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Un falso guardiano

 - Sibill, prepara il caffè.

- Subito Zante – rispose la voce elettronica dell'assistente domestico mentre io, ancora mezzo addormentato, arrancavo con i piedi fuori dal letto alla ricerca delle pantofole, in bilico tra il calore delle lenzuola ed il gelido contatto con il pavimento. Era un'operazione delicata, mezzo addormentato com'ero, con la vista annebbiata (complice anche il mio astigmatismo) e scarsissime energie, sufficienti appena a formulare una manciata di pensieri e a direzionare il piede nudo.

- Vuoi che ti ricapitoli gli impegni della giornata? - continuò Sibill, mentre inforcavo la prima pantofola con l'alluce per trascinarla da me.

- Sì, grazie, leggi pure - dissi, cercando con il piede la seconda pantofola.

- Benissimo. Stamattina, alle ore 11, "il Selvaggio verrà a portare i rifornimenti per il faro, stavolta fatti trovare con il libretto degli assegni o con i soldi contanti perché mi sono rotto il cazzo di portarti da mangiare gratis grande chef dei miei coglioni." 

- Veramente ho detto così? - mi domandai, riascoltando l'appunto. - Ah, no, lo aveva dettato direttamente lui – ricordai.

- Alle ore 12:30 "la solita cena con Katrina che è un appunto stupido da prendere visto che mangiamo insieme praticamente tutti i giorni". Alle ore 14:30 "escursione guidata alla grotta della sirena, stavolta preparato perché non devi più fare figure di merda per le domande dei bambini saccenti". Alle ore... - 

- Basta, cosa c'è ancora? - esclamai, sollevando anche la seconda pantofola. - Alle ore 20:00 "ti devi ricordare del falò sulla spiaggia, ci sarà un sacco di gente, è l'inizio della primavera."

- Ah, no dai, questo era decisamente il migliore. Sono finiti? - chiesi, seduto sul bordo del letto.

- Sì, questa era la lista di tutti gli appuntamenti della giornata.

Scesi dal letto e mi stiracchiai, fuori dalla finestra un tiepido giorno di sole si accendeva, oltre l'orizzonte, al suono della sinfonia dei gabbiani, le cui ali e i cuoi striduli richiami riempivano il vuoto lasciato dall'infrangersi delle onde sulla scogliera. Lontano, dondolanti sulle dune del mare, le barche dei pescatori trascinavano le loro lenze e le loro reti nell'azzurra profondità marina come facevano da secoli, raccogliendo i frutti del mare che presto sarebbero diventati cibo, prezioso carburante umano che aveva alimentato, anzi incendiato, la mia intera esistenza fino a pochi anni prima.

- Sibill, dimmi il meteo di oggi - dissi, iniziando a spogliarmi.

- A Termirini la temperatura è diciotto gradi celsius con cielo terso, per oggi non sono previste precipitazioni ma vento forte lungo tutta la costa con una temperatura minima di dieci gradi e massima di ventuno.

- Quindi una buona giornata, ottimo – risposi, infilandomi in bagno. - Buon venerdì Sibill.

- Buon venerdì anche a lei, signor Scilla.

Mi vestii con calma, inebriato dal profumo del caffè che permeava l'intero appartamento del faro. Jeans, canotta bianca, la mia camicia hawaiana preferita e prima di indossare le scarpe mi diressi in cucina dove mi versai il primo caffè della giornata.

Lo gustai con calma, alternando i sorsi alle onde del mare che perpetue schiumavano sul frangiflutti. Poco lontano uno stormo di ragazzini correva a destra e a manca trascinando grossi aquiloni colorati in alto, nel vento di ponente, per poi farli rimanere in cielo con parabole sinuose di cui io stesso non ero mai stato capace, neppure quando avevo la loro stessa età.

"Del resto, caro Zante, tu sei e rimani un terricolo" pensai, poggiando la tazzina vuota nel lavello. 

