RIDERE
«Dovremmo—togliere il lenzuolo?».
A Simone la domanda sorge spontanea.
Non ha mai fatto nulla del genere e presume che per Manuel, sdraiato accanto a lui, sia pressoché lo stesso.
Sono a casa di quest'ultimo: il letto sul quale sono entrambi sdraiati è ad una piazza, ci stanno a stento sopra in due; un lenzuolo grigio chiaro e sgualcito, insieme ad una trapunta leggera, ricopre i loro corpi nudi.
L'appartamento è vuoto, ma hanno chiuso comunque la porta a chiave perché Anita potrebbe rientrare senza preavviso.
«Non so, te che dici?».
«Boh, non lo hai mai fatto prima?».
«T'ho detto de no».
Si guardano di soppiatto quasi non volessero far incrociare i loro occhi, complice un velo di imbarazzo che non ha senso di esistere: si sono già ammirati senza vestiti, già toccati, accarezzati, posseduti.
Forse ha ragione il professor Coverti a dire che quello è un livello di intimità diverso e superiore.
«Magari dovremmo p...» Simone prova a proporre qualcosa, ma il suo tentativo è vano dal momento che Manuel si fionda sulle sue labbra.
Lo sente ovunque, lo percepisce afferrarlo per un polso, condurgli la mano alla propria erezione che non è ancora presente.
Annaspa appena.
Simone inizia a toccarsi in modo delicato, guidato dalle dita di Manuel che dettano i suoi movimenti.
Ha la sua bocca premuta sulla propria, in un bacio profondo con le loro lingue che si scontrano, tanto da smorzargli un po' il respiro.
Strizza gli occhi, per notare l'altro ragazzo parzialmente su di sé; ha preso a masturbarsi con docilità anche lui.
Si baciano e si toccano nello scenario più intimo che possa esserci.
Manuel si stacca per un breve istante – forse per riprendere fiato; rimane comunque abbastanza vicino, appoggiando la fronte sulla sua. Gli sfugge un sorriso.
Nella sua testa viaggia un solo pensiero, che non l'ho mai fatto con nessuno, a parte te.
Mai nessuno, a parte te.
A parte te.
Vorrebbe parlare, esternare una delle tante frasi che frullano nella sua mente, anche se ne uscirebbe qualcosa di sdolcinato e non vuole dare tale impressione, quasi fosse di troppo, fuori luogo o affrettato.
Il fatto è che Simone lo conosce da poco più di anno, da quando si è trovato bocciato in terza superiore, eppure gli sembra di farlo da una vita intera; quindi, magari, non sarebbe prematuro sussurrargli che lo trova bellissimo, con i ricci scompigliati, con i loro occhi concatenati gli uni con gli altri, i respiri che si mescolano e fondono.
Forse non ci sarebbe nulla di sbagliato, ma resta comunque in silenzio, almeno finché non esplodono entrambi in un orgasmo, sporcandosi le dita.
«Cazzo» soffoca Simone, strizzando le palpebre.
Manuel sbuffa una risata. Si tira indietro soltanto in quell'istante, tornando in posizione supina. Allunga un braccio per afferrare dei fazzoletti dalla scatola in cartone che tiene sul comodino blu accanto al letto; ne porge uno a chi gli è accanto, per ripulirsi alla meglio – dovrebbero fare una doccia, ma può attendere un attimo.
Simone raccatta l'oggetto che gli viene dato, rimuove le tracce bianche che ha sulle dita. «È stato—diverso» borbotta.
«Mh-m».
«Cioè, da soli non è così... così...».
«Strano?».
«Intenso».
Il fazzoletto di carta gli viene tolto dalle mani senza che lui se ne accorga. Difatti, Manuel lo ha accartocciato insieme al proprio e gettato a terra, accanto al letto, con la promessa mentale di buttarli nel cestino non appena si alzeranno.
«Seh, te l'avevo detto».
«Ma se hai detto che non l'avevi mai fatto».
Manuel schiocca la lingua sul palato, lo guarda sottecchi. «Le premesse erano comunque ottime» commenta.
Simone aggrotta la fronte, gli tira un leggero colpo sul braccio col gomito piegato. «Coglione» ridacchia.
Le labbra di Manuel si curvano in un sorriso. Poi scuote il capo e «Te devo da' 'na cosa» annuncia.
«Cosa?».
Torna ad allungarsi verso il comodino, stavolta per raggiungere il primo cassetto che apre; ne tira fuori una scatola quadrata e sottile, azzurra, con un fiocco lilla sopra. «T'oh», esclama «sarebbe er regalo pe' il compleanno tuo».
