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More Than a Feeling

L'addetto alla porta d'entrata del silo passeggiava distrattamente avanti e indietro, mentre la voce del Profeta gli riempiva le orecchie, il cuore e l'anima.

«Noi riporteremo il mondo a nuova vita» stavano dicendo gli altoparlanti, «noi risorgeremo dal fango in cui è sprofondato l'Uomo, e saremo qualcosa di più, qualcosa di nuovo».

L'uomo fece vagare lo sguardo sulle pareti e scoppiò a ridere. Era da un po' che non si faceva una dose, ma aveva le allucinazioni: gli pareva di vedere i fantasmi. Preso da una risata incontrollabile, inspirò rumorosamente e fu poi colto da un accesso di tosse. All'improvviso, i polmoni gli bruciarono come se vi fosse entrato qualcosa e, con gli occhi fissi e vitrei, cominciò a rovistare nella tasca della giacca. Ne estrasse una busta di plastica piena di polvere bianca, che lasciò cadere a terra, non contento del risultato. Quando finalmente trovò la chiave, si diresse con passo robotico verso la serratura idraulica che chiudeva l'ingresso al silo. Gli ingranaggi ruotarono, obbedendo al suo gesto, e la porta si aprì, rivelando le figure di due uomini in piedi e di un terzo, probabilmente solo svenuto, tra le braccia del più robusto.

Erano di fronte a lui, ma l'addetto alla porta non riusciva a vederli. Qualcuno lo colpì violentemente alla testa, e l'ultima cosa che sentì fu l'anima che se ne andava, fuggendo leggera dalle sue labbra.

«Mi stavo quasi abituando a riavere un corpo» si lamentò Marianne, uscita dall'uomo. Guardò verso di lui, storcendo la bocca, e si sentì in dovere di aggiungere: «Anche se non era poi un granché».

Lentamente, Ade cominciò a riaprire gli occhi. Prestare la sua magia ad un fantasma in modo che possedesse qualcuno era come prendere una sbornia colossale, compresi i postumi al risveglio. Non appena si rese conto di essere all'interno del silo, un sorrisetto di vittoria gli si dipinse in volto.

«In piedi» intimò bruscamente la voce di McClintock, che sperava che l'azione di quel peccatore non avesse macchiato anche lui.

«Prego» mugugnò lo stregone, alzandosi sulle gambe malferme. Quando riebbe almeno una parte delle sue facoltà, si guardò attorno: quattro rampe di scale, lisce e metalliche, conducevano in profondità, e a fianco erano chiaramente visibili i grossi cavi di un ascensore. Degli altoparlanti trasmettevano una nenia ripetitiva, un sermone in cui un uomo diceva che era il momento di "usare il farmaco per elevarsi al di sopra di Dio".

«Interessante» ridacchiò Locus, che stava esaminando qualcosa che teneva tra le mani.

«Cosa hai trovato?» chiese padre McClintock.

Il becchino si voltò sventolando la busta di plastica appartenuta alla loro vittima.

«Sto cominciando a capire che cosa fa qua dentro il nostro amico Maya».

«Che cos'è quella roba?» intervenne il prete.

«Come che cos'è? È la miracolosa Clanamina 500, non la riconosci?» ribatté Locus. Poi, notando il silenzio dei suoi compagni, aggiunse: «È droga, signori».

«Cocaina?» tirò ad indovinare Ade.

«No, polvere d'angelo» spiegò l'altro. «È una droga sintetica che causa, fra le altre cose, allucinazioni e comportamento violento. Credo che un po' tutti in questo posto ne facciano uso, compresi gli uomini che ci hanno rincorso e il cecchino che ci ha messo fuori uso il furgone».

«Come mai tu sei così esperto di sostanze stupefacenti?» domandò Marianne in tono sospettoso.

«Ho buone ragioni di credere» continuò Locus, ignorandola «che più che nella grotta di un profeta ci troviamo in mezzo ad un bel traffico di droga. Il capo costringe la gente a produrla e poi a consumarla, in modo che siano spinti a farne ancora».

