15. Un mondo senza di me
"Dio del cielo. Come hai potuto farle questo? Come hai potuto creare qualcosa di così bello e delicato ed innocente per poi distruggerlo? Come hai potuto farlo? Come hai potuto farla soffrire così tanto? Maledetto."
(Eric Draven)
The Crow [Libro terzo: Ironia] - James O'Barr
SHELLY ELIZA MORGAN
4 . 2 . 1989 10 . 11 . 2015
"Un mondo senza di te"
Quindi ci siamo. Eccoci qui. Infine è questo: un mondo senza di me. Un mondo senza più... me. Un mondo con tutto tranne quello che ho smesso di essere. Due metri cubi di terra sotto cui dorme per sempre il cadavere di un fantasma senza una dimensione. Senza... casa.
Quasi che non sono turbata... quasi che non sento nulla. C'è una gran pace dentro e fuori, un buon profumo, come di incenso al muschio bianco, e una dolce melodia, come di archi lontani, suonati nello spazio tra l'orizzonte e il cielo. C'è tutto e niente, e poi ci sono io che sono entrambe le cose.
Non ho mandato via Metcalfe perché sono arrabbiata con lui; chiunque egli sia, qualunque ruolo abbia nell'epilogo di Shelly Morgan, ora sento che si è esclusivamente attenuto al suo compito. L'ho allontanato perché volevo dirmi addio, da sola, celebrare un funerale privato sprovvisto di menzogne, le stesse che mi sono raccontata in continuazione negli ultimi giorni della mia non vita. Io sapevo... in fondo, lo sapevo. Sapevo di essere morta. Solo che rifiutando la verità non ero morta davvero, la sono ora che l'ho accettata. Ora sono, veramente, indiscutibilmente morta.
Con un'afflizione imperiale dentro quello che penso sia ancora il mio cuore, smetto di passare le dita nelle scanalature del mio nome. La lapide è molto semplice, uguale a tutte le altre, di marmo grezzo, una lastra di circa un metro d'altezza con la parte terminale semi-circolare; solo l'incisione è mia: il mio nome, la data della mia nascita - il 2 Aprile del 1989 -, la data della mia morte - l'11 Ottobre 2015 -, e il mio epitaffio. Sotto di me c'è solo la terra compatta, forse un po' più scura di quella dinanzi le altre lapidi, e più sotto... non so. La vecchia me in decomposizione. Forse.
Sto per alzarmi, quando noto una rosa bianca sulla destra, proprio dove il fazzoletto di terra finisce e inizia l'erba. Non è ancora schiusa, fresca, lo stelo privo di spine e foglie: è bellissima.
Burgos è carina; riconoscerlo mi fa sentire un po' meno in colpa per la bugia che avevo rifilato al piccolo Nicholas, nel tentativo di tranquillizzarlo per estorcergli le informazioni di cui avevo bisogno. Tutto ha colori diversi, e ogni costruzione sembra nuova ai miei occhi, non riesco a collocare questo posto in nessuna delle tante versioni che mi aveva proposto Metcalfe.
Metcalfe.
E' a casa sua che sono diretta.
Casa.
Il mio corpo si muove sicuro sull'asfalto della strada principale, trovata senza difficoltà dopo meno di dieci minuti di cammino nel bosco. Adesso mi rendo conto che non ho più motivo di cercare alcunché, e gli anfibi e la sottoveste bianca che indosso, e che Metcalfe aveva evocato dal nulla, non mi sembrano più inadatti come quando eravamo usciti dalla casetta sul lago.
Io e Metcalfe nella casetta sul lago.
Io.
Lui.
Mi sento diversa anch'io, come lo è Burgos, affine a quello in cui sono inserita. Gli alberi, le case, i locali, le persone, e io siamo sulla stessa frequenza; siamo parte, ognuno con i propri strumenti, di quest'orchestra spettrale. Fedele al mio personaggio, sto andando dal nostro maestro per prendere accordi e, mentre sfilo su questo palco gigantesco, incrocio gli sguardi dei miei soci e posso distinguere le due varianti di ciascuno di loro: quella mostruosa e quella... normale. Vedo facce comuni e, se sbatto le palpebre, gli stessi volti trasmutano in qualcos'altro di assurdamente orrendo.
Un uomo sulla sessantina passeggia sul marciapiede, in senso opposto al mio; ha un quotidiano sotto il braccio e le mani ben nascoste nelle tasche dei pantaloni beige a costine. E' un normalissimo signore di paese, fino a quando non si volta nella mia direzione e il suo viso si deforma, allungandosi verticalmente come se fosse fatto di gomma, spalanca gli occhi e la bocca che si trasformano in tre profondissimi buchi neri. Le sue labbra sono scomparse e la forma a uovo che ha preso il posto della cavità orale si apre e si chiude in continuazione, senza emettere alcun suono. Scontento del mio disinteresse, torna a fissare davanti a sé, e anche i suoi lineamenti e la sua bruttezza svaniscono come per magia.
Continuo a camminare e ne vedo altri come lui: donne e uomini... di ogni età.
Anche loro vedono me nel modo orrendo in cui io riesco a vedere loro?
So dove sto andando, e so perché ci sto andando. So dove finisce questa strada, perché finalmente vedo quella collina di cui parlava Nicholas, ed è lì che, come ho detto prima, sono diretta. Lassù, dove quella casa di pietra e legno ha presumibilmente una porta aperta per me, dove quella residenza scura è temporaneamente padrona del mio domicilio, dove il giovane proprietario è l'unico ad avere il potere di collocare il mio nuovo essere nel nuovo mondo.
Non c'è il sole, non fa né caldo né freddo, nessuna traccia di nebbia ma... sta iniziando a piovere!
Cazzo!
Alzo gli occhi al cielo privo di nuvole, di un azzurro spento come la vernice sbiadita della Mustang che aveva Stephen, il mio ex ragazzo, e sono proprio gocce di pioggia quelle che mi picchiettano il viso: pesanti, grosse e con l'odore tipico del petricore. Accelero il passo e, soprendentemente, anche il flusso d'acqua aumenta, nel giro di pochi secondi ho come l'impressione di attraversare infinite pareti sottilissime di una cascata. Le gambe decidono per me, scattando in avanti e lanciando il mio corpo in una corsa molto veloce; le suole dei miei anfibi affondano nello strato già spesso d'acqua che ricopre l'asfalto, ma tutto sommato hanno ancora una buona aderenza al suolo.
Manca poco. Pochissimo. La strada finisce, incuneandosi nella base terrosa della collina, dove una scala ricoperta di muschio e erbacce sale ripida, serpeggiando tra due file di cipressi. Sono fradicia, la sottoveste si è appiccicata alla mia pelle, sono più che sicura che il biancore del tessuto sia ora trasparente e a dir poco indecente, ma non mi importa; salgo i gradini a due a due, spostando il peso in avanti per non slittare sul muschio inzuppato, sputo l'acqua che si insinua tra le mie labbra e finalmente arrivo in cima, dove una porta a ogiva di legno scuro mi attende socchiusa.
Allora non sbagliavo: c'è davvero una porta aperta per me quassù!
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro