•ASYLUM•
(Tutte le piccole storie che pubblicherò sono frutto della mia fervida immaginazione notturna. Il nome del manicomio è preso in prestito dalla serie tv 'American Horror Story', poiché nel sogno il nome del luogo mi era sconosciuto.)
Sono stata in un ospedale psichiatrico.
Penso sia stata l'esperienza più terrificante della mia vita: non era pauroso, era moralmente schifoso.
Io non ero pazza, io non lo ero.
Vedevo le cose lucidamente, troppo vere per sopportarle.
Le stanze dalle pareti rovinate e cupe erano l'essenza dei pazienti del Briarcliff, ma non la mia.
Vedevo risate solitarie e senza senso, persone che si perdevano nei loro pensieri perversi continuando a dondolarsi, avanti e indietro, avanti e indietro.
C'era altra gente che urlava, c'era chi si muoveva e parlava a scatti, quasi come se qualcuno mettesse pausa e poi riavviasse il loro cervello incessantemente.
I peggiori, però, erano quelli che apparivano normali. Pensavi di riuscire ad instaurare un dialogo con loro, pensavi che infondo li avessero rinchiusi in manicomio per sbaglio, proprio come era successo a te.
E invece no.
Quando la mie due uniche amiche, realmente sane di mente, sono state salvate dai propri genitori, che avevano capito di aver commesso un grande errore; io ero ancora lì e nessuno mi stava cercando, nessuno chiedeva di me. Dovevo almeno tentare di stringere amicizia con qualcun altro, altrimenti avrei rischiato di diventare realmente malata.
Ma no! No!
Io dovevo rimanere lucida, sana, perfetta.
Errore più grande non potevo commettere.
Quelle persone all'apparenza sane erano dei mostri, piccoli demoni che agli occhi di tutti sembravano gentili ed educati.
Bastava dire una parola sbagliata, bastava fare un gesto sbagliato e diventavano delle bestie umane.
Paonazzi in viso iniziavano ad urlarti contro, a minacciarti, a ridere e piangere nello stesso momento. Mettevano paura e sì, alzavano le mani.
Una di loro mi aveva graffiata e fatto sbattere la testa contro il muro più volte, avevo quasi perso coscienza.
Per cosa?
Perché le avevo chiesto se il suo bambino era nato prima e lei, beh, non voleva che suo figlio fosse diverso dagli altri.
Oramai ero sola, ero sola con me stessa.
Quell'atmosfera stava entrando pian piano dentro me: ero diventata sempre più silenziosa, più scontrosa, più diffidente.
Mi guardavo intorno impaurita come se fossi... pazza.
Io, io non potevo fare la loro stessa fine. No, non potevo.
Andai a parlare con le infermiere, le pregai di testare in qualunque modo il mio stato mentale: ero disponibile a tutto.
Le ripetevo di non essere fuori di testa, ero normale, assolutamente normale.
Avrebbero potuto chiederlo alle amiche che ormai erano andate via, avrebbero potuto domandare loro come ero.
Di loro avrebbero potuto fidarsi, ma non l'hanno fatto.
Mi rispondevano indispettite che tutti i pazienti dicevano la stessa identica cosa e, una volta finita la ramanzina mi sbattevano in isolamento.
Creavo troppa confusione, a parer loro.
Oramai le medicine mi stavano offuscando la mente, non riuscivo neanche ad alzare gli angoli della bocca per far comparire un falso sorriso sul mio viso segnato dalla stanchezza, e dalle medicine.
Riuscivo a fatica ad alzarmi dal letto, ma i miei movimenti erano troppo lenti e confusi.
Vedevo tutto quasi come se fosse sfocato, le emozioni ed i sentimenti erano lontani, distanti chilometri e più dal mio corpo.
L'unico grillo che ha continuato a saltarmi in testa per tutto il tempo è stata la convinzione di non essere come loro, io ero normale.
Continuavo a ripeterlo ogni sera prima di andare a dormire, come una nenia, per non dimenticarlo.
Non ricordavo neanche perché mia madre mi avesse sbattuto lì.
Ah sì, ricordo invece. Lei mi odiava.
Ero troppo insolente per lei, non le piaceva quando le rispondevo a tono.
Così, realmente convinta che io avessi un problema mentale mi portò al Briarcliff.
Non potevo crederci: da quel giorno erano passati mesi e di lei non ne ho più vista neanche l'ombra.
Mentre vagabondavo senza meta incontrai il direttore dell'ospedale, un uomo alto, snello e dai capelli grigi come le mura di quel posto.
Mi ricordo perfettamente quel giorno, il dialogo che abbiamo intrattenuto.
Ero confusa, parlavo a strascichi, ma lui sembrava capirmi.
Gli dicevo che non ero pazza, che non c'è la facevo più a stare con gente così malata, mi doleva il cuore a vederli soffrire e ad immaginare che un giorno sarei potuta diventare come loro.
Lui mi guardava accigliato, ascoltando attentamente, poi sentenziò che i medicinali che prendevo fossero di un dosaggio troppo alto per me.