«Quindi l'Apocalisse non è in pericolo» osservò McClintock, ingenuamente sollevato.

«Lei no, ma noi sì» continuò il becchino, caricando il fucile e cominciando a scendere le scale. «Dubito che il loro Profeta ci farà uscire facilmente da qui».

«Che brutta idea...» mormorò il prete, capendo che cosa aveva in mente l'amico.

«Ade, andate avanti tu e Marianne» ordinò Locus.

«Perché proprio noi?» domandò lo stregone, osservando gli scalini che scendevano nel vuoto.

«Già la gente ha paura dei tuoi teschi del cazzo, dei riti vudù e di robe simili. Figuriamoci quando è mezza fatta».

Non molto allettato dall'idea di trovarsi in un covo di tossicodipendenti, Ade sbuffò e cominciò a scendere.

Marianne si offrì per andare in avanscoperta e prese per prima la strada di sinistra. Alla fine di un breve corridoio, trovò quello che lei stessa descrisse come un laboratorio pieno di provette, dove almeno una decina di persone, con gli occhi allucinati e persi nel vuoto, si davano da fare per produrre qualcosa. Decisamente non era quello il luogo più adatto per irrompere. L'ambiente a destra, invece, era quello che una volta aveva effettivamente ospitato un missile di notevoli dimensioni. Marianne, per paura di essere individuata, diede un solo rapido sguardo all'interno, per poi tornare al di là della porta. Le uniche cose che riuscì a distinguere furono numerose piattaforme collegate da scale che scendevano verso il basso, in una spirale buia e vertiginosa che le parve infinita. Sempre più forte, la voce del predicatore continuava a ripetere le sue menzogne sulla salvezza di anima e corpo, cicliche e ipnotizzanti.

«Non mi sembra il posto adatto per uno scontro a fuoco» sussurrò la donna quando fu di ritorno, svolazzando attorno a Locus che se ne andava in giro pronto a sparare.

«Nemmeno per lo stronzo con il fucile da cecchino?» ribatté lui. Il suo tono tradì una strana eccitazione. Era come se desiderasse trovarsi faccia a faccia con colui che aveva fatto fuori il furgone, come una ragazzina che parlava in continuazione della sua cotta adolescenziale.

«È una scala infinita, come se scendesse all'Inferno» spiegò Marianne. «Se dovessimo trovare il vostro Lucifero, in fondo, sarebbe difficile cercare di ucciderlo con una pallottola».

«È il loro Lucifero» rispose il becchino, indicando con un cenno del capo McClintock. E non sarebbe nemmeno la prima volta che provo a sparargli, aggiunse mentalmente, mentre una risata udibile solo da lui usciva dalle canne del suo fucile.

«Ade» soggiunse poi, come se si fosse ricordato qualcosa all'improvviso, «mi regaleresti uno di quegli spilloni d'osso che ti porti in giro?».

«Certo» replicò lo stregone, confuso dalla richiesta, e gli diede l'oggetto richiesto.

Locus si tolse il cappello e lo porse ad Ade, poi si sciolse i capelli e cominciò a raccoglierli con lo spillone, mentre Marianne lo guardava ammirato.

«Molto meglio» annunciò, riprendendosi la bombetta. «Possiamo andare».

Padre McClintock, che avrebbe preferito fermarsi prima e tornare a casa, possibilmente per fare un degno funerale al suo furgone, trovò nel mazzo la chiave adatta per aprire la porta, e l'ultima serratura scattò davanti a loro.

«Alzatevi, e sorgete tutti dalle tenebre» diceva la voce del Profeta. «Portate il vostro seme nello sconfinato mondo distrutto e... salve, benvenuti».

Il repentino cambio di intonazione nella voce, che avevano creduto registrata, lasciò sgomenti i quattro improbabili compagni quasi quanto l'aspetto del silo. Qualcosa che Marianne, sola, non poteva aver notato trascinava il loro sguardo sempre più in giù, nella spirale infinita che pareva condurre al centro della Terra: erano centinaia di specchi, che restituivano altrettante volte, inalterata, l'immagine di tre uomini.

