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Capitolo 8 • Sfogo

Athena's POV

Era stata una  bella serata fino a quel momento, una di quelle che anche volendolo con ogni fibra del mio essere avrei fatto fatica a rimuovere dalla mia mente, anche se in realtà credevo che mai avrei sentito il bisogno di dimenticarla.

Eravamo di nuovo sprofondati sui sedili sciupati dallo scorrere del tempo di quell'auto a cui lui sembrava essere particolarmente legato, lo avevo intuito dalla premura dei suoi sguardi e dalla lucentezza della carrozzeria azzurrina sbiadita sotto chissà quale sole di agosto. Quell'utilitaria nascondeva una storia, custodiva dentro chissà quale ricordo del ragazzo castano che mi sedeva accanto, mi ripormisi di chiederglielo prima o poi, quel genere di cose trovava sempre il modo di affascinare la mia curiosità.

Ero convinta che ogni oggetto raccontasse implicitamente molto del suo possessore, uno scorcio di vissuto congelato in un insieme di atomi inanimati.

Dylan era diventato improvvisamente silenzioso da che aveva ripreso a guidare, concentrato com'era sulla misteriosa meta da raggiungere, solo le nocche, percorse da vene fin troppo in rilievo e  leggermente sbiancate per la presa forse eccessivamente salda sul volante ne tradivano il nervosismo.

Sapevo che si stava impegnando per alleggerirmi l'animo appesantito dal dolore.
Avevo fatto caso a quanta cura avesse riposto in ogni dettaglio di quell'uscita al contempo semplice ma perfetta: mai una parola fuori posto, mi aveva rivolto solo sorrisi sinceri e sguardi complici, regalandomi un pezzetto di sé attraverso il racconto del suo passato. Odiavo ammetterlo eppure ci sapeva fare quel ragazzo all'apparenza comune, ma la cui rara profondità d'animo era stata in grado di fare breccia oltre il muro che mi separava dal mondo esterno.

A colpirmi furono soprattutto le sue ambizioni. La sua voglia di lottare senza alcuna paura di sacrificarsi erano d'ispirazione per una come me che, fino a quando Dylan non me lo aveva chiesto, pochi pensieri aveva riservato all'avvenire, concentrata com'era a vivere un presente incasinato.

Sentivo sotto la pelle una sensazione, come dettata da un istinto innato, mai sperimentata in passato,  qualcosa mi diceva che eravamo estremamente simili, due anime solitarie che si erano riconosciute l'una nell'altra come se si stessero osservando allo specchio. Era tanto strano quanto spaventoso, io delle emozioni non mi ero mai fidata, mandavo sempre avanti la mente, come un soldato in avanscoperta, lasciando il cuore un passo indietro, nel tentativo di proteggerlo.

Per questo facevo fatica a legare con le persone e all'infuori di Jade quelli che potevo definire amici li riuscivo a contare sui palmi delle mani anche se probabilmente mi sarebbero comunque avanzate due dita o più. Con Dylan era diverso, era tutto dettato dall'istinto, senza alcuna prudenza, sembrava che in quel frangente il mio cervello avesse deciso di mettere il pilota automatico, lasciando carta bianca al cuore, fidandosi delle sensazioni positive che emanavano quelle pozze smeraldine.
Sembravano scavarmi dentro, artigli affilati dal tocco leggero, che puntavano dritti alla parte di me che custodivo gelosamente in una teca di vetro, a riparo dalle intemperie.
Sembravano dirmi "tranquilla, qui c'è sempre bel tempo, non hai bisogno dell'ombrello".

Lo trovai strano da ammettere, eppure in sua compagnia mi sentivo più leggera, come se avessi di nuovo accesso a quella parte di me stessa che da quella sera era sparita chissà dove, nelle profondità del mio animo ferito, la parte serena, quella che d'impulso aveva risposto "sì" fregandosene delle conseguenze.

