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Salsedine e zucchero filato


La mia infanzia, il rapporto difficile con mio padre, la cucina, il sottostare sempre a grandissimi chef, il diventare un grandissimo chef, il sottostare a critici e associazioni gastronomiche, Dalila, il nostro divorzio, Termirini, il faro, Katrina, il Selvaggio, la cassa. In quel momento, spingendo la porta del mio appartamento al faro con addosso lei, i suoi vent'anni scarsi, quegli occhi che sotto la luna diventavano ametista, mi sembrava che tutto ciò che avevo vissuto, tutto ciò che avevo affrontato negli anni, tutte le sfide e le vicissitudini non avessero fatto altro che prepararmi a quel momento, per prepararmi a lei, al suo respiro caldo, alle sue mani di seta, alla sua pelle che sapeva di salsedine e zucchero filato. 

Entrati nell'ingresso eravamo due correnti tropicali, una tromba marina che spostava i mobili, sconquassava gli armadi, esplodeva mensole e scaffali in cascate di libri, soprammobili, vecchi premi culinari, quadri che sbattevano violenti sul soffitto e le onde del mare, impetuose, che si scagliavano sui frangiflutti alzando spruzzi sempre più alti, in una sorta di disperato tentativo di raggiungere il cielo, di carezzare la luna.
Un attimo prima ci baciavamo nell'ingresso, scaraventando a terra scarpiera e attaccapanni, stringendoci e spingendoci in una risacca di passione. Un attimo dopo eravamo sulla porta della mia camera da letto, io che le sollevavo la maglietta baciandone le labbra e lei che mi strappava la camicia per graffiarmi il petto, per mordermi e poi baciarmi là dove aveva appena affondatoi denti.
Morea sul mio letto diventava una sirena, la mia sirena, distesa sopra flutti di lenzuola stropicciate io ero diventato il suo mare impetuoso, i miei baci diventavano flutti che le accarezzavano il corpo e la mia lingua diventava brezza lungo il suo collo e nello spazio caldo tra le sue cosce. Divina creatura, giovane dea ammaliatrice, innocente divoratrice di uomini dai capelli profumati, morbidi come carezza delle onde, caldi come il bacio del sole. 
- Ti rendi conto che ho più di dieci anni in più di te- dissi, cercando di porre un freno alla mia passione, di ritrovare quel barlume di lucidità che subito le sue labbra e la sua lingua mi strappavano da dentro.
- E tu lo sai che io sono una giovane perversa che si diverte a portare sulla cattiva strana gli chef trentenni? - rispose lei, zittendo ogni mia protesta per scaraventarmi quasi di forza sotto di lei, in quelle lenzuola azzurre che ora erano profondità marine, baciandomi con una passione che diventava ossigeno.
Arrivati a quel punto era oramai chiaro che io fossi la preda e lei la predatrice, proprio come nelle leggende, come quelle divinità dei flutti che ammiravano la luna dal fondo delle grotte sulla scogliera, richiamando i marinai con dolci canti solo per soffocarli in un abbraccio mortale tra i loro seni e le loro spire.
Morea quella notte fu quel canto, il suo corpo nudo il mio richiamo irresistibile, il profumo della sua pelle la vera malia dei miei sensi, le lenzuola del mio letto il nostro oceano e fare l'amore un immenso gioco a rincorrerci nel profondo azzurro di fondali immaginari, caldi del nostro respiro, ondeggianti del nostro fremito.
Mi immersi in lei, su di lei, sotto di lei, dentro di lei, insieme fummo onde del mare, vento di tramontana, insieme fummo primo raggio di luna, stella polare, fummo tramonto e fummo alba, cielo e orizzonte, tempesta e calma piatta. Ci muovevamo scanditi dal ritmo dello scrosciare delle onde che, lente, si infrangevano sul mondo, nella melodia del vento che suonava sabbia e palme, sulle ore di quella notte, troppo brevi e contemporaneamente eterne, padroni della vita, padroni della morte, padroni di tutto il tempo perso e di quello che verrà.
