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Capitolo 9 • Tormento

Dylan's POV

Quelle stesse braccia abituate a sollevare mattoni in cemento grezzo, per la seconda si ritrovavano a stringere quella creatura fragile.

Mi sembrava fuori posto lì sulla mia pelle, ma allo stesso tempo pensai che forse iniziavo ad abituarmici.
Aveva smesso di tremare e si era addormentata, mi sentivo tremendamente in colpa per averla ridotta così, però sapevo anche che non era un discorso che avrei potuto ulteriormente rimandare.
L'ho fatto per il suo bene, mi ripetei nella testa come un mantra, finchè quelle parole non divennero prive di significato, consumate dai pensieri che vi si accanivano attorno.

Rimanemmo lí per un tempo indefinito, non riuscivo a raccogliere le forze per alzarmi e andar via, vederla così distrutta aveva ucciso anche me.
Non ero uno di quelli che riusciva a fregarsene delle emozioni degli altri, la mia maledetta empatia le amplificava e me le rigettava addosso con la potenza di un uragano, quella volta più che mai.
E nonostante tutto desiderai lo stesso che quello che era capitato ad Athena fosse invece accaduto a me, quando si trattava di quella ragazza il mio istinto di protezione diventava protagonista del mio animo.

Non so quando accadde, fatto sta che alla fine mi sollevai da quel giaciglio improvvisato, con il corpo di Athena stretto contro il petto con delicatezza.
La avvolsi come potevo con la coperta, solleticandole il viso con la stoffa ruvida, attento a non svegliarla, poi mi incamminai alla volta dell'auto, tormentato dall'insistente sensazione di star vivendo un dejavù.

Chissà perché le nostre serate finivano sempre in quel modo, mi domandai, mentre l'adagiavo di nuovo su quei sedili, dalle sue labbra rosee sfuggí un "Mhhh"  appena udibile, ma le palpebre rimasero calate, come a volerle nascondere il mondo esterno, facendomi perdere lo spettacolo che erano i suoi occhi.

Accostai davanti al cancello in ferro battuto che delimitava casa sua, l'ora era tarda eppure le luci della cucina erano ancora accese e, se aguzzavo la vista, riuscivo ad intravedere l'ombra di una figura sottile seduta sul divano.
Doveva appartenere a Emily.

Con un'Athena ancora addormentata tra le braccia mi apprestai a suonare il campanello, preparandomi a un lungo ed estenuante interrogatorio che sicuramente la maggiore mi avrebbe rivolto.
Se avevo capito qualcosa su di lei attraverso i racconti della minore era che tendeva a comportarsi più come una mamma che come una sorella.

Chissà cosa avrebbe pensato nel vedere uno sconosciuto, nel cuore della notte, riportargli sua sorella con il volto rigato di lacrime. Io al suo posto sarei andato sicuramente su tutte le furie.

E mentre i pensieri mi incespicavano tra i neuroni intorpiditi dal vino e dal sonno, ecco che finalmente Emily fece la sua comparsa sull'uscio di casa, sgranando gli occhi alla vista di sua sorella adagiata sul mio petto.

Mi fece cenno di entrare, da vicino potevo tranquillamente cogliere la somiglianza tra le due, l'espressione a metà tra l'arrabbiato e il preoccupato che comparve sul volto della maggiore però ne sfigurava i lineamenti, facendo affogare le iridi castane nel nero delle sue pupille.
Notai che nelle sue non galleggiava nessun frammento d'oro, erano dei semplici occhi marroni, che avrei potuto confondere tra mille, non erano i suoi occhi.
I capelli corvini erano però gli stessi, condividevano lunghezza e sfumature, quelli di Emily erano leggermente scarmigliati, probabilmente si era addormentata in attesa di veder tornare Athena.

Le ci volle qualche secondo per riprendersi dalla sorpresa, secondi in cui rimanemmo a fissarci sulla soglia, rabbrividendo per il freddo. Quando il suo sguardo tornò finalmente a incrociare il mio, percepii mille domande vorticarci dentro e, prima che si mettesse ad urlare, decisi di anticiparla.

«Dov'è camera sua?» bofonchiai sottovoce, indicando con un movimento del mento la sorella tra le mie braccia, che iniziava a farsi pesante dopo tutto quel tempo.

Lei mi fissò con un paio d'occhi che se avessero potuto, ero sicuro che mi avrebbero incenerito lì sul posto, la lotta che infuriava nella sua mente era palese, ma alla fine, seppur combattuta annuì in un gesto secco, mettendo in secondo piano tutto il resto.

«Di sopra, seconda porta a destra. Mettila a letto, poi mi racconti» specificò con il tono di chi è abituato a dare ordini, era quasi una mia coetanea, eppure il quel momento mi parve assai più vecchia della mia età. Non ribattei, mi limitai ad incamminarmi per le scale seguendo le sue indicazioni, non la vidi, eppure percepii il suo sguardo bruciarmi la schiena mentre i gradini in legno chiaro scricchiolavano sotto il mio peso.