Un gruppo male assortito, pensò padre McClintock, mentre osservava nel riflesso davanti a sé il male e la violenza incubati nel fondo degli occhi di Locus, la risolutezza e la purezza in quelli di Ade. Per timore, non riusciva in alcun modo a guardare i propri.

«Chi sei?» domandò Ade, che di certo non si lasciava spaventare da una voce e da qualche immagine.

«Io sono, ragazzo» rispose la voce, dopo aver riso sguaiatamente. Il prete si morse le labbra, inorridito da quella bestemmia. (1)

Anche Locus ebbe una reazione, anche se molto diversa, a quelle parole: un ghigno compiaciuto e crudele gli deformò il volto, tanto che fu costretto a portare la mano a raddrizzare gli occhiali per nasconderlo. Non voleva che i suoi amici, e forse il Grande Fratello che temeva sorvegliasse quella stanza, lo notassero.

«E Colui-Che-Sono tiene molto a questi specchi?» cercò di provocarlo poi, puntando l'arma contro una delle pareti riflettenti. Era visibilmente inquieto, forse eccitato da qualcosa che coglieva solo lui: camminava sul vuoto e il senso dell'orientamento l'aveva abbandonato, tanto che temeva in ogni istante di mettere un piede in fallo e cadere in un baratro di cui non vedeva la fine.

Tutto ciò che la sua azione provocò fu un'altra risata.

«Io sono l'Oltreuomo. E voi non siete altro che una dolorosa vergogna, pronti ad arrendervi alla fine del mondo e retrocedere alla bestia».

Ade estrasse dal cappotto un pugnale, questa volta non d'osso ma di ferro affilato, e infierì violentemente contro lo specchio più vicino. Il vetro si infranse, restituendo allo stregone l'immagine di se stesso in un insignificante mosaico di cocci, togliendo un solo tassello all'infinita ripetizione.

«Quanto vi beate della vostra detestabile determinazione!» continuò il Profeta, quando McClintock, pur consapevole dell'inutilità del gesto, cominciò ad imitare l'amico, pugnalando un secondo specchio. «E quanto vi sentite grandi nel distruggere ciò che non può essere distrutto».

«Smettetela, è inutile» intervenne Locus che, accompagnato da Marianne, stava cercando di scendere le scale verso la base del silo. Sul volto aveva un sorriso amaro. «Non c'è nessuno qui dentro».

Fu grazie a quelle parole che tutti capirono di essere in trappola. Presto gli uomini nel laboratorio, richiamati dal loro Profeta, avrebbero trovato un modo per aprire la porta e ucciderli, oppure di chiuderla per sempre, in modo da far diventare quel luogo la loro tomba.

«Dove stai andando?» gridò McClintock, mentre la voce attorno a loro continuava a blaterare.

«A farlo stare zitto» rispose il becchino. «A quei quattro drogati penseremo dopo».

«Tu mi piaci» gli rispose il Profeta. La sua voce era sempre più vicina, Locus la sentiva quasi provenire da dentro di sé, vibrare nel proprio sangue e risuonare fra le sue costole.

«Tu invece non mi piaci nemmeno un po'».

Le braccia di McClintock e Ade, robuste e decise, arrivarono a sorreggerlo quando il suo piede mancò un gradino e lui rischiò di cadere nell'abisso di quel folle.

«Scusa» disse Marianne, consapevole del fatto che Locus stava facendo affidamento sui suoi occhi, meno abbagliati, per proseguire.

La donna, cercando di concentrarsi sulle immagini ripetute dei suoi compagni, fece saettare lo sguardo a destra e a sinistra, in modo da individuare le posizioni esatte degli specchi – e, soprattutto, i punti in cui non erano presenti. Ma vide qualcosa, in un riflesso, che non apparteneva a nessuno dei tre.