Riemergemmo insieme, stretti in un abbraccio, lei ora così piccola, così minuta, così differente da quella sua versione forte e decisa che avevo amato durante quel giorno, quel singolo giorno che sembrava durare da una vita intera, rimanendo insieme in silenzio, a lungo, osservando i giochi di luce che luna e faro proiettavano attraverso le finestre della mia casa e quella risacca che inglobava il buio, rendendoci naufraghi in un mondo di oceani. 
- Che cosa significa Meermin? - ruppi il silenzio, mentre le accarezzavo l'interno del polso.
- Sirena in olandese – rispose lei, - mi sembrava di avertelo già detto.
- Non lo ricordavo - tacqui qualche istante.- Quindi alla fine sei diventata la mia sirena? Proprio come dicevi oggi pomeriggio?
- Lo sono? - domandò, guardandomi tra i capelli scompigliati e la penombra, rotta dalla luce intermittente del faro che, di riflesso, rischiarava a tratti la stanza rendendoci un po' meno indistinti in quella distesa di lenzuola stropicciate.
-Vorresti esserlo?
- Sarei costretta a divorarti – rifletté, accarezzandomi il petto, - ti lasceresti divorare da me?
- Sì, ma da te mi lascerei divorare volentieri.
Sorrise, guardandomi con la testa poggiata sul mio petto e gli occhi stanchi ma pieni di una profonda soddisfazione.

Mi svegliai che l'aria era già impregnata di luce. Solo. Nella solita stanza bianca, nel solito dondolio calmo del mare e nel silenzio.
"E' successo veramente?" pensai, distendendomi oltre il bordo del letto nel consueto tentativo di indossare le pantofole senza congelarmi i piedi.
- Sibill, ho veramente fatto l'amore con Morea?
- Non ho trovato nessun comando corrispondente a "ho veramente fatto l'amore con Morea" - rispose l'assistente domestico, con il suo solito tono cadenzato.
- Giusto, cosa ne sai tu di quello che viviamo noi –risposi, sporgendomi per cercare di individuare almeno visivamente le maledette pantofole. - Sibill che ore sono? - domandai.
- Le sette e cinquataquattro minuti - rispose. - Vuoi che ti ricapitoli gli appuntamenti della giornata?
- No, grazie, oggi no, devo ancora capire cosa sta succedendo – risposi, rinunciando alla ricerca.
- In questo caso: buona giornata Zante - concluse Sibill.
- Buona giornata – risposi, scendendo sul pavimento gelido che ero ancora nudo.
Infilai mutande e pantaloni del pigiama per poi calzare le scarpe senza allacciarle, giusto per non prendermi un malanno.
- Morea? - domandai, scendendo le scale, sempre più convinto di aver sognato.
"Oppure sono stato sedotto e abbandonato" pensai, "che ironia, ma d'altro canto da una come Morea potrei anche aspettarmelo".
Invece qualcuno si muoveva in cucina e l'aria era intrisa di dolci odori di forno.
-Oh, ti sei alzato, giusto in tempo - mi sorrise, vedendomi sulla porta.
Indossava una delle mie magliette che la copriva quasi fino alle ginocchia, le mie pantofole ed il mio grembiule da cucina, già sporco di cioccolato e zucchero a velo.
- Ti sei messa a fare dolci? - domandai, confuso.
- In realtà si tratta del nostro piccolo progetto imprenditoriale - disse una voce maschile, dall'altro lato della cucina. - Mi sporsi verso l'interno e vidi che al tavolo erano seduti Katrina e il Selvaggio.
- Voi cosa ci fate qui? - domandai, tornando dietro la porta per nascondere le mie nudità.
- Ci ha chiamati Morea stamattina presto - disse Katrina.
- Su entra, non hai niente di cui vergognarti - mi incoraggiò Morea.