Uscii poco dopo, raccogliendo le chiavi dal cestino all'ingresso per andare dietro al faro, dove di fronte al piccolo museo marittimo già mi aspettava Katrina. Sedeva su una delle panche di cemento di fronte all'ingresso, composta e rigida, avvolta nel suo completo nero, rigorosamente con gonna sotto al ginocchio ed i capelli legati a coda di cavallo. Leggeva con il busto come proteso verso il libro tenuto all'altezza del petto ma appena mi vide mise via il volume e si alzò in piedi stirandosi la gonna.

Mi aveva sempre dato l'idea di essere una sorta di professoressa bacchettona, di quelle vecchio stampo fissate con l'etica e la morale. In realtà era addirittura più giovane di me, falso trentatreenne sbarazzino pieno di camice colorate e collanine da surfista.

In realtà sapevo poco o niente di lei, per lo più immaginavo, deducevo in base a ciò che mi veniva riferito da altri. Qualsiasi argomento riguardo la sua vita privata era un tabù, gli unici argomenti tollerati potevano essere o il lavoro o la vita quotidiana di Termirini.

- E' molto che aspetti?

- Me lo chiedi ogni volta e ogni volta ti ricordo che sarebbe buona norma se un custode si presentasse almeno mezz'ora prima dell'orario di apertura indicato - rispose, seccata, - anche se il suddetto custode è contemporaneamente tuttofare e proprietario del museo questo non lo esonera dall'avere delle responsabilità.

- Avanti, la gente non inizia ad arrivare mai prima delle undici e comunque sono sempre dagli zero ai due visitatori al giorno, essere fiscali sull'orario non mi sembra di massima importanza.

- L'orario è fondamentale, uno come te dovrebbe saperlo: non è solo forma. 

- Che cosa stai leggendo oggi? - dissi, ignorando la provocazione.

- Harlan Harrison, "non ho bocca e devo urlare".

Rimasi per qualche istante immobile, guardando l'espressione indifferente della donna slava con visibile stupore.

- Come hai detto scusa? - domandai, quasi cercando di convincermi di non aver capito bene.

- Non ho bocca e devo urlare più altri undici racconti brevi di Harlan Harrison, per la precisione.

- Perché?

- E' un grande classico - rispose lei, quasi con sufficienza. 

- Sì, un grande classico ma... guardati. Come puoi conciliare la tua personalità a queste letture.

- Il terrore dell'uomo rispetto all'avanzare delle intelligenze artificiali è un tema molto attuale che andrebbe analizzato con cura, Harrison è riuscito a fare questa analisi già negli anni 60, credo che basti quello per considerarlo una lettura appropriata. 

- Sei una donna veramente strana, Katrina, non so se riuscirò mai a capirti - sbloccai la porta. 

- E non sei tenuto a farlo - rispose, superandomi per dirigersi al bancone. - Ora, se non ti è di troppo disturbo, potresti fare il solito giro di controllo del museo, non voglio ritrovarmi di nuovo qualche chiglia ammaccata durante il giro di visite. Quelle della ditta di pulizie sono delle incompetenti. 

- Sarà successo una volta e sarà stato due anni fa, io non ero ancora subentrato.

- Due anni fa o un millennio fa non importa, quelle oche non conoscono l'importanza dei cimeli qui custoditi e puliscono ridacchiando mentre si scambiano emoticon con i loro ragazzi sul cellulare. 

La guardai di nuovo a metà tra il confuso e il divertito, due sentimenti che quella strana donna riusciva a scatenarmi sempre. 

- Katrina, hai una visione del mondo che meriterebbe di essere approfondita.

- Vai a fare il controllo che ti ho chiesto, in orario di lavoro non ci deve essere spazio per simpatie. 

"Simpatie" pensai, accendendo le luci del museo dal grande quadro generale. 

- Quanto è scoppiata - ridacchiai, addentrandomi nel museo. 

