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Dodici

Piovve molto quel giorno. Una secchiata di acqua gelida proveniente dall'entroterra si abbatté su Kamakura verso l'ora del cavallo, inabissando la città in un pesante ed irrequieto sonno. Laddove vi era una pendenza, rivoletti schiumosi scorrevano rapidi lungo i lati delle vie, raccogliendo ogni sporcizia della città.

Chiyo si sentiva intorpidita, la testa le girava. Aveva consumato il suo ultimo pasto ore prima, dopo essersi svegliata da un sonno senza sogni, accovacciata in un angolo del tugurio in cui si rifugiava e che era appartenuto a suo padre, Hakuno.
Aveva occupato quel posto quando questi era spirato alcuni mesi prima. Il trasloco dal bordello a quella catapecchia non era stato facile.
Il vecchio pescatore l'aveva venduta lui stesso per rimandare di qualche mese la morte per fame, costringendola a guadagnarsi da vivere offrendo il suo corpo, a tredici anni. Con il denaro che il protettore gli aveva fornito, aveva sfamato i due maschi che otto anni prima gli avevano portato via la moglie, a causa di un parto gemellare; in un colpo solo aveva ottenuto una discreta somma e si era sbarazzato di una figlia femmina, bocca da sfamare che non poteva permettersi e che non gli avrebbe procurato alcun beneficio. Nel postribolo in cui l'aveva sbattuta, per pagare quel sudicio letto e due razioni di cibo al giorno, il suo padrone aveva preteso di prendersi tutti i soldi che i clienti le offrivano. Senza denaro, senza futuro e anche senza passato, Chiyo si era rassegnata ad appassire lì dentro; vi era rimasta per dieci anni.

Era lì che aveva incontrato Kogoro. Non aveva mai capito come un uomo così raffinato, un aristocratico, potesse avere interesse in una come lei. Una sera era entrato nel bordello con occhi spiritati e ben poca voglia di divertirsi con una donna: tutto ciò che aveva chiesto era di bere. Chiyo, che si trovava a servire sakè proprio in quel momento, gliene aveva versato finché non le aveva detto di fermarsi, finché le gambe non l'avevano retto al tentativo di imboccare la porta e far ritorno a casa. Il tenutario del bordello, che aveva assistito alla scena, si era avvicinato a Chiyo, bisbigliandole perentorio all'orecchio di condurlo nella sua stanza. "Non siamo una locanda" erano state le sue parole, "Se il signore ha scelto di fermarsi qui per la notte sarà ben conscio che non è un posto per dormire da soli".

Lei l'aveva condotto nella sua camera ricca di vergogna. Al pensiero di coricare un uomo di quella risma sul futon dove aveva giaciuto con così tanti altri era avvampata, temeva di contaminarlo. Kogoro aveva emesso uno sbuffo; era ancora sveglio. Recuperando un po' di forze, si era disteso da solo sul materasso sgualcito. Poi, l'aveva invitata accanto a sé.

Quella notte, non avevano fatto altro che parlare. Al contrario di quanto aveva insinuato il protettore, pareva che tutto ciò che Kogoro desiderava fosse di stringersi a qualcuno e riuscire ad alleggerire i pesi che portava sul cuore. Da tempo, aveva detto, aveva perso la serenità per vivere tranquillamente. Le aveva parlato con affetto dei propri figli, ma confidandole che nemmeno loro riuscivano a dargli la forza di trovare uno scopo. Chiyo non aveva mai fatto domande, per tutta la conversazione, perciò si era accontentata della frase esplicativa che lui aveva mormorato subito dopo. 

La mattina seguente, Kogoro aveva pagato come se avesse trascorso la notte godendo del suo corpo. Era tornato ogni settimana, da allora. Per un po', i loro incontri si erano svolti in modo analogo alla prima. Dopo alcuni mesi, pur non avendo mai intessuto relazioni che fossero durate più di qualche incontro fugace, Chiyo era certa di essersi innamorata. Cosa avesse provato Kogoro non l'avrebbe mai saputo per certo, ma in quello stesso periodo, anche il Daimyō aveva cominciato a desiderarla carnalmente e le aveva manifestato la volontà di portarla via da quel tugurio. Le aveva offerto di pagare per un luogo dove potesse vivere lei sola, senza farle mancare niente, promettendole che avrebbe continuato a incontrarla. 

Chiyo non si era chiesta perché non le avesse offerto semplicemente di portarla a casa come concubina; non serviva un grande sforzo a capire che per quanto potesse provare affetto nei suoi confronti, nessun Daimyō avrebbe portato al cospetto di una sposa e dei suoi figli una prostituta. Proprio in quel periodo aveva saputo della morte di Hakuno e aveva manifestato il desiderio di riappropriarsi della casa in cui era nata. Quando i suoi fratelli, entrambi diciottenni ed entrambi ansiosi di dividersi i ricavi della proprietà per sostentare le loro famiglie, si erano opposti violentemente alla cosa, era stato Kogoro a mettere a tacere la disputa, pagando a entrambi una ingente cifra perché rinunciassero a ogni diritto sull'edificio, e ve l'aveva sistemata premurandosi di fornirle periodicamente dei soldi per sostentarsi. La catapecchia aveva una sola stanza, due materassi così piccoli che lei, già bassa, ci stava a stento, e un'asse di legno tenuta in alto con un cumulo di paglia e coperta da una tovaglia bianca come kotatsu dove consumare i pasti. Un autentico schifo, ma a differenza del bordello lì godeva di un minimo di intimità. Poteva starsene sola con la propria ignominia, in pace. Ora ne avrebbe avuto ancor più bisogno. E invece, nel momento più doloroso della sua vita, Chiyo aveva deciso di ricevere il più strano degli ospiti.