Rimasi dov'ero.
- E' pudico come un'educanda- disse il Selvaggio, - se vuoi mi metto in mutande, magari ti sentirai meno a disagio.
Katrina allungò una mano verso di lui. -Abbiamo già discusso di questa cosa – disse.
Presi una delle mie vecchie giacche da chef che tenevo nell'ingresso ed entrai inc ucina, mi sentivo un po' ridicolo ad indossarla sui pantaloni del pigiama e le scarpe slacciate, ma lo preferivo al disagio di essere mezzo nudo di fronte ai miei amici, benché anche io mi rendessi conto che si trattasse di un disagio irrazionale, dovuto alla rigida educazione di mio padre, un'educazione che Morea sembrava non aver mai ricevuto.
- Visto che sono io la prima ad aver spinto per buttarci in questo affare non mi sembrava giusto partecipare solo perché ero lì ieri mattina, così ho iniziato a pensare. Siccome abbiamo già il Selvaggio che si occupa della distribuzione e Katrina che si occupa dell'organizzazione a me rimaneva ben poco, del resto io non conosco nessuno da queste parti, sono solo una turista che tra poco se ne andrà. Che cosa potevo fare? Mi sono spremuta un po' e mi sono detta "se non sei in grado di aiutarli a vendere puoi aiutarli a vendere meglio", con meglio intendo a un prezzo più alto ovviamente: e qual è il modo migliore per far aumentare il valore di un prodotto?
- Trasformandolo - rispose, sicura, Katrina.
-Esatto - rispose Morea, tirando fuori una teglia piena di tortini al cioccolato rotondi e profumati.
Mi avvicinai incuriosito e lo stesso fecero anche il Selvaggio e Katrina.
- Vuoi fare dolci? -domandò il Selvaggio con aria confusa.
Morea ridacchiò.
-Sono tortini alla marijuana - rispose Katrina.
- Tortini alla marijuana? - domandò il Selvaggio strabuzzando gli occhi. - Vuoi dire che qui dentro c'è l'erba che abbiamo trovato?
- Sì –rispose Morea, - l'idea è quella di non vendere erba pura, o almeno non tutta pura, e utilizzarne una parte per fare dolci come tortini o biscotti. Possiamo anche variare la quantità di thc o modificare gli ingredienti per farne di varie fasce di prezzo: i gusti possono essere i più disparati.
- Non ci posso credere – disse il Selvaggio, ancora affascinato da quei tortini così rotondi, profumati e invitanti.
- Ho lavorato per un periodo in una bakery che vendeva questi prodotti ai coffee shop in Olanda – spiegò Morea. - Non sono difficili da preparare e ci possono garantire un buon margine di profitto.
Il Selvaggio affondò la mano in uno dei tortini bollenti e se ne portò metà alla bocca.
-Sono ottimi, secondo me andranno a ruba - commentò, masticando.
-L'idea è ottima – disse Katrina, - possiamo anche imbustarli per farli durare più a lungo.
- Ma siamo sicuri che riusciremo a venderli meglio della sola erba? - domandai.
- Beh, vendiamo i tortini alla droga dello chef Scilla, devono andare a ruba per forza di cose, no? - commentò Morea, con un sorriso.
- Vuoi brandizzare il mio nome per questa cosa? - domandai, inquietato.
-Rilassati, non metteremo il tuo nome sui tortini, sto solo dicendo che mi darai una mano a cucinarli, così ho trovato uno scopo anche ate oltre a quello di custode della nostra erba – spiegò. - Non sia mai che così ti torna un po' di voglia di cucinare.
Ma la voglia mi era già tornata ed era per lei che avrei voluto cucinare.

Daquel giorno iniziava la nostra avventura gastronarcotica in quel di Termirini, una città così quieta e silenziosa che sembrava impossibile venisse mai colta da quell'uragano olandese che prendeva il nome di Morea.
