2 - Silver Spring
L'aroma dolce e intenso sembrava provenire da ogni parete ed ogni angolo della casa stessa; le avvolgeva la gola e le penetrava nel naso e allo stesso tempo sembrava tracciare un sentiero nell'aria, a cui lei si aggrappava disperatamente ogni mattina per evadere dallo stato di sonnolenza rimastole aggrappato come una creatura vivente alla schiena dopo la notte. Il caffè era davvero l'unica cosa che le era rimasta dell'Italia (non era mai riuscita a sopportare quella brodaglia annacquata che tutti sembravano adorare negli Stati Uniti) e, nonostante tutto quel tempo, quegli anni e quei chilometri, ogni volta che sentiva la moka gorgogliare e quell'odore forte, leggermente amaro ma anche così avvolgente si sprigionava dalla caffettiera lei si sentiva teletrasportare a casa. Viaggiava attraverso lo spazio, ma anche attraverso il tempo: attraverso tutti quegli anni di scelte sbagliate, di rimpianti e di fughe; ancora ventenne, ancora piena di speranze, ancora con un futuro splendente davanti a sé (ma con la stessa dipendenza da caffeina che sentiva ora: quella non l'aveva davvero mai abbandonata). Anna bevve in fretta il liquido bollente, lasciandosi cullare dalla sensazione familiare e confortevole che le provocava al petto e alla gola durante la sua discesa; dopodiché lavò accuratamente la tazzina, si lavò i denti, si ritrasse inorridita dallo specchio alla vista delle rughe sempre più evidenti, si pettinò i capelli cercando di coprire il più possibile la ricrescita incombente (ma aveva davvero senso farlo? Come se le persone non potessero intravedere attraverso i suoi occhi la linea sempre più sottile che la separava dalla morte); si rilavò i denti, si ricordò di esserseli già lavati e imprecò; si infilò le calze, con movimenti lenti e misurati, cercando di curvare la schiena il meno possibile, digrignando i denti per il dolore ad ogni movimento troppo brusco, e scese le scale, un passo per volta ma senza mai fermarsi.
L'aria fresca le accarezzò gentilmente la pelle, i colori vivaci dei fiori ai lati del viottolo le colpirono le pupille con un'inaspettata ma calorosa violenza; ma soprattutto il loro pungente, delicato e soave profumo le solleticò le narici e le risollevò l'umore. Iniziò a camminare lentamente lungo il sentiero, lasciandosi trascinare da tutti quegli odori e senza neanche accorgersene si ritrovò al Matthew Henson Skate Park. Da quando era andata in pensione (ormai quasi due anni prima) era diventata la sua meta abituale: sia perché era estremamente vicina a casa sua, sia perché guardando quei ragazzini sfrecciare avanti e indietro e quasi volare attorcigliandosi nell'aria e poi atterrare dolcemente sull'asfalto, con quello skateboard di legno apparentemente così fragile come unica zattera di salvataggio, si sentiva quasi ringiovanire lei stessa, di riflesso. Si sedette su una panchina, proprio davanti alla pista degli skaters; erano soltanto le otto di mattina, ma era una bella giornata estiva e il parco era già abbastanza popolato da ragazzini di diverse età. Vide un ragazzo atterrare dopo una pericolosa acrobazia e gridare di gioia; quella gioia che più di quarant'anni prima aveva riempito i suoi occhi quando per la prima volta aveva aperto un libro di medicina. Osservò i muscoli delle gambe di un giovane tendersi per lo sforzo e ripensò alla forza che aveva attraversato anche il suo, di corpo, quando era entrata per la prima volta in una corsia di un ospedale e aveva premuto le mani contro il petto di un paziente esanime fino a che non aveva sentito un lieve ma sufficiente battito provenire da sotto quella pelle pallida e tirata. Ricordò l'odore asettico di quei corridoi: quel sapore artificiale di detersivi e agenti chimici, quel sottile sentore di malattia ed infezione, per molti giudicato insostenibile ma che lei aveva imparato ad amare. Annusò l'aria a pieni polmoni, lasciando che l'odore fresco dell'erba appena tagliata, dell'asfalto, del sudore giovanile appena accennato, della rugiada e del legno proveniente dagli alberi le riempisse i pensieri; ma non servì. Continuava a sentirlo; quel sottile richiamo mortale. Non aveva mai smesso: non quando era giunta la crisi economica, che come una folata di vento e un uragano odorante di escrementi e frammenti di carta strappata aveva travolto ogni sua aspirazione e ogni suo sogno disintegrandoli e risputandole in faccia i rimasugli; non quando, zaino in spalla e voragine nel petto, aveva salutato i suoi genitori ed era partita verso l'ignoto; non quando, da tirocinante piena di aspirazione, si era ritrovata operaia in una vecchia fabbrica di scarpe; e neanche ora, in quel momento, a sessantaquattro anni, su quella panchina circondata dalla natura.
Fu un grido. Un grido a riscuoterla fisicamente dai suoi pensieri e a farla balzare in piedi (gesto di cui si pentì immediatamente, sentendo un'improvvisa fitta alla schiena e le articolazioni delle ginocchia cigolare indignate); ma ad accenderle quella luce fioca di esaltazione da qualche parte dentro di lei fu un odore. Un odore amaro, tagliente e ferroso; lo conosceva bene, quell'odore. Un ragazzino giaceva inerte, il collo in una posizione distorta, lo skateboard a qualche metro da lui ribaltato, un'enorme pozza di liquido che dalla posizione in cui si trovava Anna appariva quasi nero che si allargava lenta ed inesorabile attorno a lui. Il parco si riempì ben presto di urla disperate; alcuni ragazzini si affrettarono a scendere dai loro skateboard e a circondare la sagoma stesa; altri scappavano via, con il volto coperto di lacrime e le mani serrate intorno alla bocca per non vomitare. Era accorso anche qualche adulto, a contribuire alla formazione di una vera e propria folla accalcata attorno al ferito.
Anna corse, ignorando i legamenti irrigiditi e le sue ossa fragili. Raggiunse la pista, spinse le persone con le sue braccia magre eppure ancora sorprendentemente forti, scavalcò gambe, spostò schiene, schivò mani e sguardi.
-Sono un medico! Lasciatemi passare! – gridò, senza sapere neanche lei perché l'avesse detto: non era sicuramente vero e, se anche in un lontano passato fosse stata abbastanza vicina dal diventarlo, ora non lo era sicuramente più. Eppure quell'odore; quella sensazione. Raggiunse il ragazzino e si chinò accanto alla sua testa. Sangue ovunque. Sangue viscoso e scuro e nauseante; sangue sul terreno, sangue sulle sue scarpe e sangue tra i capelli del bambino steso a terra. Un'orrenda ferita, rosea e infetta, solcava in orizzontale quel piccolo cranio.
-Chiamate un'ambulanza! – gridò, mentre si sfilava la giacca, l'appallottolava e la premeva dolcemente ma con forza su quella voragine putrescente di sangue e pus. Con una mano continuò a pressare l'indumento contro il taglio per fermare l'emorragia, mentre poneva l'altra sotto il collo del ragazzino, in modo da mantenerlo parzialmente alzato. Attorno continuavano ad esserci grida, schiamazzi, pianti e urla agitate; qualcuno si stava rivolgendo direttamente a lei, ma lei non lo sentiva. Non c'era niente. Niente oltre a quell'odore di ferro e di infezione e di malattia e di morte; quell'odore che paradossalmente la faceva sentire viva.
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