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3. Il Nulla

" Non è perché ti ficchi penne nel culo che diventi una gallina."

Fight Club - Chuck Palahniuk

Sono fuori. La porta di ferro si richiude dietro di me con un tonfo sordo, e non c'è una maniglia per riaprirla dall'esterno. Mi fermo a riprendere fiato, anche se non sono certa di averne bisogno, mi sento magnificamente in forma, di sicuro sono messa meglio dei miei anfibi neri, impastati dalla polvere del ghiaino che ha frenato la mia corsa. Ce l'ho fatta, ma la mia soddisfazione dura meno di un secondo, il tempo che mi occorre per realizzare il livello successivo dell'incubo in cui sono finita.

Tutt'intorno la nebbia domina la scena. Non una nebbia normale, un'involucro fitto di fumo grigio scuro, pesante come quelle ragnatele che Indiana Jones doveva oltrepassare per raggiungere il Santo Graal. È assurdo, non riesco a vedere oltre un metro da me e non ho la benché minima idea di cosa ho davanti. Tenendo a bada il panico, lancio uno sguardo alla porta di sicurezza da cui sono uscita e la vedo perfettamente. Ciò che non distinguo sono i contorni dell'edificio. La porta è incorniciata dalla nebbia che si gonfia a mano a mano che allargo la visuale per capire quanto sia grande l'ospedale.

«Tutto questo è semplicemente ridicolo, Cliff. I fantasmi non esistono, sono solo il frutto della psicosi di persone annoiate e di bravi grafici che montano prove palesemente false.» Mi infilo la cartella sotto il braccio e recupero la borsa dalla sedia.

Clifford è sull'orlo di una crisi, lo vedo. Il suo ventre si dilata sotto la camicia azzurra e i bottoni bianchi si tirano pericolosamente. Si gratta la barba di alcuni giorni e serra le labbra senza replicare.

«Questo posto ha solo due migliaia di abitanti... a chi cazzo vuoi che venga in mente di dar credibilità a quattro contadini e due zitelle?» insisto.

Di solito mi riesce bene dipingere un buco nell'acqua a chi crede fermamente nelle potenzialità di un'idea. Purtroppo, durante i miei due anni al Neon ho imparato che quando Clifford Withe perde la testa per un articolo non esiste Santo che possa dissuaderlo dall'andare fino in fondo.

«Vuoi che assegni l'indagine a Miles?», mi provoca, «E' questo che vuoi?»

Touché! Lo stronzo si gioca la carta del rivale con una mossa che definire scorretta è poco.

Lo guardo torva, e stavolta alzo io il dito contro di lui. «Non ti azzardare, Cliff. Lo sai benissimo che quella mezza sega non vale un decimo della tua segretaria, come reporter.»

«Come sei fine, Shelly...» borbotta socchiudendo gli occhi.

Miles Chambers è una palla al piede fin dal primo sementre di università. Siamo cresciuti nello stesso quartiere, a Brooklyn, e già non lo sopportavo quando schiacciava le mie torte di fiori passando a tutta velocità sui marciapiedi con la sua BMX, figuariamoci quando ho scoperto che si era iscritto alla mia stessa facoltà al CUNY. E' un arrivista patentato, di quelli che venderebbero la propria madre per salire mezzo gradino in carriera, di quelli che addirittura la ammazzerebbero se fosse l'unico sistema per diventare finalmente qualcuno.

«Intanto lui ha famiglia, e questo dimostra che ha un progetto al di fuori del lavoro.» Inforca un'espressione fintamente angelica. «Ruth è incinta e presto diventerà padre... quale stimolo migliore per impegnarsi al massimo nella professione?»

Mi sta prendendo per il culo?

«Punto primo: Ruth è un'idiota. Perché solo un'idiota potrebbe sposarsi una melanzana come Miles e addirittura farci un figlio!» gli ringhio addosso. «Punto secondo: io mi dedico al lavoro anima e corpo. Nello specifico, mi sto prostituendo per te da due anni senza mai lamentarmi delle stupidaggini che mi costringi a scrivere...» Okay, forse qui sto esagerando, ma il mio capo ha il rarissimo potere di scatenare la iena che è in me. «E terzo... io sono più brava!»

