco di incanalare tuta l'aria che posso, la puzza è così intensa da costringermi a usare la bocca anziché il naso.
«Siamo a Burgos» sibila una vocina. Ha un bel suono e sembra molto... giovane. «Questo è il Blue Swallow» aggiunge più squillante.
«Zitto Nicholas!» lo rimprovera una voce femminile.
Mi stropiccio gli occhi con i pugni e scandaglio la stanza alla ricerca di quei due personaggi finalmente diversi. I secondi che mi occorrono per trovarli mi paiono ore.
«Parla meno, ragazzino, o non finirà bene» lo avverte l'uomo della zuppa di vermi.
Nell'angolo sud, seminascosta da un séparé di vimini bucherellato, scorgo una gambetta nuda che si muove avanti e indietro calciando l'aria. Avanzo barcollante, ancora scossa da quello che ho visto, e quando arrivo al tavolo del bambino un frammento della mia mente martoriata si rigenera.
La madre, seduta accanto a lui sul divanetto, gli circonda le piccole spalle con un braccio, protettiva, gettandomi contemporaneamente un'occhiata impaurita.
Il ragazzino prende a guardarmi circospetto, ma non reagisce come la madre. «Ciao» mi dice serio. In mano ha un pennarello rosso scuro con il quale ha disegnato una specie di cerchio su un foglio bianco. Il colore che riempie il cerchio è denso e spumoso, e trasborda dai contorni incerti in rivoli che scendono fin sul ripiano della tavola.
«Nicholas!» la madre lo strattona.
Non è sangue. Non è sangue. Non può essere sangue! Ripeto dentro di me per convincermi. Smetto di fissare il foglio e guardo il ragazzino. Ha gli occhi grandi da cerbiatto e sulle guance paffute spiccano due fossette profonde e una spruzzata di lentiggini marroni.
Mi abbasso, piegandomi sulle ginocchia per allinearmi al suo viso. «Ciao, Nicholas. Io sono Shelly» mi presento abbozzando un sorriso.
«Ciao, Shelly» saluta, ricambiando con un'impercettibile guizzo delle labbra.
La madre allunga il collo. «Si allontani da mio figlio, e non gli rivolga la parola!» ringhia.
«Ma mamma...» protesta Nicholas mettendo il broncio. Muove le gambe sempre più velocemente sotto il tavolo, i pantaloncini blu gli arrivano al ginocchio e sono coordinati con il pullover elegante sotto cui indossa una camicia bianca.
Una divisa scolastica è la prima cosa che mi viene in mente.
Faccio finta di non aver sentito l'avvertimento della madre e gli pongo un'altra domanda: «Tu vivi qui, Nicholas?»
Il piccolo annuisce. Con la coda dell'occhio guarda la madre e poi dice: «Tu no?»
«No, sono di New York.» specifico dolcemente. «Mi sapresti dire dove posso trovare un'auto, un telefono... o qualcuno che mi aiuti a tornare a casa mia?»
«Nicholas, adesso basta!» interviene la madre furiosa. «Se ne vada, subito!» dice a me.
«Lascialo in pace, Maurine» le dice la barista. «Stanno solo parlando.»
La donna serra le labbra e trattiene le parole, chiude gli occhi e fa un respiro profondo.
«Perché te ne vuoi andare?» mi chiede Nicholas. «Burgos non ti piace?».
«Oh, Burgos è bellissima, Nicholas» mento per non ferirlo. «Ma io devo tornare a casa mia, a New York. Ho i miei amici lì e un lavoro che mi aspetta.» Lo dico a lui ma è come se lo dicessi a tutti i presenti. Voglio che sentano chi sono e che ho tutte le ragioni e i diritti di volermene andare da questo inferno.
Lui fa una smorfia. «Mhm... allora devi parlare con il Signor Nott, è lui che decide chi va e chi viene.»
Che cazzo significa?
«Chi è il Signor Nott?» indago, affatto sorpresa di risentire quel nome.
«E' il sindaco di Burgos» dice Nicholas. «E' giovane e simpatico. Mi regala sempre dei braccialetti.» Solleva la manica del maglione e quella della camicia, scuotendo il braccio per farmi vedere la fila di cordicelle colorate che ha intorno al polso.
«Sono davvero molto belli, Nicholas. Puoi dirmi dove abita il Signor Nott? Lo ricordi?».
Lo sguardo del bambino si illumina. «Oh, certo! Sta in cima alla collina, nella casa grande... quella nera.»
Un baccano infernale si scatena immediatamente dopo che Nicholas mi ha fornito quelle informazioni.
«Te l'avevo detto di tenere chiusa quella boccaccia, ragazzino!» tuona una voce sopra i rumori di ferro e legno, accompagnata dalle imprecazioni delle altre persone in sala.
Non ho il tempo di voltarmi per verificare se si tratta o no dell'uomo barbuto che fingeva di mangiare la zuppa di vermi perché qualcosa di freddo e duro mi colpisce con violenza alla nuca, e l'ultima cosa che vedo sono le fughe sporche del pavimento a scacchi.
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