Capitolo 11 • Dottore
Dylan'POV
La villa che stavamo costruendo appena fuori dal centro cittadino stava lentamente prendendo forma, era ancora un ammasso di cemento grezzo e travi metalliche, eppure riuscivo già a immaginarmela finita: imponente e maestosa, con all'esterno un bel giardino curato in cui i figli dei proprietari avrebbero potuto rincorrersi guidati dalla spensieratezza tipica della loro età.
Io non ero mai stato un bambino spensierato, sempre troppo chiuso, troppo impegnato a leggere qualche libro o a lavorare con i miei per avere il tempo di giocare con i miei coetanei, persino con mia sorella era un evento raro.
Però sognavo anch'io di poter avere tutto questo un giorno: una bella casa, una moglie che mi amava e dei bambini. Credevo che la felicità fosse nascosta in cose come quelle, nella condivisione della quotidianità e nell'amore; perché infondo altrimenti che senso avrebbe avuto l'andare incontro al futuro..alla maturità e poi alla vecchiaia senza l'illusione di avvicinarsi all'essenza delle cose, alla gioia quella più pura, al benessere per il quale si fatica una vita intera?
Mia sorella Liv e i miei genitori mi dicevano spesso che ero diverso, che vedevo le cose da una prospettiva non comune, a cinque anni li tartassavo già di domande sul senso della vita, papà diceva che il senso della vita era il lavoro, perché esso nobilita l'uomo, mamma invece mi rispondeva che il senso della vita era la vita stessa, avere la fortuna di viverla in tutte le sue sfaccettature. Dopo vent'anni invece io ancora non capivo qual era il senso della mia di vita, era una cosa stupida forse, un problema inesistente nella realtà dei fatti, ma un angolino della mia mente caparbia e ostinata ancora la cercava una risposta a quel vecchio interrogativo.
A volte essere intelligenti era un dono ingrato, o semplicemente forse ero io ad essere difettoso, pensavo letteralmente troppo, questo a volte era un bene, altre invece non lo era affatto, ero troppo razionale per vivermi certi momenti, certe sensazioni senza il bisogno impellente di analizzarle, capirle a pieno.
Tipo adesso, tipo con Athena.
Era tutta la mattina che Bellamy e Nat mi stavano addosso rallentandomi sul lavoro, cosa che ero certo che a Rick non sarebbe piaciuta, quei due avevano notato probabilmente le miei occhiaie violacee e lo sguardo assente, o i gesti meccanici e distratti, o il fatto che mi agitassi ogni volta che mi suonava il cellulare pensando fosse lei. Non ci voleva certo un genio per leggermi dentro in quel momento, era come se un enorme cartello neon mi lampeggiasse sulla testa con scritto: "Sì, sto pensando a lei".
Per la prima parte della giornata riuscii a ignorarli rintanatomi al secondo piano dell'immobile, lo stesso in cui Rick stava ultimando la costruzione delle scale, sapevo che con lui nei paraggi mi avrebbero lasciato in pace, purtroppo però durante la pausa pranzo non fui altrettanto fortunato.
Mi ero sistemato in un angolo della mansarda, le gambe che penzolavano nel vuoto mentre addentavo il mio sandwich al formaggio e osservavo le nuvole muoversi e cambiare forma, era tutto così piccolo e tranquillo visto da lassù ed ero così immerso in quella quiete che non notai i passi pesanti dei miei due migliori amici che si facevano sempre più vicini.
«Tana per Dylan l'innamorato!» sghiganazzò Bell, beccandosi una pacca sulla spalla dal rosso.
«Non sei divertente Bellamy e io non sono innamorato proprio di nessuno» ribattei seccato, mi tormentavano con questa battuta da quando avevo raccontato loro di Athena, sembravano così sicuri dell'epilogo di quella storia, come se fossimo una cosa già scritta, una trama già decisa, banale e scontata.
Io non la vedevo affatto così, qualcosa in quegli occhi dorati mi suggeriva che non sarebbe stato semplice, che non si sarebbe lasciata andare, e poi neanch'io ero così sicuro di volerlo.
Stavamo bene insieme, tra noi c'era senza dubbio chimica, eppure avevo paura di varcare quel confine invisibile tra l'amicizia e l'amore, quello era un passo dal quale ero certo che non si potesse tornare indietro.
«Rilassati amico, lo sai che a noi puoi dirlo» Nat mi fece addirittura l'occhiolino con aria innocente, quel sorrisetto costellato da migliaia di efelidi che gli increspava le labbra lo faceva somigliare ad un ragazzino, nonostante i suoi ventisette anni infatti spesso i suoi modi e il suo aspetto lo facevano passare per un quindicenne. Un ricciolo fulvo gli cadde sulla fronte, lo scostò distrattamente con una mano, mentre con l'altra frugava nelle tasche della divisa in cerca dell'accendino.
