Falò di Marzo
Il Falò di Marzo era una reminiscenza dell'amministrazione Ariostide, ex sindaco reso popolare dalla sua postura gobba e dal suo essere sempre vestito con lo stesso completo nero su camicia bianca, due tratti che lo accomunavano ad un famoso nemico di un certo giustiziere mascherato dei fumetti americani. I giovani del posto lo avevano ribattezzato il Pinguino, soprannome che ben presto venne adottato anche da membri della comunità più adulti e addirittura dagli anziani, a cui le origini di quel soprannome erano totalmente sconosciute.
Il Pinguino ebbe l'idea del Falò di Marzo come una sorta di ricorrenza periodica, una cosa per richiamare i turisti, a suo giudizio, verso le bellissime coste della sua Termirini.
In realtà quel tratto di mare era da sempre imbalneabile, le correnti erano ostili e il vento sembrava una maledizione perenne, letizia solo per i volatori di aquiloni. Ma di gare di aquiloni se ne tenevano tre all'anno ed oramai non attiravano quasi più nessuno.
Nelle sue prime edizioni del falò tutto ciò che attirò furono gli abitanti dei paesi vicini e alla fine, con il cambio di amministrazione, la ricorrenza venne cassata perché ritenuta inutile.
Eppure la festa era rimasta, adorata dagli abitanti del paese veniva fatta ogni anno, per due volte l'anno, il primo giorno di primavera, a Marzo, e l'ultimo giorno d'estate, a Settembre.
Inizialmente l'amministrazione provò ad opporsi, il falò veniva fatto in una spiaggia troppo ventosa e anche se la nicchia in cui si allestiva il fuoco era al riparo da qualsiasi intemperia poteva risultare in qualcosa di pericoloso. Ma in posti come Termirini, dove tutti si conoscono e tutti sono più o meno imparentati tra loro, anche le amministrazioni pubbliche tendono ad essere più morbide ed ora il falò di Marzo era un evento ufficiale, patrocinato dalle associazioni della zona e sponsorizzato nei comuni limitrofi.
Secondo i residenti questo aveva fatto perdere un po' il fascino dei primi falò, più intimi e clandestini, ma alla fine, dopo più di vent'anni, aveva effettivamente attirato un certo numero di turisti concedendo una vittoria postuma al tanto deriso Pinguino.
Quell'anno era stato allestito un palco per suonare musica dal vivo, anche se la folla di giovani ammassata già dal primo pomeriggio continuava a sperare invano in una notte di festa selvaggia e rave alcolici, l'insegna "Patrocinato dal comune di Termirini" che troneggiava in alto faceva capire che le cose si sarebbero svolte in tutt'altro modo.
In un lato, nella nicchia naturale che da sempre ospitava il grande fuoco, venivano ammassati i vecchi mobili, i bancali e le fascine per il grande falò e poco distante era stato allestito un piccolo bar di fronte al quale già una discreta folla si stava radunando, occupando i tavolini di plastica bianchi semi affondati nella sabbia.
Presi da bere, un cocktail analcolico alla frutta, tremendo per la sua dolcezza ma comunque bevibile, per poi sedermi ad un tavolo nell'attesa che le luci del giorno si estinguessero all'orizzonte, subito sostituite dalle ballerine luci delle fiaccole infilate tra la sabbia della spiaggia.
Iniziava la notte e con la notte iniziava al musica: i primi "grandi classici revival anni 70/80/90" iniziavano a scandire la notte.
Tornai a cercare i giovani con lo sguardo e risi dei loro volti sconsolati. Non se ne sarebbero andati comunque, nella realtà Termirina questo era quanto di meglio che si potesse ottenere e bisognava adattarsi o soccombere al tedio. Ben presto anche loro si sarebbero accordati con il ritmo della serata e se non altro sarebbero tornati a casa soddisfatti, magari eccitati da qualche adolescenziale emozione, da qualche prematura esperienza.
Invidiavo anche loro, come segretamente avevo preso ad invidiare tutti i giovani che non avevano avuto la spensieratezza che avevo avuto io.
- E' proprio una festa di paese - commentò una voce familiare alle mie spalle.
Morea si stava sedendo al mio tavolo con un vassoio su cui reggeva tre bicchieri di plastica pieni di una birra gialla e schiumosa.
- Io non bevo, grazie per il pensiero - dissi, mostrando il mio bicchiere.
- Non bevi, non spacci, voi chef siete proprio dei bravi ragazzi, ma non si diceva che nelle cucine la vita era dura e che ogni tanto qualche chef si prende una botta di coca per tirarsi su.
- C'è molta pressione - ammisi, - e spesso molti cuochi hanno problemi di dipendenze, per questo bevo solo cose analcoliche.
- Hai avuto qualche problema di dipendenze? - domandò, con un mezzo sorriso indagatore.
- Tu vuoi decisamente sapere troppo.
- Madonna che giornata ragazzi! - esclamò il Selvaggio, comparendo all'improvviso. Si piombò su una sedia senza alcuna grazia, rischiando quasi di cadere a terra. - Che casino con il ritardo di stamattina, non ho recuperato per tutto il giorno. Però è stata una cosa divertente, vero? - domandò, infilando in bocca uno di quegli strani mezzi sigari francesi che era solito fumare fuori dal lavoro. - Non pensavo di trovarvi insieme, state ancora discutendo di quella cassa?
- Giusto, l'hai trovata anche te, tu cosa ne faresti? - disse Morea.
- Io? Non so ma qualche canna me la farei volentieri, è una vita che non fumo - rispose il Selvaggio.
- Io passo - dissi, ridacchiando. - Non sono un criminale come voi due.
- E' solo erba - commentò Katrina, comparendo magicamente dalla tenebra.
Di nuovo era impeccabile, vestita di tutto punto come se si trattasse di una serata formale. Solo una donna come lei poteva scendere in spiaggia con quell'abito e rimanere comunque intonsa.
- Gliel'hai detto tu? - domandai al Selvaggio.
Alzò le mani.
- Come se potesse succedere qualcosa al faro senza che io lo sappia - sbuffò Katrina.
- Vuoi fumare anche tu? - domandai, ironico.
Katrina mi lanciò la solita occhiata alla "ma ti sembro il tipo?" che rendeva superfluo qualsiasi ulteriore commento.
- Io in realtà avevo proposto di venderla - disse Morea, - in fondo se ho capito bene qui tutti abbiamo bisogno di soldi.
- Chi non ha bisogno di soldi? - domandò il Selvaggio, ridacchiando.
- Io ho tutto ciò che mi necessita - rispose Katrina, - siete voi che non avete alcun criterio in ciò che sperperate.
- Ti ricordo che nel mio sperperare c'è anche il tuo stipendio - dissi.
- Quelli sono gli unici soldi che investi a dovere invece, senza di me avresti dichiarato bancarotta mesi fa.
Era vero.
- Io posso distribuirne un po' nella mia rete di clienti, in realtà so già a chi proporre la cosa.
Sia io che Morea guardammo il Selvaggio con aria di sorpresa.
- Che c'è? Termirini sarà anche il culo del mondo ma le canne le fumano anche qui.
- Quindi abbiamo già una distribuzione - disse Katrina.
- Vuoi prendere anche tu parte a questa cosa? - domandai, sempre più sorpreso da quella donna che non finivo mai di conoscere.
- Direi che quella cassa è un problema del faro, quindi un problema anche mio, o la distruggiamo o la monetizziamo, se devo ascoltare il buon senso però la monetizzerei, senza finanziamenti importanti potrei trovarmi senza lavoro entro fine anno - rispose lei con una freddezza e un pragmatismo che avevano del surreale.
- Violeremo la regge, il rischio e molto alto - risposi.
- Siamo a Termirini - rispose lei, indicandomi alle sue spalle la pista da ballo dove il buon Comandante Ascanio Cimarossa, principale tutore della legge del paese e dei suoi dintorni, stava ballando al ritmo di una scatenata macarena.
Cimarossa era un uomo tutto sommato integerrimo, in realtà, ma appesantito dalla calma piatta dell'ambiente di provincia e un po' troppo amante della buona cucina. Ricordo ancora quando, trasferitomi al faro, venne proprio lui in persona a salutarmi, accompagnato dalla volante e da un giovane carabiniere che non rividi mai più, forse così ambizioso da richiedere il trasferimento subito per non rischiare di marcire in un posto del genere. Insistette molto sull'onore di avere un grande chef come me in quel luogo e che sarebbe stato molto felice di mangiare al mio ristorante, qualche volta. Quando comprese che non ero lì per cucinare ma per stare lontano dalla cucina ne fu molto deluso e prese quasi a farmi il filo per farsi ospitare a casa mia per una cena privata.
Era un uomo grasso ma simpatico così avvenne che effettivamente lo invitai ed ora, ogni volta che ci incontriamo, leggo nei suoi occhi la brama di ripetere quell'esperienza.
- Il nostro buon vecchio Cimarossa non sarebbe in grado di prendere dei ladri di polli, oramai - disse il Selvaggio.
- Parliamo ugualmente di infrangere la legge, poi Cimarossa non è l'unico carabiniere in servizio tra i comuni.
- Ti rendi conto che oramai sei l'unico ad opporti a questa idea? - mi fece notare Morea.
Sollevai le braccia.
- Ok, ok, sono chiaramente in minoranza.