«Allora dimostramelo, Shelly!» tuona picchiando i pugni sulla scrivania e, così facendo, manda all'aria un mucchio di carte prima impilate con cura. «Alza quel culo secco e vai a Burgos. Mangia pannocchie, partecipa alle feste di paese, chiacchiera con le parrocchiane... fai l'amica e portami un dannatissimo articolo di punta!»

Lo sto odiando, davvero, con tutta me stessa. Ma è lui che mi paga l'affitto.

Non posso permettermi il lusso di vegetare nel tentativo di fare una stima architettonica dell'ospedale. Devo muovermi, e in fretta. Da qualche parte, chissà dove e chissà in compagnia di chi, il mio cellulare mi sta aspettando, carico e rassicurante, con una lista infinita di numeri nella rubrica pronti per riconnettermi alla mia vita.

Avanzo in linea retta con passo veloce, consapevole che potrei ritrovarmi schiacciata contro un muro, o peggio, asfaltata da un trattore. Il silenzio è ovunque, come se la nebbia avesse il potere di zittire anche i suoni della natura. Con la punta della scarpa trovo un ostacolo e d'istinto protendo le mani davanti a me, infilandole nella nebbia.

Niente.

Guardo meglio in basso, strizzando gli occhi per mettere a fuoco l'immagine, e riconosco la striscia bianca della carreggiata. Ho trovato la strada principale, ora devo solo decidere se proseguire a destra o a sinistra.

La cosa sorprendente è che tutta questa nebbia non genera umidità. Ho una maglietta a maniche corte, è Ottobre, nello stato di New York, come si spiega la temperatura mite e l'inattività di questo villaggio piccolo come un'arachide?

Vado a destra, contando i passi e mantenendomi il più possibile lungo il limitare dell'asfalto. Sollevo e sbatto le suole come se marciassi in un battaglione di militari in addestramento, ed enumero ogni falcata ad alta voce, tanto per riempire questo silenzio agghiacciante. Un'autistica, ecco cosa mi sento. Una squilibrata marionetta sul palco di un teatrino affacciato su una platea vuota.

Dopo la bellezza di centoventisette passi, la polvere per terra lascia spazio all'erba. Mi piego per toccarla e, oltre a essere insopportabilmente asciutta, ha un colore sbiadito, grigio verde, e la consistenza di un finto prato di plastica.

Faccio un lungo respiro e ricomincio a camminare, è l'unica azione importante che mi rimane da compiere. O forse no?

«C'è qualcunooo?» urlo a pieni polmoni. Mi aspetto l'eco, ma la mia speranza non viene ricompensata. La voce si perde nell'aria e non riambalza da nessuna parte.

Maledetto Cliff. Maledetto Miles e il mio stupidissimo orgoglio. A quest'ora potevo essere al Silvfer Lining, a TriBeCa, sorseggiando un delizioso cocktail in compagnia di Marissa e della musica migliore del momento. Non possiedo le conoscenze necessarie ad affrontare queste situazioni. Le avventure non fanno per me, sono una banalissima e preconfezionata creatura di città. A sei anni, avevo prontamente cestinato il volantino del corso Scout, preferendo le sessioni di lettura di gruppo nel centro sociale del mio quartiere. Alzarmi all'alba la domenica mattina per scarpinare tra tafani e spine, ritrovare il sentiero giusto per mezzo di umidiccie macchie di muschio, indossare bermuda fuori moda, per me equivaleva a un soggiorno a tempo indeterminato all'inferno. E avevo ragione, perché mi sento proprio all'inferno, clima temperato a parte.

«Vaffanculo!» dico al paesaggio invisibile.

Subito dopo, quasi si fosse offeso, il paesaggio del cavolo mi risponde con un contorno sfocato, qualche decina di metri più avanti in linea obliqua. Accelero abbandonando la strada, e azzardo una piccola corsa sull'erba dura. Avvicinandomi all'obbiettivo, scopro che si tratta di una struttura bassa e squadrata. Non ne vedo la fine, ma l'insegna spenta di una tavola calda è la più bella prospettiva dopo l'emozione di essermi lasciata alle spalle quella vecchia infermiera e la sua clinica inquietante.


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