«Eddài Dyl, raccontaci come vanno le cose, sappiamo che ci sei uscito ieri...» tentò ancora Bellamy, stavolta ponendo da parte il tono sarcastico, si lasciò cadere accanto a me sul bordo, iniziando a dondolare pigramente le gambe nel vuoto imitando le mie. Pochi attimi dopo ci raggiunse anche Nathan, soffiandomi sul viso una boccata di fumo che mi costrinse a tossire.
Cacciai anch'io dalle tasche il mio pacchetto mezzo vuoto e ne accesi una, quei due si lanciavano sguardi complici, nonostante il mio fosse puntato avanti riuscivo a vederli con la coda dell'occhio, quelli grigi di Bell erano leggermente socchiusi, mentre quelli cerulei di Nat riflettevano la luce del sole tingendosi di mille sfumature.
Seppur in quel momento stavano facendo gli insopportabili non riuscii a non apprezzare la loro insistente compagnia, il loro calore era diventato così familiare ormai per me.
«Sì, ci sono uscito, siamo andati a cena e poi alla Baia, abbiamo chiacchierato, non è successo niente» rivelai, catturando nuovamente la loro attenzione, non me li sarei scollati di dosso con il silenzio, quindi tanto valeva vuotare nuovamente il sacco. Era facile per loro averla vinta con me pensai.
«Bell, te lo avevo detto, mi devi cinque sterline» esclamò tutto contento il rosso, mentre l'altro ragazzo dai capelli color petrolio raccolti in un codino disordinato estraeva una banconota dal portafoglio e la consegnava svogliatamente all'amico.
Rimasi interdetto osservando la scena, un'ultima boccata di nicotina e poi lanciai giù il mozzicone, davvero avevano scommesso su una cosa del genere?
«Voi due siete davvero fuori, mi dite perché siete così accaniti su questa storia? Non è la prima ragazza con cui esco, perché vi comportate come se lo fosse?» volevo davvero sapere cosa vedevano loro da fuori, di solito non erano così presi dalla mia vita sentimentale, tutto questo starmi addosso sulla questione "Athena" era nuovo.
«Credi che siamo scemi? Non ti brillano gli occhi quando ci racconti delle ragazze che ti scopi il venerdì sera Moore, saremo anche due cazzoni, ma sappiamo riconoscere quando al nostro migliore amico interessa davvero qualcuna» fu Bellamy a parlare, il più piccolo tra i tre e allo stesso tempo il più maturo, eravamo un trio ben assortito in fin dei conti: lui era quello schietto e sincero, Nat era l'eterno ragazzino e io il nerd cupo e riflessivo, non ci mancava nulla.
«Ha ragione Dyl, è strano per noi vederti così, anche se non parli lo vediamo benissimo che questa storia ti sta cambiando» aggiunse il pel di carota.
«È passata poco più di una settimana ragazzi, state esagerando, avete guardato troppi film romantici mi sa» tentai di difendermi, ma eravamo due contro uno ed era un'impresa tutt'altro che semplice.
Il resto della pausa pranzo continuò su per giù su quella riga, riuscii solo verso la fine a spostare il discorso su di loro e sulle loro avventure amorose, ma tutto sommato non avevano nulla di nuovo da raccontarmi.
Bell aveva conosciuto una ad una festa qualche giorno fa, erano finiti a letto insieme e il mattino seguente erano entrambi tornati alle loro vite, Nathan non usciva con nessuna da un po' invece e in generale non ricordo che abbia mai menzionato nessuna ragazza. Era convinto che le relazioni non facessero per lui e poi a detta sua non voleva farci concorrenza o tutte le ragazze della città sarebbero cadute ai suoi piedi. Sapeva essere davvero narcisista quando ci si metteva.
Alla fine si congedarono con una pacca sulla spalla e la promessa di uscire a bere qualcosa insieme quella sera stessa, ognuno tornò alle proprie mansioni, a me toccò dare una mano a Rick per ultimare la cucina, le sue continue cazziate su quanto fossi lento e impreciso mi aiutarono a distrarmi, ma alla fine decisi lo stesso di scriverle, così con una scusa mi allontanai dal mio capo e digitai il messaggio.
Mi giustificai con me stesso asserendo che avevo promesso di portarla da quel dottore, non le avevo certo scritto perché avevo voglia di vederla, mi ripetei nella mente.
Chi volevo prendere in giro? Di certo il mio cervello lo sapeva benissimo che era per quello infondo.
Il perfezionismo di Rick non mi aiutò ad arrivare puntuale da Athena, la campanella doveva essere già suonata da dieci minuti quando parcheggiai nel vicolo costellato di querce la mia vecchia utilitaria. Mi presi qualche secondo per ammirare lo spettacolo davanti ai miei occhi: era la magia dell'autunno che colorava di vermiglio, arancio e ocra il vialetto che conduceva al liceo. Mucchi di foglie accartocciate ai lati degli alberi possenti ormai rimasti quasi nudi, le colline in lontananza ormai brulle e nascoste da una nebbia sottile che iniziava a calare sulla città da ovest, il profumo della panetteria lì accanto che si sprigionava nell'aria; era tutto così bello che avrei voluto conservarlo come un'instantanea tra i ricordi.