Vecchie ancore giacevano nelle proprie teche di vetro accanto a chiglie massicce, imbarcazioni oramai inservibili custodite lì a memoria del passato, strappate al vento, alla salsedine, dimentiche delle carezze delle alghe e dell'abbraccio dei cirripedi che mai più le avrebbero intaccate.

Remi, ancore, vecchi sestanti, bussole, antiche mappe nautiche. Ogni oggetto di quel museo, del mio museo, rappresentava un pezzo di storia del mare, di canti di uomini che viaggiavano tra le tempeste trascinando stive piene di merci e di uomini al di là del mare, verso coste selvagge, spesso pericolose e inesplorate.

Camminando in quelle sale a volte mi sembrava di sentir riecheggiare i loro vecchi canti, quegli "yohoho" che nella mia infantile mente avevo sempre ricollegato a pirati sporchi e puzzolenti stretti in una cambusa o a combattere sul ponte onde alte come montagne o prendere d'assalto altre imbarcazioni.

Spesso invece mi sorprendeva una sorta di malinconia e all'improvviso tutto ciò che mi circondava mi sembrava solo un pensionamento triste, forse il più triste in assoluto. Guardavo quelle barche, quelle vecchie chiglie restaurate che ora troneggiavano sui propri piedistalli e mi sembrava di percepirne la nostalgia: così vicine alle acque del mare, scroscianti e spumeggianti sugli scogli ai piedi del faro, eppure così lontani da quell'orizzonte mosso, da quelle canzoni marinare, da quel confine mutevole che collega acque e cielo.

Ogni tanto mi domandavo cosa avrebbero scelto loro, vecchi legni di un tempo passato, dove si navigava sospinti dalla forza del vento o dai solidi muscoli dei potenti pescatori, le cui nerborute braccia si abituavano fin dall'infanzia a spingere quei nobili gusci verso il largo, accarezzando la cristallina acqua marina con il piatto dei remi, sospingendo l'oceano per muovere le loro carene. 

Forse non tutte le imbarcazioni sognano di giacere in un museo, a passare il tempo nello scorrere indifferente degli occhi di distratti turisti. Forse avrebbero scelto di marcire sul bagnasciuga, di scomparire sotto le zampe dei fratelli gabbiani, di trasformarsi nella tana di crostacei fino a deteriorarsi del tutto, confondendosi un po' con la spiaggia e un po' col mare, con l'immenso elemento tanto navigato e amato, pronti ad incontrare i propri marinai per fare vela verso l'eternità.

- Mi sembra tutto a posto - dissi, tornando alla biglietteria. 

Katrina stava digitando qualcosa al pc con la sua capacità di fuoco di centodieci parole al minuto, una vera e propria mitragliatrice da tastiera che non mancava mai di sfoggiare durante le sue giornate lavorative.

- Ottimo, allora ci vediamo a pranzo - disse, senza smettere di scrivere.

- A proposito, oggi viene il Selvaggio con le provviste, hai preferenze per il pranzo? - domandai, sulla porta d'uscita.

- Aragosta e caviale - rispose lei.

- Non dovrebbe essere un problema visti gli incassi del museo, ma in alternativa, caso mai non li avesse, magari un pesce meno costoso, che ne so, una spigola. 

- Sì, ma se proprio non dovesse esserci altro - rispose Katrina, sempre algida, senza distogliere gli occhi dallo schermo.

Non capivo mai quando stesse dicendo sul serio o stesse scherzando, ma era anche per questo che mi piaceva stipendiare quella strana donna slava come unico membro del mio staff, era una giovane Morticia Addams prestata alla segreteria aziendale, una sorta di sinistra organizzatrice oscura che si introduce nottetempo nelle case delle proprie vittime per compilargli la dichiarazione dei redditi. 