Insieme iniziammo a cucinare e sfornare dolci deliziosi: biscotti, muffin, tortini, crostate di frutta; in breve tempo, grazie a Morea e alle mie abilità, riuscimmo a sfoggiare un catalogo di dolci alla marijuana che avrebbe fatto impallidire qualsiasi produzione olandese.
Anche in cucina come nella vita Morea si presentava come un diamante grezzo, abile nel fare e rapida nell'imparare, animata da un entusiasmo che si trasmetteva, attraverso gli abili polpastrelli delle sue dita minute, negli impasti dolci e nei soffici ripieni che era capace di creare.
Giorno dopo giorno le insegnavo qualcosa sulla cucina mentre lei mi insegnava qualcosa sulla vita, su quelle albe e quei tramonti che avevo imparato a vedere solo come fredde parentesi nel triste arco di giornate tutte uguali, sui mille mondi e le mille storie che la sua gioventù vagabonda l'aveva portata a raccogliere.
- Il primo giorno che ti ho vista non ti avrei mai immaginata così, vestita da cuoca – dissi un giorno, mentre fuori la notte si attardava e rimanevamo solo noi, uniche anime ancora sveglie in tutta quella lunga riviera battuta dal vento.
- Avrai pensato "eccola qui, la solita ragazzina olandese che si fa il suo anno sabbatico in cerca di uomini nel sud europa"- ridacchiò lei.
- No, è che non mi sei sembrata il tipo, sai, tutta avventure, viaggi, storie da raccontare...
- Invece fare dolci mi è sempre piaciuto, fin da quando ero bambina – confessò, guardandosi un angolo del grembiule, - ricordo che ne facevo un sacco insieme a mio padre... era un tale goloso ma avessi visto che razza di casini, e le urla di mia madre poi – ridacchiò. - Per me erano  momenti speciali, cioè allora non me ne rendevo conto, sai quando si è bambini sembra che tutto debba durare per sempre, che i tuoi genitori, le persone a cui vuoi bene rimarranno sempre lì, per te. Invece la vita cambia e ti ritrovi improvvisamente grande e non c'è più niente che ti stia bene, più niente che vada bene come quando eri piccola...
- E' per questo che sei partita?
- Anche – disse, lanciandomi un'occhiata quasi di sfuggita ma mi fu sufficiente per vedere che aveva gli occhilucidi. - Ma parliamo d'altro, non ho voglia di essere triste quando sono con te – continuò, asciugandosi gli occhi e forzando un sorriso.
- Va bene – risposi. - Io ho iniziato ad avvicinarmi alla cucina fin da piccolo, mio padre era un uomo d'altri tempi, tutto rigore ed etichetta...
- Quindi era una specie di nobile?
-No, peggio, faceva il direttore di banca e lavorava nell'alta finanza, era quello che si dice uno "squalo", ma aveva una mentalità da fine ottocento e spendeva gran parte dei suoi soldi per attenersi a questo stile di vita. Avevamo una governate e viaggiavamo solo con macchine con autista, non penso di aver mai visto quell'uomo guidare o fare un qualsiasi lavoro di fatica, fosse anche il solo sbucciarsi una mela. Spesso ci portava fuori a mangiare, quasi sempre erano locali di alta cucina, ristoranti stellati. Io dovevo obbedire alle rigide regole di mio padre, sai, stare ben seduto composto, praticamente immobile, parlare in maniera corretta, senza inflessioni, mi faceva indossare orrendi vestiti da damerino trascinandomi a destra e a manca per i salotti buoni. Quando andavamo in quei ristoranti, mentre cercavo di rispettare la sua serie infinita di regole, guardavo gli chef, nelle cucine, vestiti con la loro divisa elegante, capaci di comandare così tante persone. Ancora non sapevo che mio padre ne comandava quotidianamente di più e che era anche un dittatore nel farlo, mi basavo su ciò che vedevo e ciò che vedevo era un futuro in cui io potevo dettare le regole, decidere cosa la gente avrebbe mangiato, comandare uno stormo di aiuto cuochi. Quando poi scoprii che lo staff di cucina si chiamava brigata impazzii di eccitazione. Così iniziai a passare il tempo in cucina, con la mia governante e mio padre impiegò anni ad accorgersi di questa cosa. Alla fine decisi di rivelare la mia passione che avevo quasi quattordici anni, per mio padre era come sentirsi dire che ero gay. Reagì malissimo, per lui la mia vita era nel campo dell'alta finanza, sarei dovuto andare ad una scuola privata di economia, all'università e poi avrei dovuto affiancarlo in uno studio di consulenza finanziaria che aveva intenzione di aprire appositamente per me.