- Ora che siamo tutti d'accordo possiamo organizzare il resto del progetto - ricapitolò Katrina, - Selvaggio tu quanti clienti puoi fornirci e quale pensi sia il potenziale di spesa?
- Avanti non vorrai mica metterti a fare questa discussione qui - si lamentò il Selvaggio.
- Siamo fuori dall'orario di lavoro - commentai.
Anche se controvoglia prese il bicchiere rimasto e bevve un paio di sorsate di birra rimettendo il bicchiere sul tavolo, lindo. Quella donna era capace di bere col rossetto senza lasciare traccia, incredibile.
La festa raggiunse il suo culmine e si esaurì nelle due ore successive lasciando del grande falò solo un cumulo di braci che ora alcuni operai si adoperavano a ricoprire di sabbia.
- Lo fanno per farlo diventare carbone attivo, sa, quello che si usa nei filtri e nei depuratori – commentava Amelio Ricciardi, il farmacista del paese.
- Da queste parti non si butta via niente – rispose sua moglie con una punta di disgusto borghese.
- E poi cosa ne fanno? - domandai, incuriosito.
- Ah, non lo chieda a me, sono misteri dei pescatori, forse lo utilizzano per qualche cosa sulle loro barche, fatto sta che ogni anno è la stessa storia, ricoprono per qualche giorno e poi tirano fuori tutto e lo fanno sparire – spiegò Arzulli, il commercialista del paese.
Ci fu qualche attimo di silenzio nel quale contemplammo tutti il lavoro degli operai. Oramai le fiaccole erano per la maggior parte spenta e a parte me insieme a quel gruppetto di conoscenti erano rimasti giusto gli ultimi ragazzini, qualche coppia ancora impegnata con gli ultimi lenti del fine serata e una massa indistinta di ombre brillanti dei tizzoni delle sigarette accese.
- Beh, signori – ruppi il silenzio, - per me si è fatto tardi, è stato un piacere discutere con voi.
- Allora alla prossima, buona notte.
Mi allontanai passando dalla spiaggia, gli odori dolci della festa si stemperavano nel suono della risacca e nello spirare del vento. Da lì potevo vedere il cono di luce del faro, lontano, lanciare il suo lungo sguardo luminoso verso il cielo all'orizzonte, cercando di opporre la propria luce a quella distante delle stelle, indifferenti al suo vegliare il mare su questo piccolo sasso alla deriva nel cosmo. "Come sei piccolo, amico mio, confrontato a quelle grandi luci in cielo" pensai, guardando con quanto sforzo e con quanto impegno il grande faro illuminava la tenebra notturna. "Tra poco sarò da te a tenerti compagnia come al solito, mio vecchio amico e domani... beh domani sarà un altro giorno, domani la..."
- Zante! - urlò una voce familiare alle mie spalle. - Ma dove eri sparito?
Morea si materializzò dal folto di ombre che, sullo sfondo, ancora si muovevano attorno alle luci colorate che facevano da sfondo agli ultimi lenti.
- Sono sempre stato in giro a parlare con la gente – risposi.
- Perché te ne sei andato? - mi domandò, con una punta di delusione. - Il Selvaggio è un folle, ha voluto fumare a tutti i costi ma non ho mai visto la marijuana fare quell'effetto su una persona, diceva che i vestiti gli stavano scomodi e voleva spogliarsi, Katrina si è fatta in quattro per impedirgli di dare scandalo. Ma tu lo sapevi che quei due si frequentano? Cioè, io sono sconvolta! Lui si chiama letteralmente il Selvaggio! - disse Morea in un turbine di parole ed emozione che scorrevano impetuose da quelle splendide labbra sinuose.
Risi di gusto nel sentire quella cronaca.
- Sì, lo sapevo. Sono gli esatti opposti, forse per questo si attraggono – dissi, riprendendo a camminare.
- Per me è stato come vedere mamma e papà fare sesso - continuò lei, camminandomi al fianco, - non nel senso che li ho visti fare sesso ma anche se non li ho visti l'effetto è stato lo stesso. Questo posto è una cosa folle!
La genuina sorpresa della ragazza mi spinse a ridere ancora di più.
- Il Selvaggio mi parla spesso del loro rapporto, a volte anche troppo nei dettagli.
- Che tipo di dettagli? - mi domandò, prendendomi per un braccio. - Roba di sesso?
- Anche – risposi, cercando di mascherare la mia sorpresa per quel contatto improvviso. Da quanto non stavo così vicino a qualcuna? Da due anni? Da Mara?
- Lei è un personaggio incredibile – continuò Morea, - ha camminato tutta la sera sulla sabbia con i tacchi e non è inciampata una volta. Non una. Avessi solo metà della sua femminilità, viene quasi da invidiarla.
- Per avere un palo in culo? - domandai, ridacchiando.