L'avrei riconosciuta comunque constatai, quella camera era intrisa del suo odore, però me l'ero immaginata diversa, meno infantile. Invece trovai le mura pennellate di rosa, un colore che facevo fatica ad associarle, forse l'aveva scelto parecchi anni fa, come lasciavano intuire alcune zone più chiare sbiadite dal tempo.

L'adagiai sul letto, su cui sfoggiava una tenerissima coperta di Hello Kitty, mi presi un attimo per ammirarla, lì, in quel contesto, sembrava davvero un'altra.
Un'Athena in qualche modo tornata bambina.
Non resistetti e le lasciai un leggero bacio sulla fronte, illudendomi che quell'attimo di serenità la cullasse per sempre.
Stesi anche la mia coperta su di lei, sperando che le rammendasse la bella serata nei momenti tristi, evitando magari l'epilogo non troppo allegro che aveva avuto.

Poi mi diressi lentamente al piano di sotto, per affrontare la sorella numero due, che avevo fatto aspettare fin troppo.
La sua voce mi bloccò quando ormai ero a pochi passi dalla porta.

«Resta ancora un po', per favore» era così strana la sua voce, quasi una preghiera, molto diversa dal solito tono sicuro che ero abituato a sentirle usare.

Ogni fibra del mio essere avrebbe voluto fare marcia indietro e tornare da lei, riscaldarla con il calore del mio corpo e cullarla finché Morfeo non l'avesse accolta di nuovo fra le sue braccia.
La parte razionale me lo impedì, una vocina continuava a ripetermi che era meglio mantenere le distanze fisiche con lei, soprattutto quando appariva così fragile, avevo il timore che qualunque gesto facessi potesse essere frainteso, non avrei mai sopportato di vederla allontanarsi da me, ormai l'avevo presa a cuore.

«Emily mi aspetta al piano di sotto, pretende delle spiegazioni» le confidai, ancora di spalle, facendo roteare un anello tra le dita a mo di anti stress, un tic che avevo sviluppato da quando avevo smesso di mangiarmi le unghie.

«Cosa le dirai?» la sentì ribattere preoccupata, il tono che lentamente riacquistava vigore.

Feci l'errore di voltarmi, cogliendo il luccichio dei suoi occhi nella penombra, all'improvviso mi sentii come se tutto si riducesse a quello sguardo, come se tutto il resto fosse solo di contorno, il mondo esterno era solo la scenografia di quello spettacolo privato, riservato solo a me.

«Sta tranquilla, non le dirò nulla di quella sera, devi farlo tu» mi diede fastidio il fatto che ne avesse dubitato, gli avevo dato la mia parola e non ero uno che infrangeva le sue promesse, mio padre mi aveva sempre ripetuto che il valore di un uomo dipendeva dal peso che dava alle sue parole.

La vidi annuire  abbozzando un sorriso e, pensando che la conversazione fosse ormai conclusa, tentai di uscire da quella stanza, ma ecco che le sue parole mi inchiodarono di nuovo lí sul posto.

«Ehi Dyl» mi richiamò, sembrava essere tornata quella di sempre, solo un po' più triste, dietro quella facciata però ero sicuro che si stesse abbattendo una tempesta, ma Athena era forte e stava lottando per non lasciarsi sopraffare di nuovo.

Avrei voluto dirle che con me non ne aveva bisogno di fingere, a quel punto però mi sentì stupido per averlo anche solo pensato, mi resi conto che ad averne bisogno era proprio lei, era il suo modo per elaborare le cose. Delle volte ero fin troppo egocentrico.

«Dimmi» stavolta non mi voltai, rimasi lì fermo, in attesa delle sue prossime parole, che non tardarono ad arrivare.

«Grazie, per tutto, di nuovo» concluse e io realizzai che era bello sentirsi utile per qualcuno, mi sentivo appagato, come se stessi perseguendo un obiettivo importante. Non sapevo dire quando e come, ma farla stare bene era improvvisamente diventato il mio scopo.

«Smettila di ringraziarmi, è questo che fanno gli amici» la parola amici suonò un po' stridula tra le mie labbra, il nostro rapporto era così diverso da quello che avevo con Bellamy e Nathan da risultare strano classificarlo con lo stesso nome, eppure non ne trovai uno migliore. Le parole delle volte non bastavano per descrivere la realtà, la ingabbiavano, incapaci di coglierne le sfumature.

«Buonanotte Athena» la salutai.

Non rimasi ad attendere la sua risposta, più passavo del tempo in quella stanza e più mi risultava difficile lasciarla, così decisi di scappare finché ero in tempo.

Emily mi aspettava in salotto, una stanza ampia e arredata in modo minimale, di cui il protagonista era sicuramente il grande divano verde in pelle collocato al centro, su cui lei si era appollaiata per ingannare l'attesa.

Non sapendo bene che fare alla fine scelsi di rimanere in piedi, avvicinandomi di qualche passo a quella che sembrava a tutti gli effetti una tigre pronta a scattare, una sola parola sbagliata ed ero sicuro che sarei finito tra le sue grinfie.