- Aveva programmato tutta la tua vita? E tua madre?
-Mia madre era dalla mia parte, ma conosceva mio padre e sapeva benissimo che non bisognava mai prenderlo di petto. Io purtroppo non avevo questa scaltrezza. Come immaginavo mi impedì di accedere alla cucina e mi impose la scuola privata.
- Quindi ci andasti?
-In realtà no, come ti avevo detto mia madre era dalla mia parte. C'è una cosa da dire di mia madre, per quanto fosse solo una moglie oggetto, una donna svampita che mio padre aveva sposato solo per fare bella figura nella società, aveva un cuore immenso e provava per me un amore profondissimo. Siccome mio padre spesso era fuori casa per lavoro era lei a consentirmi l'accesso alla cucina e a corrompere la governante per non far trapelare nulla a mio padre così, due anni dopo, quando avevo quattordici anni potei affrontarlo di nuovo.
Nonostante gli avvertimenti di mia madre lo presi di nuovo di petto, stavolta alla festa del mio compleanno.
- Che cosa hai fatto? - incalzò lei.
- Gli proposi una specie di sfida. Sapevo perfettamente che per lui l'unico metro di paragone, nella vita era il denaro, per questo ne guadagnava a fiumi e per questo desiderava che ne guadagnassi a fiumi anche io. Così gli proposi di assaggiare uno dei miei piatti e di dargli un prezzo, in base a quel prezzo decidere il valore che aveva la mia ambizione di diventare come i grandi chef milionari da cui lui stesso ci portava sempre. Ovviamente mio padre accettò ed io cucinai uno dei migliori piatti della mia vita quel giorno, un piatto che anni dopo avrei riproposto nel mio menù. Ricordo ancora come ero emozionato mentre mio padre lo assaggiava, grugniva e poi si alzava in piedi all'improvviso dicendo solo "Se è questo che vuoi fare almeno lo farai bene" ed uscì dalla stanza.
- Se è questo che vuoi fare almeno lo farai bene?- ripeté Morea. - Che razza di risposta è?
Risi. - Era il suo modo anaffettivo di dirmi che mi avrebbe aiutato o forse si era reso conto che che se la mia ambizione era durata così tanto nessuno dei suoi sforzi mi avrebbe mai fatto avvicinare al mondo dell'economia, non so, ma dal giorno dopo il suo atteggiamento nei confronti della mia passione cambiò leggermente. Non mi supportò mai ma mi mandò a studiare presso le migliori scuole gastronomiche italiane e il suo nome mi permise di entrare in tutte le cucine dei migliori ristoranti europei.
- Quindi sei una specie di figlio di papà – disse Morea, scherzosa.
- Sì, mi hanno chiamato così spesso, ma infondo non mi importava molto, io volevo imparare a cucinare bene.
-Salvo poi smettere di cucinare del tutto – mi punzecchiò.
Risi. - Forse è perché non sono mai stato a cucinare fino a notte fonda con una bella ventenne Olandese – dissi, abbracciandola.
- Oh, non ci credo, chissà le porcate che facevate in quelle cucine dopo l'orario di chiusura – mi prese in giro.
- Mai quanto quelle che stiamo per fare io e te – dissi, baciandola.

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