3 - Bowie
La mano grande e calda di suo padre avvolgeva la sua in una stretta rassicurante; eppure, dalla lieve pressione delle dita e dal modo in cui il suo polso si piegava in avanti, più meccanico e a scatti del solito, percepiva che c'era qualcosa di diverso. Qualcosa che lo turbava. Chiara si sentiva triste: si sentiva sempre triste quando suo padre era turbato. Lui si fermò di scatto e lei lo imitò, come era abituata a fare da quando era nata: capì dal modo particolare in cui l'aria le soffiava sulla faccia a momenti alterni e dal rumore dei motori più forte del solito che dovevano trovarsi fermi davanti ad un semaforo. Ogni volta che quel rombo sordo penetrava nell'oscurità del suo mondo lei non poteva fare a meno di immaginarsi enormi mostri arrabbiati e ruggenti; si sentì invadere da un timore viscerale e afferrò più strettamente il braccio di suo padre. Si vergognò della sua reazione: erano mesi ormai che pensava di aver superato quell'irrazionale paura da bambina piccola e adesso, dopo tutta quella fatica e quell'autocontrollo, ci stava ricadendo. Suo padre però non disse niente e le accarezzò dolcemente i capelli con la mano libera. Chiara si rilassò leggermente a quel contatto. Quella per lei era stata una settimana particolarmente dura.
Prima l'assurdo viaggio quasi infinito a bordo di quella strana auto; l'orribile sensazione che il sedile sotto di lei si stesse sollevando da terra e poi quel nauseante e continuo oscillare in qua e in là: era stato terrificante. Suo padre le aveva detto che stavano volando e che si trovavano in cielo, ma per lei quella parola, cielo, non aveva alcun significato.
Poi quello strano viaggio ricco di sensazioni spiacevoli era terminato e si era ritrovata improvvisamente immersa all'interno di suoni e rumori mai sentiti prima, circondata da persone che emettevano versi e pronunciavano parole del tutto prive di significato: che fosse un linguaggio alieno?
Infine, il ricordo più sgradevole. Su quel lettino, circondata da voci estranee; un bruciore sul braccio, la sensazione di qualcosa di pungente che le perforava la pelle, il sapore salato delle sue lacrime sulle guance, il buio. Quando si era risvegliata aveva sentito le labbra umide di suo padre sfiorarle la guancia e una garza piuttosto fastidiosa stretta attorno alla fronte, a coprirle gli occhi.
Suo padre ricominciò a camminare e lei lo seguì, grattandosi nervosamente e per l'ennesima volta la pelle irritata subito sotto la fascia: era passato qualche giorno ma ancora non le era stato concesso di toglierla. Non capiva a cosa le servisse: per lei che le sue palpebre fossero aperte o chiuse non faceva alcuna differenza. Continuarono a camminare per un po', in silenzio; Chiara che si sentiva ancora troppo spaesata per parlare e suo padre avvolto in chissà quali pensieri. Sentì l'odore attorno a lei cambiare bruscamente, così come la colonna sonora: gas, clacson e grida concitate scivolarono in un angolo del suo buio, che fu ora riempito da aromi di legno e fiori odorosi, lieve cinguettio e risa gioiose.
-Questo è il parco di cui ti ho parlato, il Watkins Regional Park! – Suo padre si era fermato e ora la sua voce giungeva alle orecchie di Chiara molto più distinta e potente: doveva essersi chinato di fronte a lei. Il suo tono sembrava allegro, ma sempre contaminato da quella sottile punta di nervosismo che nonostante si sforzasse di nascondere non riusciva ad eliminare. Lei cercò di sorridere, ma anche il suo umore continuava a non migliorare.
-Quello con i colori? – chiese dubbiosa. Suo padre aveva impiegato quasi tutte le ore del viaggio in cielo cercando di spiegarle cosa fossero i colori: a lei erano sembrati concetti astratti e decisamente poco interessanti, un po' come quei discorsi profondi e noiosi sul senso della vita e della morte che sentiva fare spesso dai suoi cugini durante i pranzi di Natale e che loro definivano "filosofia". Dunque che cos'erano i colori, se non filosofia? Qualcosa che non poteva toccare, non poteva odorare, non poteva ascoltare: non erano nulla.
-Esatto. Ti piacerebbe poterli vedere? – Continuava a non capire. Alzò le spalle, piuttosto indifferente: voleva solo che quella conversazione finisse, che tutta quella giornata finisse. Voleva solo tornare a casa (anche se l'idea di dover salire di nuovo su quel mezzo diabolico e tremante la spaventava) e riabbracciare la sua mamma, sdraiarsi nel suo letto, ricominciare la sua routine.