Il giovane sembrava riprendersi e peggiorare a periodi alterni. Per la maggior parte della giornata di ieri era rimasto in un inquietante stato di dormiveglia, gli occhi mezzo aperti, steso sul giaciglio di fortuna che lei gli aveva procurato unendo i due materassi e riducendosi a dormire per terra, cedendogli anche le coperte. Non mangiava granché, ma Chiyo preferiva lasciargli gran parte del cibo che aveva, poiché lo meritava senz'altro di più e perché, ironia della sorte, aveva poco appetito dopo le copiose perdite di sangue causate dall'aborto. Il ragazzo non si muoveva molto, però parlava. Parlava, e per quello forse l'avrebbe preferito incosciente e in preda ai deliri della febbre.

Ora era steso supino, gli occhi sottili e vispi circondati da due mezzelune violacee. Del pesce gli avrebbe fatto bene, ma purtroppo non aveva nulla da offrirgli oltre a del riso scondito e alcune alghe. La convalescenza aveva messo in evidenza i lineamenti squadrati del viso ambrato, i capelli spettinati e leggermente lunghi gli sporcavano la fronte alta e liscia. Appena era stato in grado di conversare, la prima cosa che le aveva chiesto era il suo nome. Lei non aveva risposto. Nessuno sarebbe stato interessato a conoscere il nome di una puttana caduta in disgrazia, tantomeno sarebbe stato lieto di svenire e trovarsi nella baracca in cui si nascondeva: quando si fosse ristabilito se ne sarebbe tornato dalla società altolocata a cui, a giudicare dagli abiti, apparteneva, e avrebbe scordato quell'imbarazzante vicenda. Però, Chiyo gli aveva domandato quale fosse il suo.

- Dimmi – Shuya, così si chiamava, tossì. Bevve un sorso d'acqua dalla ciotola che la donna gli aveva posto accanto al letto. - Quanto tempo è che sono qui? A volte la confusione mi assale.

Lei si riscosse. Erano diverse ore che non udiva suoni umani. Credeva che l'uomo fosse ripiombato nel suo dormiveglia. Sebbene amasse parlare, non aveva spesso occasione per farlo, esausto com'era.

- Sette giorni. Ma vi state riprendendo. Presto potrete andarvene, non temete.

Si aspettava che Shuya sospirasse sollevato a quella prospettiva. Invece, il ragazzo si mise a sedere pungolandosi sui gomiti e la guardò.

- Sì, non vedo l'ora solo per non gravare ancora su di te. Mi vergogno a lasciarti dormire sul pavimento e a privarti del cibo.

- Sono io a vergognarmi di non avere altro da offrirvi che questo buco dimenticato dagli dèi - rispose meccanicamente Chiyo, lo sguardo fisso su un punto indefinito . - Per me non fa differenza.

- Una donna della tua età non dovrebbe vivere da sola. - Il ragazzo tossicchiò e fece per bere ancora, ma la scodella era vuota. Chiyo si alzò, dissimulando come poté il capogiro che la colse appena fu in piedi. Il ventre non le doleva più. Nulla le doleva più: tutto il suo corpo si era ridotto a un sordo e freddo pulsare. Non sapeva se ciò fosse un bene o un male, ma non avrebbe mai consultato un medico per saperlo; avrebbe rimesso il proprio destino nelle mani degli dèi, che seguitava a pregare per avere del tempo in più per prendersi cura del ragazzo. Si inginocchiò di nuovo davanti a lui per prendere la ciotola. Per la prima volta in quei due giorni incontrò davvero il suo sguardo. Subito abbassò gli occhi, piena di vergogna. Prima che si dirigesse al barile in cui conservava l'acqua, Shuya proseguì. - Sei una vedova? Non hai un marito, un fratello o un padre?