Mi avvicinai di qualche passo, le speranze che fosse ancora lì ad aspettarmi non erano molte, qualche gruppetto di studenti ancora chiacchierava davanti all'ingresso eppure di Athena non c'era traccia, probabilmente si era stufata di aspettarmi e se ne era tornata a casa, mi ero scordato di avvertirla nella fretta di arrivare qui.
Dopo qualche incertezza però l'attenzione delle mie iridi venne catturata da una figura accovacciata accanto ad una delle querce, tra le mani stringeva un foglia color miele, i polpastrelli ne tracciavano il contorno e le sue iridi erano perse a studiarne ogni dettaglio, i capelli neri si muovevano a tempo con la musica che probabilmente stava ascoltando dagli auricolari che le pendevano dalle orecchie.
Imbambolato stetti lì ad osservarla, le mani infilate nelle tasche del cappotto e le labbra tirate in un sorriso involontario, ero come inchiodato sul posto, era bello vederla così assorta, così assente e allo stesso tempo era come se la sua fosse l'unica figura a fuoco tra tutte, l'unica che valesse la pena guardare.
I suoi occhi alla fine notarono i miei, la vidi alzarsi velocemente, spolverandosi con cura i pantaloni neri dai residui di terriccio, poi mi si avvicinò alzando gli occhi al cielo, forse tentava di sembrare autorevole ma a me parve solo più tenera.
«Di solito, caro Dylan, cono le ragazze quelle in ritardo» mi rimproverò. Sghignazzai in risposta, trovai buffo il tono che aveva utilizzato.
«Scusami A, ho fatto tardi a lavoro» la guidai nel parcheggio, sbloccando la serratura del mio veicolo, le aprii addirittura la portiera, una cosa che vedevo fare solo nei film. Mi era sembrata una buona idea, un gesto carino, eppure lei scoppiò a ridere coprendosi le labbra con la mano pallida.
«So aprirla da sola la porta Dylan» mi riprese, facendomi diventare leggermente rosso per l'imbarazzo, alla fine mi limitai a grattarmi la nuca ed entrare nell'auto, non avrei saputo cosa risponderle, ma fu lei stessa a riprendere quella conversazione una volta che si fu accomodata sul sedile del passeggero.
«Scusami, sono la solita cafona, era un gesto gentile da parte tua» si scusò, nel frattempo cercava di trovare qualche bella canzone alla radio, a quanto pareva però a quell'ora offrivano solo canzoni rock oppure vecchie melodie popolari, rassegnata dopo parecchi minuti la spense sospirando.
Il giorno prima avevo cercato su Google qualche buona clinica in zona che facesse al caso di Athena, alla fine mi ero imbattuto in un consultorio pubblico a mezz'ora di distanza da lì, la dottoressa Charles sembrava una tipa in gamba e sperai che non fosse portatrice di cattive notizie.
Athena era parecchio agitata, tamburellava un piede sul tappetino ed evitava come la peste qualsiasi mio tentativo di avviare una conversazione, potevo capirla benissimo per cui mi limitai a guidare per il resto del tragitto che ci separava dalla nostra meta. La sentì sospirare un paio di volte e cerai di non farmi beccare quando mi giravo a osservarla.
La clinica era un edificio di modeste dimensioni, aveva l'aspetto di un comune ospedale di provincia, le mura grigie, la moltitudine di finestre tutte uguali, quell'aria asettica e fredda che contraddistingueva quei luoghi. Spensi il motore, Athena era ormai un fascio di nervi, le afferrai una mano tra le mie, era freddissima e tremava leggermente.
«Vedrai che andrà bene, non preoccuparti» tentai di rassicurarla, ma lei si ritrasse di scatto, scuotendo la testa.
«Non dirlo, non puoi saperlo Dyl» sospirò triste, aprendo poi la portiera e uscendo in fretta, forse temeva di poter cambiare idea se non si fosse data una mossa.
La imitai, mi aveva chiesto di rimanere in auto ad aspettarla, infatti mi ritrovai le sue iridi dorate che mi fissavano interrogative quando le afferrai di nuovo la mano e vi depositai sopra un leggero bacio.
«Ti ho promesso che non ti avrei lasciata da sola Athena, non scherzavo» Affermai sicuro, conducendola all'interno di quello stabile.
Lei si limitò ad annuire, poi trovò anche la forza di ribattere.
«Okay, facciamolo».
Continua...
*Angolino autrice*
eccomi qui tornata con un nuovo capitolo, che ve ne pare?
Dylan è proprio un tenerone, mentre Athena al momento è assorbita dalla visita imminente.
lasciatemi un commentino se vi va, a presto
-RNW
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