«Allora? Vuoi dirmi innanzitutto chi sei, e poi perché torni con mia sorella nel cuore della notte? Che le hai fatto? Credi che non abbia notato che aveva pianto? Parla o giuro che ti sgozzo». La vidi scaldarsi, le sillabe pronunciate rapidamente e le vene del collo gonfie ed evidenti non erano un buon segno.

Che caratterino, pensai, stringendomi nelle spalle nel tentativo di darmi un'aria più spavalda, più sicura di me, la verità era che me la stavo facendo sotto, quella minaccia non sembrava affatto metaforica.

«Io» sottolineai quelle lettere con un silenzio, «non le ho fatto nulla, non potrei mai, siamo amici» fu di nuovo strano definirci così, ma cercai di non farci troppo caso.

«Sono Dylan, tu dovresti essere Emily?» ma quella non si lasciò distrarre, scattando in piedi e parandomisi di fronte come a volermi sfidare.
Era quasi buffo perché, essendo alta come Athena, mi arrivava a malapena al mento, Emily però non sembrava curarsene.

«Non cambiare discorso bello, con me non funziona» sibiló, puntandomi un indice al petto.

Tornai a far roteare l'anello tra le dita, seppur in quel momento avrei gradito maggiormente una boccata di fumo, come potevo farle capire che eravamo dalla stessa parte? Che entrambi volevamo proteggerla?

«Emily, ascolta, sono sincero, ci tengo a tua sorella. Ma non posso dirti di più, le ho fatto una promessa, te ne parlerà lei quando si sentirà pronta» cercai di suonare deciso, tuttavia sotto il peso di quello sguardo indagatore risultó un compito assai più arduo del previsto.

«Athena prima di uscire mi aveva detto "ho un appuntamento", era con te?» rincaró la dose la maggiore, ora aveva lasciato tolto l'indice dal mio petto per lasciarlo ricadere lungo il fianco, sembrava che si fosse iniziata a calmare. Almeno lo speravo.

Athena aveva definito la nostra uscita un appuntamento, realizzai, non sapevo come prenderla ma quello non era il momento giusto per pensarci, così lo accantonai in un angolino della mia mente e risposi a quella domanda.

«Mai sentito di due amici che si danno appuntamento?» buttai lí, non trovando di meglio con cui ribattere.

«Non me la racconti giusta Dylan» mi avvisó, «Athena è strana ultimamente, ho come il sospetto che tu sappia più di quanto non dai a vedere». La luce del lampadario in cristallo gettava strane ombre sul suo volto ora che si era allontanata da me, aveva smesso pesino di fissarmi con insistenza, preferendo rivolgere la sua attenzione alla finestra, sembrava tutt'a un tratto sfinita da quell'assalto.

«Ti prego, non posso dirti altro» la supplicai come fa un bambino, «però tu stalle vicino, so che lo fai già, ma adesso ne ha più bisogno del solito» sperai di cavarmela con quella mezza verità.

Emily rimase gelata, intuendo il peso che nascondevano le mie parole, la vidi irrigidirsi e in quel momento mi ricordó tantissimo Athena, tra i suoi muscoli contratti tentava di nascondere le proprie emozioni proprio come avevo visto fare alla più piccola.

«Lo faró» sussurrò, come a rassicurare se stessa, capii che era arrivato il momento di andare, di lasciarla sola tra i suoi pensieri, così le augurai la buonanotte e sparì dietro il pesante portone in legno che custodiva le due sorelle.

Ora che ero di nuovo solo l'agitazione e la rabbia tornarono libere a scorrere tra le mie vene, diedi un calcio ad un idrante innocente lungo la via, facendo più male a me che a lui.
Ero frustrato dall'intera situazione, volevo fare qualcosa, sentivo il bisogno di fare qualcosa, ma in quel momento non mi rimaneva altro che attendere.
Le pareti sottili del mio monolocale sembravano stringermisi attorno, così corsi di nuovo fuori, buttandomi sui gradini d'ingresso, consumando due, tre, quattro sigarette, nel tentativo di calmare l'irrequietudine.

Rimasi piantato lì ad osservare le luci dell'alba, erano sempre un bello spettacolo, eppure quella mattina non furono di alcun conforto.
Avevo paura della potenza delle mie emozioni, non ero mai stato così preda dei sentimenti prima d'ora. Adesso invece mi si erano riversati addosso come una valanga e non avevo idea di dove iniziare per capirci qualcosa.
Tutto era maledettamente confuso.

Perché Athena mi faceva sentire così? Perché sentirla definire quella sera un appuntamento aveva smosso qualcosa?

*Angolino autrice*

Eccoci qui, nuovo anno nuovo capitolo!
Innanzitutto auguri a tutti, finalmente ci siamo lasciati alla spalle un anno buio come il 2020, nella speranza che questo sia migliore.

Cosa ne pensate di questo capitolo?
Lasciatemi un commento o una stellina se vi va.

A presto
-RNW

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