Strinse le dita ossute sulla ciotola, mordendosi il labbro. Di scatto, si alzò e si voltò.
Ricordi che aveva sepolto troppo in profondità per essere ritrovati cominciarono a riaffiorare. Le botte di suo padre quando lei aveva protestato alla rivelazione di essere stata venduta. La prima notte che aveva trascorso nel bordello, i seni circondati dalle mani di un uomo che aveva il triplo dei suoi anni, il bassoventre che aderiva al suo come in una perfetta composizione di Ikebana*, mentre lei tentava di non piangere per il dolore. Sentì il peso del bastone con cui Hakuno l'aveva percossa per costringerla a raccattare i suoi miseri averi e il dolore al polso per cui l'aveva strattonata per portarla nel luogo in cui avrebbe trascorso i successivi dieci anni. I suoi fratelli l'avevano rivista poche volte, quando era riuscita ad impossessarsi della casa paterna le avevano dato della cagna immonda e ne avevano sfasciato la porta, costringendola a patire il freddo finché non aveva trovato un falegname.
Kogoro forse aveva amato solo il suo corpo, ma era stato l'unico uomo che le avesse dedicato rispetto e conversato con lei, una povera ignorante. L'unico che l'avesse fatta sentire una persona.

- Una vedova... sì. Da poco tempo.

- Mi dispiace.

- Non è colpa vostra, non dovete dispiacervi.

- Sei ancora giovane, è naturale che mi dispiaccia. Hai perso chi amavi e probabilmente hai la mia età.

- Gli dèi hanno voluto così - tagliò corto Chiyo.

- Quel che dici è triste - osservò Shuya, mentre la donna compieva gesti meccanici e frettolosi per riempire nuovamente d'acqua il recipiente che aveva in mano. - Lo dici come se ci fossi abituata.

- Perché lo sono.

- So che sembra stupido dirlo, ma non sei la sola. Se può farti star meglio... è capitato anche a me. Conosco bene la crudeltà degli dèi.

L'espressione di Chiyo si intenerì nel vedere quel misterioso ragazzo steso su un giaciglio lurido, che cercava delle parole per consolarla. Era la seconda persona che aveva un pensiero gentile nei suoi confronti.

- Sono addolorata per la vostra perdita in questo caso... - Poi si bloccò. Per la prima volta da quando lo aveva portato a casa sua, provò un minimo di curiosità nei suoi confronti. - Era... una persona importante?

- La più importante al mondo, per me.

Shuya sembrava voler dire altro, ma in quel momento aprì a metà la bocca e restò immobile, con lo sguardo vacuo. La mano destra, che stava sollevando, ricadde inerte sulla coperta sottile. Un tuono rimbombò nella stanza.

- Shuya-sama! - trasalì Chiyo, prima che questi crollasse di nuovo. - State bene?

Gli occhi vitrei, Shuya riuscì ad annuire. 

- Sono solo un po' stanco.

- Riposate, allora. I vostri capogiri si stanno facendo meno frequenti, è un buon segno. Presto potrete tornare dai vostri cari. Vi lascio dormire.  Intanto vado a vedere se riesco a procurarmi del miso per farvi una zuppa. Sarà tardi, ma chiedendo casa per casa, forse qualcuno me ne cederà un po'...

Chiyo fece per alzarsi e racimolare gli ultimi spiccioli che le restassero, valutando di vendere qualche oggetto presente in casa pur di trovare del sostentamento al malato. Ma quando stava per dirigersi al baule dove conservava i soldi e i pochi vestiti, Shuya la chiamò.

-Aspetta... resta.

-Vi prometto che tornerò subito. Ma avete bisogno di sostentarvi, e se non mi sbrigo non troverò più nessuno dei vicini in piedi. 

-No-ripeté lui.- Davvero, non ce n'è bisogno. E' meglio che resti qui.

-Shuya-sama... perché insistete tanto? C'è qualcosa che non va, vi sentite male?

-Io me la caverò. Ma è meglio che tu non esca questa notte. Ultimamente sta diventando pericoloso. E proprio perché la pioggia ha dato tregua... non si sa mai cosa potrebbe accadere in strada.

*****

*Angolo autrice*

Salve a tutti! Ho pensato a lungo se pubblicare questo capitolo adesso o se collocarlo successivamente. Non avrebbe avuto troppa importanza ai fini della trama, ma ho preferito lasciarlo qui per concedere un po' di respiro ai lettori, visto che il capitolo Undici è stato bello lungo e pesante. I capitoli di Chiyo sono spesso più brevi della media e in questo modo avrei dato la possibilità di conoscerla un po' meglio e di scoprire che fine ha fatto Shuya, il grande assente che sta dando tanti grattacapi sia ai Kushieda che a Natsuko, sospettata di avere a che fare con la sua scomparsa.

Ci tenevo anche a dire che il prossimo capitolo potrebbe richiedermi un po' più di tempo. Ho ufficialmente terminato i capitoli della storia che avevo già scritto e dovevo solo revisionare. La bozza originale di Megami no Namida aveva preso una piega totalmente diversa da questa e di conseguenza da ora dovrò scrivere tutto ex novo, e... beh, a casa Hojo le cose non si mettono bene, se ricordate!
Spero di riuscire a scrivere il capitolo Tredici al più presto! Per ora so dire con certezza solo che scopriremo come se la passa Munetaka al suo interno.

Se vi andasse, lasciatemi pure un commento con le vostre impressioni finora (ogni tipo di opinione o consiglio è bene accetta!)

A presto, 
Kincha007

* Ikebana: una tradizionale arte giapponese che consiste nel realizzare composizioni floreali

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