«Non preoccuparti» replicò il becchino, con insolita gentilezza. «Continua a farmi strada».

Marianne lo guardò, pensierosa, e quando riportò lo sguardo sugli specchi non trovò più l'immagine vista in precedenza. Eppure, era piuttosto sicura di aver scorto le sembianze di una bella donna, poco prima, che sembrava fluttuare all'interno del vetro. E la guardava, guardava proprio lei, e i loro occhi e la loro pelle avevano lo stesso colore.

O forse stava diventando pazza, sempre che un fantasma potesse impazzire.

In quel momento, per la prima volta da quando erano entrati nel silo, la scala sembrava avere una fine. In quello che identificarono come il livello più basso, notarono quello che parve a tutti un grande cubo. Dato il design generale della stanza, era probabilmente formato anch'esso da specchi, la cui parte riflettente doveva essere tuttavia rivolta verso l'interno della struttura.

«Allontanatevi» intimò loro la voce del Profeta. «Che cosa pensate di trovare qui?».

«Voglio solo morire in silenzio, se proprio devo farlo» ribatté Locus, dirigendosi a passi sicuri verso il cubo. La voce dell'uomo sembrava provenire proprio da lì.

McClintock, nervoso, strinse la tozza mano attorno alla croce e avanzò con Ade al fianco di Locus, come una guardia del corpo. Marianne li seguiva cautamente, solo all'apparenza inquieta per lo stesso motivo. L'aveva rivista, la donna che camminava dentro agli specchi, e questa volta, da più vicino, l'aveva riconosciuta.

La bella Erzulie si ergeva davanti ai suoi occhi pieni di timore religioso, e guardava, spostando conturbante le lunghe ciglia, ora Marianne ora uno specchietto che teneva nella destra, mentre una luce proveniente da chissà dove illuminava le tre fedi che portava alle dita.

«Ade...» provò a chiamare Marianne, ma la voce le morì in gola e non riuscì a raggiungerlo. Sentiva il collegamento mentale con lo stregone che pian piano si affievoliva, sostituito da un altro legame più forte.

Vieni, le disse il Loa Erzulie, sorridendo. Aveva parlato, ma le sue labbra non si erano mosse.

Così, Marianne, chiamata suadentemente dalla dea dell'amore, altrettanto dolcemente le rispose:

«Col cavolo!».

Poi si forzò a chiudere gli occhi, e li serrò il più possibile cercando di riportarsi alla realtà e al legame che la univa a suo nipote. Sentì la morsa di Erzulie affievolirsi e, quando si reputò fuori pericolo, sollevò piano le palpebre, sperando di trovarsi davanti l'ormai familiare silo.

Ce la fece. Davanti a loro si stagliava il cubo di specchi: era aperto lungo uno spigolo in modo tale che vi si potesse accedere, ma anche che non si capisse, dall'esterno, cosa vi si trovava al centro. La voce del Profeta finalmente taceva, ma era un silenzio che pareva compiaciuto, come se volesse invitarli ad osservare la sua opera con religiosa ammirazione.

«Chi entra in quel cubo» ricominciò poi, con tono grave e minaccioso, «vedrà raffigurata negli specchi la vera forma della sua anima».

La certezza di padre McClintock, di Marianne e di Ade, che fino a quel momento non erano stati in alcun modo intimoriti dalle parole del Profeta, all'improvviso vacillò. I loro occhi si cercarono istintivamente, tentando di capire se a qualcuno degli altri sarebbe piaciuto verificare se quello che gli era stato detto corrispondeva a verità. Ma avevano tutti – anche quella che era già morta – timore di vedere nella propria anima qualcosa di sporco e disgustoso, qualcosa che non avrebbero mai potuto dimenticare.

Mentre si fissavano, sentirono uno spostamento d'aria di fianco a loro. Locus aveva afferrato il fucile con una mano sola, e nell'altra teneva lo spillone che era stato nei suoi capelli, impugnandolo come un coltello da combattimento.