-Non lo so –
-D'accordo. Intanto ti va se ti tolgo la benda? –
Questa volta Chiara annuì con forza, mentre il fantasma di un sorriso si impossessava delle sue labbra sottili.
-Adesso te la toglierò, ma non voglio che ti spaventi, okay? Ricordi il motivo per cui siamo venuti in questa clinica così lontana? –
-Per curarmi gli occhi – rispose lei in fretta, impaziente di togliersi finalmente quella garza. Aveva semplicemente ripetuto le parole di suo padre, ma non aveva davvero capito che cosa ci fosse da curare. I suoi occhi stavano bene, non le facevano male: quindi perché avevano avuto la necessità di curarli?
-Esatto. Per questo quando ti toglierò la benda ti sentirai diversa. Vedrai cose che prima non vedevi. Ma è un cambiamento bello, capito? Anzi, bellissimo –
Lei annuì di nuovo, in automatico, senza prestare troppa attenzione a quello che le stava dicendo: le sembravano tutti discorsi senza senso.
-Okay tesoro, procediamo – Chiara tirò un sospiro di sollievo. Aveva iniziato a pensare che quel momento non sarebbe mai arrivato e che suo padre avrebbe continuato a parlare per sempre. Sentì le sue mani sfiorarle delicatamente il viso, per poi portarsi dietro la sua testa; lentamente, percepì la benda staccarsi dai suoi capelli, dalle tempie, e infine dalle sue palpebre chiuse. La sensazione dell'aria che le carezzava la pelle sudata finalmente scoperta fu piacevole.
-Bene – sussurrò suo padre, dolcemente; ora l'agitazione nel suo tono era talmente evidente da sembrare quasi palpabile e concreta, un essere vivo e strisciante che si arrotolava attorno alla sua voce rendendola debole e frammentata. –Ora prova ad aprire gli occhi. Molto, molto lentamente – Chiara trattenne a stento uno sbuffo irritato: perché tante storie per un gesto così semplice? Cosa poteva mai cambiare, avere gli occhi chiusi o aperti? Con l'intento di concludere al più presto quella faccenda, si affrettò a sollevare le palpebre.
Una lama di luce ferì il suo buio.
Intensa, feroce, tagliente. Chiuse gli occhi di scatto, in preda a un panico cieco e angosciante, rifugiandosi nuovamente nel suo familiare nero.
-Cos'è stato?! – La sua voce suonò alle sue orecchie stridula e lamentosa come non le era mai apparsa prima. Sentì le braccia di suo padre avvolgerla e stringerla contro il suo petto.
-Va tutto bene tesoro, quella è la luce, è normale. Prova a fare un altro tentativo, devi solo abituarti-
Lei scosse prontamente la testa. Perché farlo? Perché abbandonare quell'oscurità protettiva in cui abitava da più di sei anni? Perché abbandonare la sua casa? Per quella scintilla dolorosa e pungente che le aveva ferito le iridi e fatto sorgere le lacrime?
No, non le sembrava uno scambio conveniente.
Eppure, si rese conto che qualcosa nelle sue tenebre tranquille era cambiato: non erano più così scure, così complete, così avvolgenti come prima; sembravano come macchiate, come se quella luce, come l'aveva chiamata suo padre, stesse bussando disperatamente per entrare, stesse cercando in tutti i modi di infiltrarsi, infilandosi tra ogni fessura, in ogni pertugio, oltre ogni barricata. E quei puntini luminosi la chiamavano; la attraevano come una calamita, cercando di attirare la sua attenzione, solleticando quel bisogno primordiale che da sempre ha caratterizzato l'essere umano: la curiosità. E alla fine ebbe la meglio. Questa volta davvero lentamente, con paura, riaprì gli occhi. Di nuovo la luce le ferì le retine, ma resistette all'impulso di chiudere le palpebre. Macchie luminose diverse tra loro sembravano danzare davanti a lei, riempiendo di colpo il suo mondo personale da sempre così monotono e vuoto.
Erano quelli i colori?
Li vedeva ovunque; sfavillanti, gioiosi ed accecanti. Ne era pieno il pavimento: colori che si arrotolavano sotto i suoi piedi in cerchi, strisce e altre forme meravigliose che non riconobbe. Colori avvolti attorno a quegli oggetti di plastica disposti tutto intorno, che dovevano essere i giocattoli su cui si era tante volte divertita: eppure sembravano così diversi ora. Quello scivolo alto che si slanciava nell'aria brillando e ammiccando, leggiadro ed elegante, come sospeso. Il metallo scintillante si rifletteva nelle sue pupille ora allargate e desiderose di assorbire altro e quel colore, quel colore caldo e ardente che lo avviluppava doveva essere quello che suo padre aveva chiamato rosso. Era così bello. Rosso piccante e appassionato e potente; rosso che quasi sembrava esplodere da quegli enormi fiori di plastica posti poco più lontano.
