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Menis: dal greco antico, ira

"Achille, mio signore, svegliatevi: c'è un messaggero per voi!".

Achille aprì timidamente gli occhi impastati di sonno e vide davanti a sé il volto piccolo e la bocca vermiglia della sua schiava.

"Briseide, che cosa c'è?" chiese mettendosi a sedere.

"Mio signore, Antiloco di Pilo è qui per parlare con voi: porta notizie dal campo di battaglia".

"Patroclo" mormorò l'eroe alzandosi di scatto e cominciando a vestirsi di fretta.

Era rimasto tutta la notte e buona parte della giornata sveglio e all'erta. Aveva un pessimo presentimento, se lo sentiva nelle ossa, come se un dio lo volesse avvisare del suo destino. Si era maledetto mille e mille volte per aver concesso al suo amato di scendere in battaglia con le sue armi. Gli aveva promesso che sarebbe stato attento e che si sarebbe limitato al minimo indispensabile, giusto il necessario per infondere un po' di coraggio agli Achei; ma conosceva Patroclo tanto quanto se stesso e aveva paura per lui, temeva che si sarebbe fatto prendere dall'impeto della battaglia e che avrebbe combinato qualcosa, che gli sarebbe successo qualcosa. Non aveva intenzione di dormire se non ci fosse stato lui al suo fianco, ma alla fine la tristezza e il presentimento di una grande sofferenza avevano ceduto alla stanchezza di molte veglie e si era addormentato, suo malgrado.

"Fallo entrare, Briseide" ordinò alla schiava finendo di allacciarsi i sandali.

Quando Antiloco entrò nella sua tenda con l'elmo in mano e gli occhi bassi, si sentì come circondato da una schiera di nemici e lui era disarmato.

"Antiloco, figlio di Nestore", disse cercando di apparire tranquillo, "Quale messaggio mi portate?".

"Achille, figlio di Peleo, questo è un giorno funesto per i mortali, voluto dai Numi crudeli: una terribile sciagura è avvenuta sul campo di battaglia" esordì Antiloco, temporeggiando per trovare le parole giuste e temendo per il loro risultato.

"Parlate, vi prego" lo esortò ad andare avanti l'altro.

I nemici si facevano sempre più vicini, si sentiva assediato, voleva solo trovare una via di fuga. Strinse forte i pugni come per proteggersi, sentiva il suo cuore esplodergli nel petto. Un dio gli sussurrava all'orecchio che a Patroclo era successo qualcosa e Achille cercava in tutti i modi di farlo tacere.

"Patroclo, figlio di Menezio, è caduto in guerra".

Il Pelide si sentì come trafitto da mille e mille spade, il suo cuore si fermò.

Patroclo. Il suo dolce Patroclo. Patroclo era morto, riposava per sempre nei Campi Elisi. Il sole non avrebbe più illuminato i suoi occhi. Il vento non avrebbe più mosso i suoi capelli, non avrebbe più gonfiato la veste corta mentre correvano insieme sulla spiaggia terrosa. Il fuoco avrebbe presto distrutto per sempre il suo corpo. 

Calde lacrime iniziarono a scorrere sulle sue guance mentre restava immobile come un cadavere.

"Ettore, figlio di Priamo, il domatore di cavalli, ha inflitto il colpo fatale. Lo ha spogliato delle sue armi e ora le porta trionfanti".

Quelle armi, quelle maledette armi. Perché gliele aveva lasciate prendere? Perché gli aveva permesso di andare? Perché non aveva insistito affinché restasse?

"Achille, Patroclo è morto".

"Ho capito, Antiloco! Ho capito! Non serve che voi lo ripetiate di nuovo!" gridò per farlo tacere prima di uscire correndo dalla tenda.

Antiloco si fece da parte per farlo passare e poi lo seguì, temendo che potesse fare qualcosa di avventato in preda al dolore.

Achille prese alcune manciate di sabbia nera e si imbrattò i capelli e il volto e le braccia. Un urlo quasi animale squarciò l'aria e risuonò per il lido.

"Che cosa è successo?" chiesero spaventate le schiave accorse.

"Patroclo è morto", disse Briseide in lacrime, "Alzate grida di lutto, figlie di Ilio".

Le donne cominciarono a battersi il seno e a strapparsi le chiome, elevando i loro canti funebri al cielo. Ascoltandole, Achille cadde in ginocchio sulla sabbia. Patroclo era morto, era morto davvero. Il suo diletto, il suo amato, l'amore della sua vita era morto davvero. Patroclo era morto e con lui la sua parte migliore. Non poteva vivere senza di lui, non sapeva come vivere senza di lui accanto. Senza le sue carezze, senza i suoi baci, senza di lui che tirava fuori le sue virtù e amava i suoi difetti.

Intravide un bagliore tra i granelli scuri: una spada. Sì, la avrebbe impugnata, avrebbe raggiunto il suo compagno negli Inferi e lo avrebbe abbracciato di nuovo. Allungò una mano per afferrare la lama e tagliarsi la gola, ma delle braccia lo strapparono via, lontano dalla morte.

"Achille, il ferro non porrà fine alle vostre sofferenze! Non vi renderà felice!" gridò Antiloco cercando di farlo stare fermo.

"Antiloco, ditemi il nome di un eroe che è stato felice!", esclamò disperato il Pelide tentando di divincolarsi, "Eracle? Ha ucciso la moglie e i figlioletti! Giasone? Medea ha spedito il suo seme e la promessa sposa nell'Ade! Teseo? Il padre Egeo ora custodisce il nero mare! Edipo? I suoi incubi peggiori sono diventati realtà! Nessun eroe è felice, figlio di Nestore, nessuno! Tutti sono destinati a perdere la cosa più preziosa! Io ho perso la mia, ho perso Patroclo: dimmi, che cosa mi attende se non la morte?".

"Potrete scegliere per voi la sorte che più vi piacerà, ma non prima che la morte di Patroclo sia vendicata e che le sue spoglie abbiano ricevuto i dovuti onori" intervenne Briseide.

"Lui dov'è?" domandò Achille piangendo.

"Gli Argivi stanno ancora lottando per il suo corpo".

Con tutta la forza che aveva, il Pelide si liberò dalla stretta di Antiloco e si diresse verso il campo di battaglia. Una nuvola nera lo avvolgeva e negli occhi brillava una luce feroce e distruttiva: Atena lo rendeva terribile e glorioso nella sua ira funesta e nel suo dolore per mettere in fuga i Troiani. Avanzava disarmato tra i combattenti, non curandosi di calpestare i cadaveri dei caduti, dirigendosi verso un gruppo di eroi che combatteva attorno ad un corpo esanime: Odisseo, figlio di Laerte, re di Itaca, i due Aiaci, Nestore di Pilo e Menelao di Sparta respingevano i nemici che volevano appropriarsi dell'eroe defunto. Non appena videro Achille venire verso di loro come una belva feroce, spaventoso a vedersi sebbene senza elmo né lancia, gli Achei incalzarono con rinnovato vigore e i Teucri indietreggiarono sempre di più. Per volere dei Numi, il sole calò nel mare prima dell'ora stabilita, ponendo fine alla sanguinosa battaglia.

Gli Argivi si strinsero attorno ad Achille e Patroclo. Il Pelide osservava con orrore il corpo spogliato delle armi, imbrattato di sangue, il volto sfregiato, la lancia conficcata nel torace.

"Argivi, portate il corpo di Patroclo nell'accampamento, alzate per lui una pira, ricopritela di fiori e offerte per i celesti, elevate lamenti ai beati dei immortali: Patroclo, figlio di Menezio, è caduto in battaglia e ora riposa con gli eroi nei Campi Elisi" ordinò Odisseo riponendo la spada nel fodero.

Il suo sguardo si posò su Achille, sul più forte di tutti gli Achei, sull'eroe più intrattabile e spietato, che piangeva e fissava con occhi smarriti quello che rimaneva del suo compagno.



"Agamennone, figlio di Atreo, sono qui per parlare: dimentichiamo le ostilità del passato e diamo vita ad una rinnovata amicizia", esordì Achille con voce ferma e occhi rossi di pianto, "Sono qui per rinnovare i miei servigi: lotterò al vostro fianco per distruggere la rocca sacra di Troia e restituire a vostro fratello la bella Elena".

"Achille, figlio di Peleo, accolgo con piacere la vostra offerta", rispose l'Atride con ghigno soddisfatto.

"Una sola cosa vi chiedo, gran re: di uccidere con le mie mani Ettore, principe di Ilio".

"Ed io questo vi concedo: che il suo sangue possa placare il vostro dolore".

"Niente potrà mai placarlo, mio re".

Il silenziò calò nella tenda: gli schiavi non osavano nemmeno respirare; Odisseo e Diomede si guardavano dai lati opposti e si scambiavano occhiate complici che dicevano: "Il ragazzo soffre così tanto"; Nestore e Menelao, al fianco di Agamennone, osservavano la scena con la pietà nel cuore.

"Parlate così perché la piaga è ancora aperta: presto si farà la cicatrice e non soffrirete più. Fidatevi di chi ha seppellito una figlia" disse Agamennone con falsa cortesia.

"Voi avete sacrificato vostra figlia alla diva Artemide per avere un vento favorevole alla navigazione, io ho perso il mio amato in guerra: le nostre ferite sono diverse e non si rimargineranno allo stesso modo" concluse Achille con stizza prima di tornare nella sua tenda e prepararsi allo scontro della mattina seguente.



"Ettore" urlò Achille sotto alle mura di Troia.

Il sole era sorto da poco nel cielo ancora rosa e un silenzio tombale regnava sul lido.

"Ettore!" chiamò di nuovo.

Il Pelide si ergeva solo nella landa solitaria, le armi forgiate da Efesto nel grembo dell'Etna lo rendevano ancora più terrificante. Gli occhi erano pieni di rabbia e di odio: non erano occhi di un uomo.

"Ettore! Venite fuori e combattete!" tuonò.

Le porte di Ilio si aprirono e ne uscì un soldato con le armi di Achille: Ettore, il domatore di cavalli, il migliore tra i figli di Priamo, l'assassino di Patroclo. Avanzava esitante, il suo passo non era sicuro, il suo sguardo si volgeva indietro: sapeva di star andando incontro alla morte.

Achille scagliò la lunga lancia ed Ettore la schivò per un pelo, tagliandosi leggermente il braccio destro. Il principe Troiano lanciò la sua, ma un dio la deviò e mancò il colpo. Il Pelide rise come una iena, un ghigno agghiacciante si dipinse sul suo viso mentre sfoderava la spada. Ettore cominciò ad arretrare, spaventato da quella visione feroce.

"Combattete, codardo! Combattete!", gridò il principe di Ftia sferrando l'attacco, "Pagherete per quello che avete fatto: la vostra anima volerà nell'Ade e il vostro corpo verrà straziato, diventerà preda di cani e uccelli! Questo è il vostro fato, questa è la mia vendetta!".

"Siate umano, Achille piè veloce", lo esortò Ettore, "Abbiate rispetto per i morti: l'empietà non vi renderà né glorioso né felice!".

"Mi parlate di rispetto? Come osate voi, figlio di una cagna! Avete ucciso Patroclo e i voi Teucri, voi avvoltoi, vi siete accaniti su di lui, non volevate permettere che ricevesse gli onori che gli spettavano!".

L'ira furiosa del Pelide Achille esplose in tutta la sua grandiosa e rovinosa potenza: voleva uccidere quell'assassino, le cui mani erano sporche del sangue del suo amore. Nessuna pietà, nessuna compassione, nessuna esitazione, nessun rispetto gli erano dovuti. L'eroe scattò in avanti, gli trafisse l'addome e vide la vita che andava via dai suoi occhi.

"Achille, ora mi ricongiungo ai miei fratelli e alle mie sorelle negli Inferi, ma non passeranno molti giorni prima che anche il vostro corpo brucerà sulla pira funebre" profetizzò Ettore esalando l'ultimo respiro.

"Io sono già morto, figlio di Priamo: Patroclo era metà della mia anima, come dicono i poeti, lui era tutta la mia vita. Non importa se morirò oggi o domani o tra molti anni: il sole che brilla per i mortali ha smesso di splendere per me nel momento in cui lo avete sottratto ai suoi occhi. Quello che vedete non è Achille: è il suo fantasma".

Il migliore tra i Troiani provò a rispondergli, ma la voce rimase ferma in gola, le forze gli vennero meno e cadde a terra morto. Presto Achille lo spogliò delle armi e dell'armatura e si fermò a contemplare il cadavere del principe: continuava a guardarlo, ad osservare gli occhi spenti e la ferita sanguinante, sperando che quello spettacolo di orrore e morte gli desse un po' di conforto, un po' di pace. Ma la vendetta non era riuscita a porre un freno al suo dolore e alla sua rabbia: ormai fuori di sé, legò il corpo dietro al suo carro e frustò forte i cavalli affinché corressero. Sette volte percorse il perimetro delle mura di Ilio, sette volte passò davanti alle Porte Scee, sette volte intravide da lontano i volti di Ecuba e Andromaca, straziate dall'esito del duello e dallo scempio che il figlio, il marito stava subendo. Nell'infliggere sofferenza Achille dimenticò per un istante l'immagine di Patroclo disteso sulla pira funebre in mezzo ai fiori, il volto sfregiato ma sereno e tutte le ferite che gli erano state inflitte. Ma ben presto la tristezza e l'odio tornarono più forti di prima e, per quanto infierisse su Ettore esanime, non lo abbandonavano mai, anzi lo divoravano dall'interno consumandogli il cuore.



Le notti seguirono i giorni e nell'accampamento Acheo il corpo di Ettore era ancora esposto, pronto a ricevere ancora e ancora le atrocità di Achille. Il Pelide non riusciva a mangiare, non riusciva a dormire, si aggirava come uno spettro tra le tende e si accaniva sul cadavere con furia animale, nella vana speranza che questo gli potesse dare un attimo di pace. Ma la pace non arrivava: nella sua mente, si ripetevano ancora e ancora i bei momenti passati con Patroclo in tanti anni di vita condivisa. I pomeriggi estivi passati all'ombra di un fico, l'addestramento con Chirone, la prima volta che si erano baciati e la prima volta che erano andati oltre. Quando il suo amore aveva insistito per venire in guerra con lui per non lasciarlo da solo. Quando restavano un po' di più abbracciati sotto alle coperte. Quando si erano professati amore eterno, anche dopo la morte. Ormai l'eroe non vedeva più nulla davanti a sé, solo il buio, le tenebre più oscure, il Tartaro.

Una figura incappucciata entrò nella sua tenda a notte fonda, insinuandosi col favore del sonno e dell'oscurità.

"Pietà di me, Achille, figlio di Peleo! Pietà di un povero vecchio!" esclamò abbracciandogli le ginocchia.

"Chi siete voi che entrate in questo modo?" domandò turbato il Pelide.

"Sono Priamo, re di Ilio, l'uomo a cui avete ucciso molti figli e molte figlie" si rivelò il vecchio re togliendosi il cappuccio.

"Perché siete qui? Che cosa volete da me?" chiese il giovane infastidito.

"Non vi chiedo molto: rendetemi il corpo del mio amato Ettore affinché possiamo piangerlo e rendergli gli onori funebri" rispose Priamo inchinandosi ancora di più.

"No. Io non posso" disse Achille con voce rotta.

L'anziano re continuò a supplicarlo piangendo, si dichiarava  pronto a qualsiasi cosa pur di avere il cadavere del figlio. Il Pelide avrebbe voluto dimostrare fermezza e negargli definitivamente la sua richiesta, cacciarlo via, ucciderlo magari. Ma non ci riuscì: tutto di Priamo gli ricordava il vecchio padre Peleo, i capelli bianchi, la voce rauca, i modi ossequiosi e rispettosi di un'aristocrazia antica e ormai scomparsa. Chissà come stava suo padre, chissà se era ancora vivo, chissà se ogni giorno guardava il mare nella speranza che arrivasse una nave, un messaggero che gli comunicasse le sorti della guerra e del figlio tanto amato. Chissà se, dopo dieci anni, lo aspettava ancora, pronto sulla soglia ad abbracciare suo figlio, il suo erede, il suo caro ragazzo. L'eroe non riuscì  a trattenere le lacrime di commozione e le lasciò andare.