Fermò il veicolo nei pressi di quella che riconobbi essere la Baia, uno dei luoghi più magici dell'intera città, dove le acque docili del mare facevano da sfondo alle mura scarlatte del castello che sorgeva lí accanto.
Le guglie grigiastre erano illuminate dal tenue bagliore della luna, nascosta dietro sprazzi di nuvole blu in un cielo  stranamente avaro di stelle, sembrava uno di quei castelli usciti direttamente da un film della Disney.

L'attenzione di Dylan invece era tutta puntata sulla ruota panoramica, un ammasso di ferraglia bianca che si specchiava direttamente nelle acque, dove il riflesso delle mille lucine colorate che l'addobbavano si mischiava nel fragore delle onde che di tanto in tanto ne increspava la superficie.

Scese dal mezzo con un gesto aggraziato, che mai avrei attribuito a quel corpo così alto e robusto, venne di nuovo ad aprirmi la portiera, stavolta non ero stata colta di sorpresa, così ebbi la prontezza di ringraziarlo.

«Sei proprio un gentiluomo allora» scherzai, ma Dyl era sparito di nuovo, andando a rovistare nel bagagliaio, sentivo le sue mani frugare alla ricerca di qualcosa, che poco dopo stringeva in pugno sorridendomi non appena mi tornò accanto.

«Fa freddo Athena, ci servirà per riscaldarci» si giustificò non appena notò le mie sopracciglia sollevarsi interrogative alla vista della bottiglia di vino e della coperta che stringeva accuratamente tra le braccia.

Effettivamente non potevo dargli torto, la brezza marina rendeva l'aria umida, permettendo al freddo di penetrare più facilmente attraverso la carne, fino a giungere all'osso. Quasi come se il mio corpo volesse dargli ragione e tradirmi, dei piccoli brividi mi percorsero la pelle, facendomela accapponare. Non ero sicura però che dipendessero unicamente dal freddo.

«Allora è così che conquisti le ragazze tu, sei uno di quelli romantici» lo provocai senza sapere da dove venisse fuori tutta quella spavalderia, lui per tutta risposta prese a grattarsi la nuca imbarazzato, distogliendo lo sguardo dal mio volto, quando faceva così era ancora più tenero.

«No Athena, di solito le ragazze le conquisto in altri modi, qui ci vengo da solo, quando ho bisogno di pensare, è bello osservare il mare, è una cosa nuova per me» borbottò, sembrava quasi offeso da quell'affronto, come se avessi gettato giù il castello di carte che stava faticosamente cercando di costruire.

La Baia era pressoché deserta, come sempre durante questo periodo dell'anno, la gente preferiva la città in autunno e inverno, migrando poi qui insieme ai gabbiani, puntuale come un orologio svizzero nei primi giorni di marzo. Anch'io ci venivo assai poco, nonostante adorassi il mare era difficile da raggiungere con i mezzi pubblici e odiavo chiedere a Emily di farmi da taxi, per cui non persi tempo e immagazzinai con lo sguardo ogni dettaglio di quel luogo, perché chissà tra quanto avrei avuto la fortuna di rivederlo.

Dylan mi condusse verso sud, lungo la balaustra in ferro che delimitava l'area pedonale, finché non si fermò nei pressi di uno sprazzo di prato, su cui adagiò con cura la soffice coperta a quadri magenta e ocra, attento a lisciarla per evitare che sulla sua superficie si formassero delle pieghe.

Con un gesto teatrale mi invitò ad accomodarmi, gli anelli d'argento che gli ornavano le dita affusolate catturarono per un attimo la luce della luna, illuminando i denti bianchi del ragazzo lasciati scoperti dall'ennesimo sorriso.

Ci lasciammo cadere di peso su quella sistemazione improvvisata, ridendo di gusto quando maldestramente mi sbilanciai di lato e caddi con un tonfo, attutito dalla stoffa sotto di me.

«Allora sei uno di quelli che conquista le ragazze in discoteca, se le porta a letto e poi le dimentica il mattino seguente?» tirai ad indovinare, riprendendo il discorso che aveva lasciato cadere poco tempo prima, non erano affari miei, ma stranamente una parte di me era profondamente interessata a conoscere la risposta.