Così iniziai a prendere meno farmaci.
Mi sentivo più energica, la mente tornava pian piano sempre più lucida ed ogni giorno Marco, il direttore, veniva a intrattenere un qualunque discorso con me.
Diceva di credere davvero alle mie parole, aveva capito che non ero come i suoi pazienti, non ero malata mentale.
Registrò le nostre ultime conversazioni.
Dopo aver visto la mia cartella clinica disse che ero guarita.
Stavo per ribadire che non ero mai stata pazza, ma lui mi fece segno di far silenzio: stava registrando.
Dissi, allora, di essere contenta di aver raggiunto la guarigione, la vetta tanto agognata. Lui mi sorrise compiaciuto, presto sarei uscita di lì.
Mi venne a prendere mio fratello, l'avevo lasciato sedicenne ed ora era un diciannovenne con un auto fantastica.
Quanto tempo ero stata in quella prigione?
Non mi ero accorta che fossero passati anni, e non mesi.
Mio fratello mi confessò di essergli mancata parecchio. Diceva di aver provato più volte a venire a trovarmi, ma mia madre aveva lasciato il chiaro messaggio che io, ragazzina pericolosa, non potevo ricevere visite.
Lui non abitava più a casa di mamma, ammise di non sopportarla più.
Forse la pazza era lei.
Purtroppo doveva lasciarmi comunque a casa di nostra madre; mio fratello conviveva con la ragazza da un anno ed il suo appartamento era troppo piccolo anche per loro.
Il sole mi bruciò gli occhi. Era così bello, così reale.
Abbassai le palpebre e mi godetti quell'istante di libertà, poi salutai mio fratello.
"Trova subito un lavoro ed una casa, per favore Martina. Non voglio che tu rimanga con quella stronza, ti farà uscire pazza per davvero" si raccomandò.
Lo sorrisi rispondendogli che se non ero uscita fuori di testa in manicomio, nessun altro avrebbe potuto farmi perdere il senno.
Quando varcai la soglia di casa sentivo chiamarmi incessantemente dalla voce, ormai rauca, di mia madre.
Era in cucinone, con un sorriso sguaiato che incuteva timore ed un coltello affilato nella mano destra.
Urlò che non voleva avermi tra i piedi, che non aveva mai voluto avermi.
Mentre si gettò con forza su di me continuava a ripetere, più a sé stessa che a me, che doveva uccidermi, altrimenti le avrei rovinato l'immagine perfetta che si era creata in città.
Chi vorrebbe frequentare la mamma di una pazza?
Quando invece non capivano che i problemi mentali li aveva lei, non io.
Dovevo difendermi, dopo aver sofferto tanto non potevo morire così. Non per un mostro come lei.
Mi aveva graffiato più volte in viso e sulle braccia, ma per fortuna ero riuscita ad evitare i colpi più duri.
Stava per colpirmi in pieno petto quando, a sorpresa di mia madre, voltai il coltello nella sua direzione.
Era ad un millimetro dal suo cuore, potevo avvertire il suo battito accelerato ed i nostri respiri affannati.
La mia espressione era neutrale: non ero traumatizzata, non ero soddisfatta.
Sapevo che mia madre non ragionava troppo bene, solo non credevo sarebbe potuta arrivare a questo.
Ero piuttosto... delusa.
Un momento di distrazione fece sì che il coltello si conficcasse nel mio braccio, un urlo straziato uscì indomato dalle mie labbra. Un dolore lancinante annullò i miei sensi per un istante.
Ero accecata dal dolore, dalla paura.
Le strappai il coltello dalla mano, ma lei corse a prenderne un altro.
Non avevo scelta: la dovetti uccidere.
Le affondai il coltello in pieno petto prima che lei potesse colpire me.
I suoi occhi si spalancarono assieme alle sue labbra; quando cadde a terra l'idea di un sorriso malizioso apparve sul suo viso.
Biascicò qualcosa che non riuscii a comprendere a causa delle sirene della polizia.
Gli uomini in divisa buttarono giù la porta e solo allora mi resi conto che mia madre mi aveva incastrato.
Mi odiava talmente tanto da preferire la morte, a costo che io continui a soffrire in eterno.
Non opposi resistenza, per loro ero ancora pazza, non avrebbero creduto ad una sola parola uscita dalla mia bocca.
Mi portarono direttamente al Briarcliff.
Ero di nuovo fra quelle mura malate, sature di dolore, disperazione e pazzia.
Mentre salivo gli scalini dell'ospedale psichiatrico vidi il direttore che mi guardava deluso.
Una lacrima scese solitaria sulla mia guancia quando gli dissi: "Mi creda, non sono pazza."
♤♤♤
Nota autrice:
So bene quanto la storia sia apatica ma l'ho vissuta così.
Nel mio incubo era tutto così distante ed allo stesso tempo vicino e sofferente.
Spero solo non vi abbia inquietato!
Ah, e scusatemi per gli errori.
Un abbraccio,
Marty 🐾
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro