Sei
Il mare ruggiva possente quella fredda mattina, sommergendo la sabbia del bagnasciuga, le conchiglie, i pensieri.
Quel rumore era l'unica cosa che le impedisse di impazzire e che al contempo riempisse la sua anima fredda e vuota. Sempre che un'anima ce l'avesse ancora.
Chiyo passeggiava sulla rena, trascinando le gambe come pesi senza vita mentre granelli insidiosi le si infilavano fra le dita dei piedi nudi, graffiando le piante e i talloni arrossati ed escoriati. Non avvertiva alcun male; il dolore fisico è nulla quando si muore dentro, lentamente e inesorabilmente.
Guardava dritto davanti a sé senza guardare in realtà da nessuna parte. Tutto ciò che sapeva era che non voleva voltarsi, vedere le baracche più misere di Kamakura alle sue spalle, avvolte dalla nebbia con cui i suoi occhi buoni a niente le avevano celato parte della realtà fin dall'infanzia. Se si fosse girata, non avrebbe potuto fare altro che uccidersi, gettarsi nella distesa salata i cui sputi trascinati dal vento le bagnavano il volto e i capelli. Pallida come un lenzuolo, debole come una malata, invisibile come un fantasma. Erano tre aggettivi che le calzavano a pennello, rifletté.
Avanzava a passi piccoli e silenziosi. Se avesse azzardato movimenti diversi, il basso ventre avrebbe ripreso a dolerle, a pugnalarla dall'interno e a prendersi la sua vendetta, ricordandole che era vuoto, freddo e ferito per colpa sua e che meritava di pagare, di scontare la sua colpa in atroci tormenti.
Ma cosa potesse esserci di più terribile della semplice consapevolezza di ciò che aveva appena fatto, Chiyo non avrebbe saputo dirlo.
Aveva pianto per tutto il tempo in cui era stata costretta sul lurido futon della vecchia levatrice, tra le macchie del sangue e delle lacrime che a decine vi avevano riversato prima di lei. Aveva strillato, scalciato, si era lamentata tanto che avevano dovuto ficcarle un cencio di stoffa sporca in bocca pur di placare i rumori. Più quella donna avanzava dentro di lei con il suo maledetto ferro ricurvo, più si pentiva della sua scelta, di essere lì, cercava di tornare indietro e di fermarla anche se ormai era troppo tardi. Sentire la mano uscire da dentro il suo ventre non era stato un sollievo, ma l'inizio del suo vero calvario. Aveva lasciato tutto nella baracca: gli ultimi soldi, la dignità, il proprio sangue. La lucidità. Ma non voleva pensare davvero a ciò che aveva veramente lasciato svanire, ciò che la levatrice aveva preso nel pugno e gettato tra le fiamme del fuoco acceso all'esterno della baracca.
Assassina.
Glielo gridavano la coscienza e il mare col suo ruggito, glielo sussurrava malignamente una voce dentro di sé che assomigliava spaventosamente a quella di Kogoro.
Assassina, assassina, assassina. Hai ammazzato il frutto del tuo stesso grembo.
Per quanto tentasse di resistere, non riusciva a scacciare quella voce perché, nel suo profondo, Chiyo sapeva che aveva ragione, e il rimorso per l'azione che aveva compiuto aveva già iniziato a perseguitarla. Solo una consapevolezza la stava salvando, la tratteneva dal togliersi la vita come l'aveva tolta al suo bambino.
Se era un'assassina, non era l'unica.
Chiunque l'avesse spinta a quel gesto era responsabile tanto quanto lei, se non di più. Aveva cercato in ogni modo di salvare suo figlio. Non chiedeva che nessuno la accogliesse e la aiutasse a crescerlo: le sarebbe bastato ricevere abbastanza denaro da poter tirare avanti qualche altra settimana. Stava già cercando un modo per lasciare la città e sperare che qualcuno, nelle campagne circostanti, non fosse a conoscenza del suo passato e le concedesse un impiego dignitoso.
Aveva chiesto il minimo indispensabile, ma come quando era bambina, tutte le porte le erano state chiuse in faccia. Nessuno voleva dare ascolto a una dannata puttana. Nessuno voleva saperne niente del bastardo che aveva generato, andassero in malora e perissero nelle profondità di Yomi-no-Kuni.
L'avevano avuta vinta, in un certo senso: l'avevano distrutta dall'interno. Ma che non si illudessero di essere innocenti. Erano anche le loro mani a grondare del sangue del suo piccolo e un giorno avrebbero risposto di quel crimine, se davvero, come dicevano, esisteva la tanto vaneggiata giustizia.
C'erano tante persone che odiava quasi quanto odiasse sé stessa.
Il nuovo erede dei Kanayama, tanto per fare un esempio. Aveva intravisto il ragazzo al funerale dell'uomo che aveva amato, ma di certo, da lontano, era stata in grado di identificare di lui poco e niente. Non si era nemmeno resa conto se somigliasse o meno all'uomo che l'aveva messo al mondo; la risposta negativa a quel dubbio, tuttavia, l'aveva avuta qualche settimana dopo.
Aveva fatto dei calcoli approssimativi ed era alla fine del terzo mese, quando si era inerpicata sulla collina che portava al cimitero dove avevano sepolto Kogoro. Quella camminata era stata uno sforzo rischioso, eppure non avrebbe saputo dove altro recarsi: da giorni, la disperazione la stava consumando, e soprattutto le scorte di cibo erano giunte al termine. Sentiva che recandosi nel luogo in cui la persona cui doveva tutto riposava del sonno eterno, forse lo spirito dell'uomo le avrebbe portato consiglio su cosa fare.
Non si sarebbe mai aspettata di trovare lì i suoi figli nello stesso giorno, alla stessa ora. Prima ancora di potersi avvicinare abbastanza da identificarne i volti aveva riconosciuto la voce della ragazza, che durante il funerale era tanto intenta a consolare il suo fratello maggiore. Chiyo sapeva che non era nata in quella famiglia, ma ogni volta che aveva il tempo di fermarsi a conversare con lei, Kogoro trovava il modo di elogiarne il buon cuore e l'educazione.
Purtroppo, nemmeno le maniere posate e gentili di quella fanciulla avevano saputo compensare la rabbia di cui era imbevuta ogni parola dell'erede dei Kanayama.
Le si contorcevano ancora le budella al solo ricordo degli insulti che le aveva rivolto. In ventiquattro anni da quando era venuta al mondo, aveva ricevuto tanti insulti. Prima da suo padre, poi dai suoi fratelli. Perfino gli uomini con cui era costretta a unirsi a letto per conservare un tetto sulla testa, nel bordello, amavano eccitarsi rivolgendole termini osceni e denigratori. Ma in nessun caso si era sentita così devastata. Forse era stata la gravidanza ad agitarla, o meglio, la consapevolezza che rischiava di non poterla portare avanti.
Ma se c'era qualcuno che Chiyo trovava ripugnante più di ogni altro, era quella strega. Come Kogoro aveva potuto unirsi e giacere con una tale vipera per Chiyo era incomprensibile. Aveva sempre parlato di suo figlio come un ragazzo disponibile e assennato; Chiyo non avrebbe mai dubitato delle sue parole, ma c'era una sola ragione per cui un giovane, che sicuramente conosceva il piacere carnale e la possibilità per un marito di avere altre donne, aveva potuto trovare così intollerabile la storia che lei aveva avuto con il defunto Daimyō. E c'era una sola donna che avrebbe potuto muoverlo a pietà a tal punto da istigare in lui sentimenti di odio verso colei che poteva averle recato offesa.
Ma c'era un altro motivo per il quale Kanayama-no-Chigusa era la creatura più disgustosa e velenosa che avesse incontrato.
Il giorno dopo aver incontrato i figli di Kogoro, si era risolta a fare ciò che aveva evitato fino a quel momento e si era nuovamente messa in cammino. Stavolta, la sua destinazione era proprio la tenuta dei Kanayama. Si era sottoposta ad ogni genere di umiliazione pur di ricevere ascolto; era andata davanti alla casa sotto la pioggia battente, al gelo, con le punte delle dita ormai viola, rischiando di dover amputare un arto. Si era inchinata fino a toccare il pavimento con il capo, aspettando per ore che qualcuno le aprisse, e quando una serva aveva accettato di portare il suo messaggio alla sua padrona, e l'elegante signora le era infine apparsa davanti, non aveva ricevuto in cambio che disprezzo.
"Sparisci" era stato ciò che le aveva detto ancor prima di darle la possibilità di spiegare il motivo della sua presenza. Chiyo non si era mossa. Non era disposta a cedere così facilmente.
Con il sandalo di legno che calzava, Chigusa le aveva sferrato un calcio sulla faccia. Se non fosse stata in quella posizione le avrebbe colpito il ventre.
Era stato in quel momento, spinta dalla paura di un nuovo colpo, che aveva confessato di essere incinta. Sperava che menzionare la presenza di una creatura innocente avrebbe fatto ragionare quella donna, dopotutto anche lei era una madre. Aveva alzato il volto, tremante, per osservare la sua reazione.
Saliva viscida e calda le era piovuta sulla faccia.
"Quello che mio marito ha fatto con una prostituta e ciò che ne è derivato non è cosa che mi riguardi. Vattene, prima che chiami qualcuno che ti cacci a suon di botte. Se mio figlio sapesse che sei qui, ti assicuro che non sarebbe affatto clemente. "
Se n'era andata e aveva chiuso il cancello. L'ultima speranza, svanita. L'ultimo baluardo di indecisione, cancellato.
Trascinando i piedi sulla sabbia, Chiyo singhiozzò e avvertì lacrime roventi e brucianti corroderle le guance. Perché? perché la sua vita doveva essere un simile ricettacolo di disgrazie? Perché d'un tratto il bambino del dolce uomo che amava era rimasto orfano prima ancora di venire al mondo?
Nessuno aveva amato lei, di questo era certa, ma quel piccolo meritava calore, affetto, vita. Persino il cuore più freddo avrebbe dovuto sciogliersi di fronte alla prospettiva di un innocente che rischiava di non vedere la luce. Quella donna era un mostro.
La spiaggia le sembrò infinita. Avrebbe potuto vagare in eterno lungo il litorale ingrigito dalle nuvole invernali, arrivare fino alla fine di Honshu e stramazzare finalmente a terra con le ossa ridotte a polvere e la forza per esalare un unico, ultimo respiro, raggiungendo suo figlio e inginocchiandosi al suo cospetto per chiedergli perdono, ammirando l'uomo possente o la splendida fanciulla che sarebbe diventato.
Invece, il suo cammino si arrestò presto.
Colpendo qualcosa con i piedi nudi, la giovane donna perse l'equilibrio e rovinò a terra. Sputando sabbia, si rimise a fatica in ginocchio. Laddove la levatrice si era insinuata con violenza, avvertì un dolore atroce che le tolse il fiato e sentì del liquido caldo colarle lungo la coscia. La vista -già bassa- le si annebbiò ulteriormente, ma non abbastanza da non permetterle di distinguere i contorni di ciò che l'aveva fatta cadere. Aveva ancora le mani posate sul caldo corpo di un uomo ben vestito, con hakama neri di stoffa pregiata e una camicia color grigio scuro, di seta. Era riverso su un fianco e le dava le spalle.
- State... state bene? - domandò con un fil di voce. Non ebbe risposta e si preoccupò.
Lo girò delicatamente e lo mise supino, in modo da controllare se fosse almeno vivo.
Fu sorpresa di scoprire i delicati lineamenti di un giovane che poteva avere la sua età; si trattava di un ragazzo di non oltre vent'anni, dalla pelle olivastra e i capelli spettinati e umidi. Il volto tradiva un'espressione stanca e sofferente, ma respirava ancora. Aveva la febbre e la pelle era imperlata di sudore.
- Per...per favore, svegliatevi... aiuto... aiuto...
Chiyo smise quasi subito di invocare aiuto. Chi voleva che la sentisse, se aveva a malapena le forze per restare cosciente?
Nessuno sarebbe mai passato per un tratto così solitario della costa a quell'ora, quando le barche erano già in mare e mancavano ore al rientro dei pescatori. Faceva freddo, perfino i bambini preferivano giocare vicino casa.
Non aveva possibilità di essere trovata e quel ragazzo, lo vedeva, non stava bene. Sarebbe morto assiderato se non lo avesse condotto al caldo.
Con le mani tremanti, gli sfiorò il viso liscio e gelido e si avvicinò per metterne a fuoco le caratteristiche. Un bellissimo ragazzo, dai tratti spigolosi e magri ma nel complesso armonici, al contrario di lei, il cui viso era tondo come una luna piena anche dopo che l'assenza di denaro e il terminare delle scorte le aveva fatto perdere così tanto peso da reggersi a malapena in piedi. Si morse il labbro. Che persona sfortunata, a dover riporre ogni sua speranza su una misera pezzente che si era appena sporcata le mani del sangue più innocente.
Non sentiva di avere il diritto su nessuna vita, ormai. La fiamma nel suo petto si era spenta. Eppure, Chiyo non voleva lasciarlo lì, sentiva di non averne la forza... e la voglia. La sua coscienza non avrebbe resistito a quell'ultimo gesto, ed era sinceramente interessata alle condizioni di quel giovane. Non poteva almeno concedersi quel desiderio anche se non lo meritava?
Forse no. Forse un simile capriccio non era giusto. Ma si caricò lo stesso quel ragazzo sulle spalle, rischiando di finire schiacciata sotto il suo peso a ogni passo, con il ventre che minacciava di darle un'ultima, definitiva pugnalata. Non lo meritava, non meritava nemmeno di essere ancora tra i vivi, ma Chiyo si autoconvinse che gli dèi avessero messo sul suo cammino quel giovane svenuto per darle un'altra possibilità. Per darle l'opportunità di salvare una vita in cambio di quella che aveva distrutto.
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