«Sei una che non si arrende eh?» sbuffò, mentre le mani erano impegnate a stappare quella bottiglia di vino bianco con gesti sicuri, come se lo avesse fatto centinaia di volte e forse era proprio così. Non ero una tipa da vino, ma non trovai il coraggio di rifiutare quando poggiò tra le mie mani il vetro freddo e verdognolo che conteneva quel liquido chiaro.

Bevvi un sorso. Non era così male, o forse era la presenza di quel sommelier a renderlo più gustoso del solito.

«Ti piace?» e non sembrava una semplice domanda di circostanza, il tono lasciava intravedere quanto ci tenesse alla risposta, così come il fatto che avesse lo sguardo puntato sull'orizzonte, dove cielo e mare si univano fino a rendere indistinguibili i contorni, impossibile sapere dove iniziava l'uno e finiva l'altro.

«Sì» bastarono quelle due lettere per riscuoterlo dai suoi pensieri, tornò a scrutarmi con quelle iridi rese scure dalla poca luce, ma in cui intravidi un bagliore di soddisfazione stagliarsi dietro tutto quel verde.

«È italiano, l'ho preso al ristorante mentre eri distratta» sogghignò compiaciuto, gli tirai un pugno scherzoso, giusto per farlo smettere di essere così... così Dylan, purtroppo però quel tocco leggero non sortì l'effetto voluto, perché le sue fossette tornarono a fare capolino su quelle guance ricoperte da un leggero accenno di barba.

Continuammo a passarci per un po' quella bottiglia, non avevo la più pallida idea di che ore fossero, eppure in quel momento non mi importava, né di Em né di tutto il resto, ero aggrappata a quell'attimo come un moribondo al suo ultimo respiro, incapace di lasciar andare via quella strana sensazione di benessere che si era impadronita di me.

Di sicuro era colpa del vino, tentai di rassicurarmi, non ci eravamo neppure sfiorati per sbaglio, eravamo dei semplici amici che condividevano un ricordo sulle rive del mare.

«Hai ragione, di solito funziona così» la sua voce roca ruppe quel silenzio idilliaco, ci misi qualche secondo per collegare le sinapsi e capire a cosa diavolo si stesse riferendo. Non gliene feci una colpa, aveva ventidue anni e pensava a godersi la vita e poi anch'io avevo avuto solo avventure da un bacio e via, sparendo prima che le cose si facessero troppo serie.

«Ti ho delusa?» sospirò dopo qualche altro minuto, non sapendo come interpretare il mio silenzio.

«No, ti capisco invece. Lo ammetto, anche per me è più facile così» buttai fuori, quella sensazione di somiglianza tornò a sussultarmi nel petto, simile allo sbattere d'ali di una farfalla, richiamando la mia attenzione. Questo parve sorprenderlo un poco, perché aggottò le sopracciglia cespugliose e ridusse gli occhi a due fessure, come se davanti si trovasse il più intricato dei misteri, ed era così in fin dei conti, neanch'io ero in grado di comprendermi, figuriamoci un ragazzo conosciuto da qualche giorno.

Sembrava volermi dire qualcosa, ma poi lasciò perdere, circondandosi le ginocchia con le braccia, nel tentativo di far affluire del calore in quelle membra intorpidite.

«Okay, sono pronta» asserì all'improvviso facendolo quasi sussultare dalla sorpresa, nessuno dei due ebbe bisogno di aggiungere altro a quella frase lasciata sospesa nell'aria gelata, entrambi sapevamo di cosa stessi parlando.

Come a farmi forza o confortarmi, un suo braccio si staccò da dal  corpo e si posò sulla mia spalla, annullando la distanza che ci separava, non lessi malizia in quel gesto così puro, mi ricordò a tratti Emily quando da piccola mi consolava dopo che mamma o papà mi avevano dato una bella strigliata.

«Inizi tu o preferisci che inizi io?» domandò cauto, muovendosi su quel terreno accidentato e pieno di buche.