"Alzatevi, vi prego! Alzatevi!", lo esortò Achille aiutandolo a rimettersi in piedi, "Riavrete il corpo di vostro figlio. Darò ordini che vi sia consegnato al più presto".

"Grazie, Achille! Grazie!" sorrise il vecchio.

Era giusto così, anche lui avrebbe voluto che il suo corpo venisse restituito all'anziano padre e che ai suoi funerali fossero presenti tutti coloro che amava e che lo amavano. Non avrebbe voluto che questo conforto fosse negato a Peleo e non era giusto negarlo a Priamo. Ma Menezio avrebbe avuto solo la notizia della morte del figlio, le sue ceneri erano state già seppellite sulla spiaggia, vicino al mare. Patroclo meritava molto di più di un semplice tumulo di rocce, ma le necessità di guerra non lasciavano spazio a certe cose.

"Concedetemi due giorni di tregua per celebrare i funerali di mio figlio" supplicò ancora Priamo.

"Avrete due giorni per il vostro lutto, vecchio re".

Il sovrano guardò negli occhi quel nemico che gli aveva strappato via tanti affetti e si commosse nel leggervi dentro il dolore di una perdita enorme, un vuoto abissale nella sua anima.

"Gli dei abbiano in gloria i defunti. Gli dei abbiano in gloria voi, quando sarà la vostra ora, Achille" si congedò Priamo rimettendosi il cappuccio e uscendo dalla tenda.

"Gli dei abbiano in gloria voi, Priamo" sospirò l'eroe non appena rimase solo.



"Briseide!" chiamò Achille una volta ritornato in sé.

"Ordinate" disse Briseide.

"Comunica ai medici e agli uomini che si occupano delle esequie quello che ti sto per dire".

"Ascolto, signore".

"Quando morirò, facciano in modo che le mie ceneri siano deposte insieme a quelle di Patroclo".

"Ma, signore, la guerra sembra volgere al termine: perché credete che morirete proprio adesso? Perché questi pensieri?".

"Briseide, all'alba entrerò in quel cavallo e Ilio stanotte cadrà. Combatterò fino alla fine, darò fuoco alla rocca sacra di Troia e distruggerò quella città. Il mio destino è segnato da tempo ormai: ho scelto di morire giovane, ho scelto di morire da eroe. Sento che morirò proprio alla fine di tutto, quando avrò perso tutto quanto, quando avremo vinto la guerra. Per questo ti chiedo questo: voglio essere sepolto con Patroclo".

"Sarà fatto, signore. Ma, se sapete che l'assedio sarà la vostra rovina, perché volete fare una cosa così pericolosa?".

"Briseide, non sarà l'assedio ad uccidermi. La cosa più pericolosa per i mortali è l'amore: l'amore mi ha già ucciso, l'assedio porrà solo fine alla mia esistenza".

Briseide annuì con occhi tristi e fece per uscire, ma si fermò.

"Lo amavate molto, non è vero?" gli chiese esitando sull'uscio.

"Più di ogni altra cosa al mondo" le rispose iniziando ad indossare l'armatura.

"A pochi mortali i Numi concessero un amore così puro, così divino, così immortale".

"La morte e il tempo cancellano molte cose, Briseide, ma l'amore non è tra queste".

La schiava sospirò e lo lasciò da solo mentre prendeva l'elmo e la spada.

Achille uscì dalla tenda e si fermò ad osservare Aurora dalle dita di rosa che svolgeva il suo lavoro.

"Sto venendo da te, mio amore", sussurrò chiudendo gli occhi, "Aspettami alle porte dei Campi Elisi: prima che il sole sorga di nuovo sui mortali, noi due saremo di nuovo insieme".

Il Pelide indossò l'elmo e si incamminò con i suoi compagni verso il cavallo di Odisseo, verso la sua gloriosa e agognata morte, verso Patroclo: nella notte Thanatos crudele e la mutevole Tuche li riunirono per sempre negli Inferi.

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