Prima che uno dei suoi compagni potesse avere il tempo di fermarlo, con una parola di monito o strattonandolo, Locus mosse i primi passi all'interno del cubo.

«Chi ti ha detto che puoi fumare qua dentro?» lo ammonì il Profeta, con tono calmo e distaccato.

«Suvvia, non so se ne uscirò vivo o meno. Le atrocità che mi mostrerai potrebbero uccidermi per lo shock, dopotutto. Lasciami almeno una sigaretta».

Mentre gli sguardi di Ade e McClintock erano fissi su quell'inespressivo cubo, e le loro orecchie impegnate a cogliere ogni parola che ne proveniva, Marianne si sentì strattonare per un braccio, come se fosse stata legata da innumerevoli fili. Si voltò bruscamente e vide le linee di un veve (2) ben conosciuto espandersi sullo specchio davanti a lei, come i fili di un'immensa ragnatela.

Vieni, vieni, la chiamava qualcuno dall'altra parte. E lei non poteva fare altro che avanzare verso lo specchio.

«Ade...» pigolò debolmente, mentre toccava il vetro.

Gli occhi chiari del becchino viaggiarono tranquillamente per le pareti della stanza, e si fermarono al centro. Una radiolina stava, sola, al centro di un piccolo tavolo di legno.

«Trovato» disse Locus, sorridendo e riponendo lo spillone. Non aveva particolarmente voglia di chiacchierare col Profeta per dare ai suoi uomini – e soprattutto a quel dannato cecchino – il tempo di raggiungere il silo, ma alla fine avrebbe potuto risultare divertente. Del resto, presto o tardi sarebbero morti tutti, no?

«Che cosa vuoi fare?» gli domandò la voce all'interno della radio, appartenente ad un uomo che udì distintamente il suono della sicura di un fucile che veniva abbassato.

«Te l'ho detto. Non mi piace che la gente chiacchieri di filosofia mentre muoio».

Inaspettatamente, il Profeta non ribatté e scelse di cambiare discorso:

«Che cosa vedi negli specchi?».

Locus alzò eloquentemente le sopracciglia e mostrò alla telecamera, ovunque essa fosse, un sorriso sghembo.

«Nulla» rispose con sincerità. «Nemmeno me stesso».

Gli specchi restituivano solo l'immagine di una piccola stanza vuota, con al centro un tavolino su cui era posata una radio dall'aria semplice e solitaria.

«Hai fatto molta strada da quando scavavi le fosse a Hillbridge, ragazzo. Chissà perché la tua anima non te ne rende conto».

«Perché non c'è nulla in questi specchi, a parte la paura della gente» disse Locus, puntando il fucile contro la radio che aveva davanti a sé. «O forse» aggiunse con un tenero sorriso, mentre il suo dito premeva il grilletto, «perché io non ho un'anima».

«ADE!».

Il colpo esplose con fragore, mandando in mille pezzi la radio e causando un assordante fischio nelle orecchie di Locus, che portò infastidito una mano alla testa.

Lo stregone, che aveva sentito l'urlo prima dello sparo, si voltò allarmato, e non gli restò che osservare impotente la scena che si svolgeva davanti ai suoi occhi. Una mano dalle unghie laccate di rosso aveva stretto l'incorporeo braccio di Marianne, e la stava portando al di là dello specchio.

«Zia!» provò a chiamarla Ade, mentre i fili del veve di Erzulie Freda parevano avvolgersi ovunque, tracciando serpentine a forma di cuore.

Marianne urlò un'ultima volta, poi più nulla.

1. Il prete interpreta questa frase come una bestemmia perché nella Bibbia (Esodo 3,13-15), quando Mosé chiede il nome di Dio, gli viene risposto "io sono colui che sono". Alcune interpretazioni ritengono che "Io Sono" sia uno (o l'unico) dei nomi di Dio.


2. È un simbolo legato ad una divinità vudù, in genere usato durante i riti. Ogni Loa (spirito della religione vudù) ha il suo veve personale.

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