- Smettila, è una persona brillante, forse ha solo un po' la fissa dell'organizzazione, prima che il Selvaggio avesse la sua crisi da nudista mi spiegava per filo e per segno come intendeva piazzare l'erba e ripulire il denaro. Sembrava quasi più eccitata per l'idea di organizzare lo spaccio che non per i soldi che si possono fare.
- Sì, tipico di lei, io la chiamo la Morticia Addams della segreteria aziendale - risi.
- Le calza a pennello.
- Ora che mi racconti tutte queste cose mi pento di non essere rimasto con voi, purtroppo qui godo ancora della fama dello chef stellato e non posso sottrarmi a chiacchiere o consigli di cucina. Termirini è così, tutti ti conoscono, anche chi non vorresti conoscere tu.
- Anche io sono cresciuta in un piccolo paesino e più o meno era così anche da noi, per quanto io fossi già la pecora nera.
- Chissà come mai lo avevo immaginato – risposi, - non hai proprio l'aspetto di un'educanda.
- Non sia mai, quella roba non fa per me.
- Infatti non credevo che ti interessasse restare più di tanto con noi, credevo che te ne saresti andata quasi subito.
- Scherzi? Siete tipi assurdi, mi state facendo divertire un sacco. Il miglior faro che visito da un bel po' di tempo. Forse alle Cicladi, ma non c'era una cassa la marijuana in quel caso – riflettè. - Mi ha fatta morire la reazione di Katrina quando ha saputo cosa stavamo complottando. Cioè lei era già pronta ad entrare nel business, lo sapeva letteralmente prima di noi!
- E' unica, il miglior investimento di sempre.
- Il Selvaggio invece lo sapevo che ci sarebbe stato fin dall'inizio. A proposito, perché si chiama così?
- Perché da bambino non ha mai sopportato i vestiti - ridacchiai.
- Scherzi?
- No, giuro, a me la hanno raccontata così. In pratica da bambino lui non sopportava i vestiti perché si gettava continuamente in acqua, una cosa che faceva sia d'inverno che d'estate. Spesso si spogliava per strada e gettava i vestiti che gli aveva dato sua madre nella pattumiera, a volte li perdeva direttamente durante una delle sue tante avventure. Era la quintessenza dei bambini iperattivi. Quando aveva otto anni mise insieme una zattera e si mise in testa di circumnavigare l'Italia. Partì e lo trovarono due giorni dopo incagliato a venti chilometri da qui lungo la costa. Quella zattera è rimasta lì per anni. Penso che ci sarebbe da scrivere un'antologia con le sue avventure da bambino. Ha rischiato di morire così tante volte...
- Di nuovo: come fa a stare con Katrina?
Risi.
- Tu invece? Hai qualche nomignolo da piccola peste?
- Io? No, in realtà no, non penso di averne mai avuti, ma il mio nome ha una storia interessante: in pratica mio padre, quando seppe che avrebbe avuto una femmina, cercò in tutti i modi di convincere mia madre a chiamarmi Morena. Per un paese dove le donne si chiamano per lo più Marieke, Esther o Ilona sembra strano che una persona scelga un nome così particolare. Saltò fuori che Morena era una sua vecchia fiamma conosciuta da ragazzo, a Rimini, e che lui non aveva mai veramente dimenticato. Mia madre, consapevole della natura raffazzonata di mio padre, scrisse sui documenti Morea, togliendo una n, per fargli sempre sapere che non era lei quella dei due che si faceva fregare facilmente.
- Insomma ti ha usato come una specie di monito.
- Mia madre era una persona terribile, mio padre un deficiente totale - disse ridendo, - ma ammetto che hanno fatto del loro meglio. E il tuo invece? A che ripicca genitoriale appartiene il nome Zante? Cioè mi suona ma... non lo so, non dovrebbe essere tipo Dante?
- In realtà non è nessuna ripicca, più il segnare un punto. Zante è l'isola greca in cui si sono conosciuti i miei e in cui vorrebbero farmi credere di avermi concepito, peccato che sia nato a cinque anni di distanza.
Morea rise. - I genitori sono una cosa terrificante a volte.
- Vero – risposi.
Rimanemmo qualche minuto a camminare in silenzio, una coltre di astri ci sovrastava ed il dondolio del mare accompagnava i nostri piedi sulla sabbia bagnata. C'era una tale quiete in quel primo giorno di primavera, una calma che aveva anche azzittito il vento.
La figura del faro si era fatta più imponente, più vicina, mentre della festa non rimaneva altro che una visione sbiadita e distante, alle nostre spalle; una luce tra le mille luci della lunga riviera che abbracciava quel tratto di mare.
- A proposito, l'ostello di Mamma Lucia non è dall'altra parte? Io sto tornando a casa, al faro.
- Anch'io - rispose Morea, guardandomi con languidi occhi verdi.
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