«Tu» riposi, coricando la testa sulla sua spalla, il suo profumo mi invase le narici e persi tempo a imprimermelo nella mente.

Iniziò a giochicchiare con gli orecchini che gli pendevano dai lobi, facendoli tintinnare quando si scontravano tra di loro, ne aveva tre da un lato e due dall'altro, dello stesso colore degli anelli alle dita.
Lo sentí frugare tra le tasche del giubbotto, alla ricerca di qualcosa divenuto improvvisamente urgente. Estrasse con delicatezza un pacchetto di sigarette rosso e poi un accendino, non riuscivo a vederlo in viso, tuttavia percepì quando si bloccó, con la sigaretta stretta tra le labbra rosse.

«Ti conviene spostarti o i tuoi capelli sapranno di fumo» mi consigliò apprensivo, notai però che si era irrigidito dopo quell'iniziativa da parte mia e pensai che quella fosse solo una scusa per rimettere una certa distanza tra di noi.

Non ero però intenzionata a spostarmi, a meno che non me lo avesse espressamente chiesto, mi piaceva vederlo in difficoltà, era bello percepire che la mia vicinanza gli facesse un qualche effetto, almeno non ero la sola.

«Non mi importa» sussurrai con decisione, sentí la sua spalla abbassarsi e poi rialzarsi, come a prendere un grosso respiro, poi finalmente si accese quella sigaretta, un puntino rosso in mezzo a quel mare di oscurità.

«Okay, ora posso iniziare a dirti cosa penso» esordì, buttando fuori una nuvoletta di fumo nero e denso, pareva che la nicotina lo avesse calmato.

«Innanzitutto, lo hai detto a qualcuno?» riprese, scommetto che non fu sorpreso quando scossi lievemente il capo, i miei capelli finirono a solleticargli la pelle del volto.

«Come temevo. Non lo hai detto neanche a Jade?» mi stupí nel sentirlo nominare la mia migliore amica, dopotutto l'aveva incontrata solo per due minuti.
Scossi di nuovo la testa.

«Perché?» Prese un altra boccata di fumo, mentre con l'altra mano iniziò dolcemente ad accarezzarmi i capelli, quel tocco delicato mi brució la pelle.

Silenzio.

«Per fortuna che ne volevi parlare» il tono era calmo, ma tradiva un accenno di nervosismo, aveva ragione, come sempre, ma quella sensazione di benessere mi aveva abbandonato non appena avevo aperto di nuovo quella porta, dietro la quale si stagliavano solo ansia e paura.

«Non ci riesco» trovai la forza di dirgli, lottando contro le lacrime calde che minacciavano di tradire la mia fragilità.
Le sue dita mi afferrarono il mento, costringendomi a guardarlo negli occhi, non potevo più fingere, non riuscivo più a trattenermi.

Lasciai andare le prime gocce salate, lui non molló la presa, era difficile leggere le sue espressioni dietro quella coltre annacquata, ma mi sembrò tremendamente triste e allo stesso tempo arrabbiato.

«Ci hai provato almeno? Athena è una cosa seria, ignorarla non ti aiuterà di certo a fingere che non sia mai accaduta, lo sai» Eccome se lo sapevo, ci avevo provato con tutta me stessa nell'ultima settimana, ottenendo risultati nulli o addirittura controproducenti.

«Non starò qui a dirti che andrà tutto bene perché è una cazzata e non voglio mentirti» interruppe il contatto con la mia pelle e finalmente tornai a respirare normalmente, le sue dita poggiate su di me sortivano uno strano effetto, meno intenso però di quello che ebbero le sue parole.

«Ma devi reagire Athena, o tutto questo ti divorerà, sei forte» mi accarezzó una guancia e mi ritrovai a rabbrividire.

«So che puoi farcela» lo abbracciai, perché davvero non avrei saputo dirgli qualcosa senza scoppiare di nuovo in lacrime, volevo evitarlo, non mi sembrava carino inzuppargli la maglia di lacrime e moccio, sarei sembrata solo una bambina.