E ad uno ad uno riconobbe ogni colore.
Il verde calmo e anestetizzante che svettava cilindrico sulle mura di quel castello rotondeggiante; rimase ad osservare ipnotizzata le larghe piastrelle disposte una accanto all'altro con rigore geometrico, che rivestivano tutta la struttura per poi interrompersi ad un'altezza che doveva corrispondere all'incirca a quella di Chiara, contornando l'arco semicircolare che costituiva la porta d'ingresso. E ancora verde; verde che esplodeva in cima agli alberi, creando rigogliose chiome, che si espandevano enormi e tremolanti sopra la sua testa. Guardandole bene si accorse che quelle grandi macchie all'apparenza unite erano in realtà il risultato di milioni di piccole foglie aggraziate e affusolate, appese una di fianco all'altra a quei rami sottili che si tendevano stiracchianti e allegri, gareggiando l'uno con l'altro per chi riuscisse ad arrivare più lontano. E sotto spessi tronchi rugosi e antichi si snodavano, solidi e pazienti, sostenendo quelle capigliature impazzite come suo padre sosteneva lei, che assorta in quella folle ed avida contemplazione rischiava ad ogni passo di cadere. Poi il gioioso e splendente giallo, il profondo e penetrante blu, l'arancione, il viola, il rosa, il bianco, il grigio, il marrone. Colori tutto intorno a lei: sui fiori disegnati sul pavimento; sulle giostre rotonde che sfrecciavano veloci; sui tavoli di legno levigato e sulle panchine; su quelle casette in miniatura graziosamente squadrate, con porte da cui emergevano altri scivoli e buffe finestre dalle forme più svariate, tonde, romboidali, o semplicemente inventate; sulle maglie e sulla pelle di quelle figurine che correvano, ridevano e giocavano nel parco. Bambini. Era quello il loro aspetto? Era quello il suo aspetto? Chiara si voltò di scatto verso suo padre, improvvisamente in preda ad una morbosa curiosità: fu spiazzante, per un attimo. Vide il volto che conosceva così bene, il volto che su cui tante volte aveva fatto scorrere le mani, per sentire la fronte alta, gli zigomi spioventi, il naso grosso ma dritto, gli ovali irregolari degli occhi, i capelli radi eppure soffici; lo aveva visto a suo modo tante volte, eppure non lo aveva mai fatto davvero. Se ne accorse in quel momento, quando per la prima volta si trovò davanti quel viso sconosciuto: la pelle rosa, contornata da leggere rughe d'espressione; gli occhi castani, che brillavano allegri e così dolci, una dolcezza che non era mai riuscita a percepire quando lo toccava; la barba nera appena accennata che faceva capolino dal mento appuntito; la macchia scura dei capelli spettinati che poneva in risalto la parte davanti della testa, sguarnita e splendente; le sue labbra piene ora dischiuse in una risata gioiosa che mostrava i denti banchi e il rosa della lingua e del palato. Suo padre le sembrò improvvisamente così reale, colorato e anche bello. Immensamente bello.
Poi alzò il viso.
E vide il cielo.
Quell'azzurra distesa pacifica e immensa, quel manto teso come un velo infinito che si estendeva placido e maestoso su ogni cosa; così limpido e perfetto da sembrare quasi dipinto. Vide la sorgente di quella luce accecante; quella luce che si sprigionava da quella palla infuocata su cui riusciva a posare gli occhi solo per poco, quasi esplodeva e poi si diffondeva perforando la cupola celeste ed avvolgendo quelle candide nuvole sempre in movimento e poi atterrandole sul viso, accarezzandolo ed immergendosi nelle sue pupille, letteralmente disegnando al loro interno tutte quelle forme, quei colori e quella vita.
Chiara vide tutto. Vide tutto questo e mentre volteggiava come in trance in mezzo a quel parco dei divertimenti della città di Bowie, nel Maryland, in America, nel Mondo, con il volto completamente inondato di calde lacrime, la sua mente ebbra di felicità e di luce si dimenticò quel buio che fino a pochi minuti prima aveva rappresentato la sua casa.
Sì, era stato uno scambio decisamente conveniente.
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