Ridacchiai, sul filo di quei pensieri, mentre recuperavo gli attrezzi di pulizia e mi dirigevo verso la cima del faro, dove mi attendeva la manutenzione settimanale dei cristalli che mi avrebbe occupato il resto della mattinata in attesa del Selvaggio. Si trattava di eliminare eventuali insetti morti o ragnatele dall'interno della lanterna, controllare che i meccanismi funzionassero a dovere e ripulire tutti i cristalli. Era un compito tutto sommato noioso che però era riuscito a diventare il mio preferito soprattutto a causa della grande calma e dello splendido paesaggio che si poteva godere da lassù.

In realtà spesso neanche salivo lassù per lavorare, del resto una visita di manutenzione alla settimana era uno zelo fin troppo eccessivo che anche Katrina mi aveva più volte contestato, per cui a volte spazzavo via un pugno di mosche e mi fermavo lì per ore, a guardare le navi dondolare all'orizzonte ed i gabbiani prendere la rincorsa tra i venti per fiondarsi tra le onde, catturare un pesce guizzante e portarlo in alto, sulla scogliera, per godere del proprio pasto, dell'ennesima battaglia vinta per la guerra alla sopravvivenza. 

Quel giorno fu il suonare nevrotico di un clacson acuto a riportarmi alla realtà, involontariamente dovevo essermi addormentato mentre rimiravo l'orizzonte. 

Guardai l'orologio.

- Merda, le 11 e 10. Chi lo sente sto buzzurro - dissi, raccogliendo gli attrezzi per scendere lungo la scala a chiocciola della torre verso il piazzale antistante, dove l'apecar azzurra del Selvaggio mi attendeva accanto alla sua espressione contrariata. 

- Alla buon'ora. Neanche dettando i promemoria per te si riesce ad ottenere un po' di puntualità - mi sgridò. 

- Calmati Selvaggio, che fretta hai? 

- Pensi di essere l'unico in tutta la riviera ad aver bisogno di cassette? - mi domandò, aprendo il bagagliaio del veicolo. 

- Andiamo, siamo amici da una vita, non vorrai mica tenermi il broncio per qualche ritardo. 

- E qualche pagamento. Li hai i soldi?

- Ecco, in realtà, al momento io qui con me non ho proprio tutta la cifra che servirebbe...

Il Selvaggio mi guardò con gli occhi carichi di rabbia.

- Ma mi arriveranno un po' dei diritti del mio ultimo libro a breve quindi potrò pagarti tutto con gli interessi. 

- Con gli interessi? - mi domandò il Selvaggio. 

- Interessi che tu non mi farai perché sei un ottimo amico.

- E tu sei un grandissimo stronzo - disse, tirando fuori una cassetta di pesce, frutta e verdura dal bagagliaio. 

- Mi sbagliavo: sei un vero amico - sorrisi, prendendo la cassetta tra le mani. 

- E tu sei un grandissimo leccaculo – rispose lui.

Stavamo per salutarci quando una ragazza si avvicinò a noi trafelata, aveva lunghi capelli castani, occhi verdi e due treccine ad incorniciarle il volto. Sembrava molto giovane, poco meno di venticinque anni ed era molto bella.

- Scusate siete voi i responsabili del faro? - domandò con un accento straniero esasperato da una erre alla francese che rendeva la sua pronuncia in italiano particolarmente simpatica.

- In realtà è il grande chef qui presente - disse il Selvaggio, indicandomi. 

- La donna vestita di nero mi ha detto di rivolgermi a un certo Zano, no Zante, sì Zante. Ah è lei? - sorrise, - bene perché prima stavo guardando giù dalla scogliera ed ho visto una strana cassa galleggiare lì sotto. 

- Sì, sarà della spazzatura galleggiante, spesso capita che ne arrivi un po' sulla scogliera, ma la pulizia... - iniziai a spiegare.

- Sì ma da questa esce una mano - rispose la ragazza. 

- Una mano? - domandò il Selvaggio, strabuzzando gli occhi. - Ok, questa non me la voglio perdere. 

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