«Ehi» mi sussurrò all'orecchio piano, «ricordati che io ci sono».

Sembrava così sincero nel pronunciare quelle parole, era poco più di uno sconosciuto, iniziavamo ad essere amici forse, eppure lui mi aveva già assicurato che sarebbe rimasto, aumentando la stretta su di me, sottolineando coi gesti la portata delle sue parole.

«Grazie Dyl» gracchiai semplicemente, lì, stretta tra le sue braccia mi sentivo stranamente al sicuro, chissà da dove veniva tutta quella fiducia mi chiesi, stentavo a riconoscermi da quando ero con lui.

«Domani ti porto da un dottore» quelle parole furono una doccia gelata, che mi portò ad allontanarmi di scatto, come se la sua pelle fosse diventata di carbone ardente.
Lui mi afferró con decisione i polsi, puntando le iridi quasi completamente affogate nel nero delle pupille nelle mie: voleva assicurarsi che gli dessi retta.

«Sono preoccupato per te, e dovresti esserlo anche tu» ammise, senza smettere di fissarmi con insistenza, grattandomi ogni strato di pelle, fino a perforarmi l'anima.

«Non sai chi era Athena, non sai se ha usato o meno protezioni. Domani ti porto da un dottore, così ci dirà se è tutto a posto» ribadì, aveva di nuovo ragione, non avevo neanche pensato quell'eventualità, troppo presa a ricordare solo la brutalità del gesto, abbandonando in un angolo le conseguenze che avrebbe potuto portare.

«Io...» mi tremava la voce, perché tutto quel discorso mi aveva messo tanta paura, inquietudine di scoprire se mi fossi beccata qualche malattia per colpa di quello stronzo o se addirittura fossi rimasta incinta.
Scacciai con violenza quel pensiero dalla mente, non poteva essere, non anche quello, non avrei avuto le forze di affrontarlo.

«Ho paura Dyl» ammisi, cercando di tornare a respirare, ma la morsa che mi si era stretta nel petto me lo impediva, allora mi uscì solo un rantolo strozzato, il grido di agonia del mio povero cuore, gettato nel panico di nuovo.

Avevo gli occhi serrati e il capo nascosto tra le ginocchia, mi dondolavo ascoltando il rumore delle onde, canticchiando nella testa un motivetto pop per tenere a bada le urla che mi sconquassavano la testa, stavo decisamente impazzendo.

Avvertì le sue braccia cingermi di nuovo e non ebbi la forza di ribellarmi, neanche il suo tocco però servì a placare quell'inferno stavolta, ero caduta giù dal burrone sul quale ero rimasta precariamente in equilibrio e non trovavo appigli per risalire.

«Shhhh, te l'ho detto, ci sono io, qualunque cosa la affronteremo insieme, non ti lascio da sola in mezzo a tutto sto casino» mi portò sulle sue ginocchia, avevo ancora gli occhi chiusi, forse stavo sognando, forse era tutto un brutto incubo e io dovevo solo risvegliarmi.

«Domani ti porto dal dottore» ripetè, ma io non lo stavo più a sentire, nulla aveva più senso.

«Poi quando ti sentirai pronta ti porterò dalla polizia, ti terró la mano mentre lo dirai a tua sorella, non aver paura ti prego, ci saró io».
Se non fossi stata così intorpidita da quel mare di sensazioni che mi trascinavano giù gli avrei urlato quanto ero stata fortunata ad incontrarlo, invece scelsi di addormentarmi, cullata dalla sua voce gentile e dalle sue mani coperte di calli.

*Angolino autrice*
Nooo non ho pianto mentre scrivevo questo capitolo, nono.
Il dolore di Athena mi ha colpito così forte, sembrava quasi reale, spero lo sia stato anche per voi.

Come state? Grazie per essere passati❤️

P.s. La foto è stata scattata da me, Cardiff Bay è davvero un luogo magico, a fine pandemia correteci tutti!

~A presto
RNW

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