Simone osserva con un sopracciglio inarcato il pacchetto che ora giace sul proprio stomaco. Si tira appena su, per potersi sedere e adagiare la schiena contro la spalliera.
«Il mio compleanno è stato a marzo» puntualizza.
Manuel imita la sua posizione e incrocia le braccia al petto. «Seh, e allora?».
«Siamo a ottobre».
«Lo vuoi apri' o no? Se no me lo ripijo».
«No, no, no» Simone biascica – non glielo permetterebbe mai, è davvero curioso di scoprire che c'è dentro a quella scatola. Succede poco dopo, gli è sufficiente sollevare il coperchio: c'è un cuscinetto morbido e bianco, sul quale si trova un bracciale in acciaio non troppo spesso; ad esso, vi è attaccato un ciondolo a forma di mezza luna, del medesimo colore.
Non si aspettava qualcosa di simile. In realtà, non si aspettava proprio un regalo, non da parte sua; quindi, è particolarmente sorpreso da qualunque prospettiva.
«Che c'è?» domanda Manuel, un briciolo intimorito dal suo improvviso mutismo, fissando l'oggetto «Te piacciono i bracciali, no? Li metti sempre».
Simone sbatte le palpebre e annuisce. «Sì, sì, mi piacciono, solo che...».
«Che?».
«Niente, non...» non credevo potessi mai farmi un regalo.
Non lo dice a voce alta.
Piuttosto «Perché sei così fissato con la luna?» pone quel quesito che si trascina dietro da settimane per alleviare il subbuglio che ha nel petto.
In risposta, Manuel scrolla le spalle. «Boh, credo sia affascinante» replica «e poi ce sta pure quel cliché assurdo, no? Che la luna ce mostra sempre una sola faccia e ne esiste n'artra che noi non vedemo mai. Se ce pensi bene, è 'n po' come le persone: te mostrano quel che vojono, come vojono, ma ce sta sempre 'n lato che non conosci».
Simone lo ascolta in religioso silenzio. Se si sofferma sulle ultime cose che gli son successe, ad esempio, lui ha un sacco di lati che tiene nascosti: la propria sessualità al mondo intero, il fatto di possedere le credenziali di un blog che rischia di rovinare vite a Manuel.
Una parte di sé è convinta che sia meglio che l'altro non sappia nulla, per quanto si fidi di lui – preferisce sia così, altrimenti darebbe di matto.
Ecco, forse è vero che le persone sono un po' come la luna.
Siamo tutti come la luna.
«Me lo metti?» decide di cambiare discorso, di focalizzarsi sul bracciale per non perdersi in congetture strane che potrebbero svilupparsi nella propria testa.
Con un sorriso sulle labbra, Manuel raccoglie l'accessorio tra le dita, apre il gancio e sistema il regalo attorno al polso dell'altro ragazzo. «Te sta 'n po' largo» nota.
«Non fa niente, si può stringere» Simone lo rassicura «e grazie, comunque».
«Figurati, è 'na cazzata».
«È un regalo, qualcosa che hai preso pensando a me, nel senso— potrebbe essere pure una foglia raccolta da per terra, ne sarei felice lo stesso».
«Te sei tutto matto».
Curva gli angoli della bocca verso l'alto - che è un po' matto è vero, ma non ha mentito, pensa davvero ciò che ha detto e reputa un tesoro qualsiasi dono gli sia mai stato dato, compreso quel bracciale, soprattutto quel bracciale.
«Senti, uhm— stavo a pensa' a n'artra cosa».
«Oddio, oggi me fai paura».
Manuel alza gli occhi al cielo e sbuffa. «Daje, só serio» puntualizza.
«E dai, cosa?».
Fa una breve pausa, inclinando il capo su di un lato. Esita per una frazione di secondo, dopo esordisce: «Vuoi uscì co' me?».
A Simone rischia di andare per traverso della saliva. Ma come sono passati dal quasi non parlarsi a quello?
«Manuel...» annaspa.
«Lo so che vuoi dì, che avemo deciso de fa' 'e cose de nascosto pe' quella faccenda della mappa e der blog, ed è giusto. Poi c'avemo mille questioni irrisolte, ner senso che mica hai detto apertamente d'esse gay come io non ho detto d'esse bisessuale e...».
«Sei bisessuale?» crede di aver recepito solo quella parte del discorso, seppur nolente.
Manuel inarca un sopracciglio e gli riserva un'occhiata un briciolo tagliente. «Non è questo er punto», fa notare «e dicevo— só cose che riguardano la scuola, no? Però se annamo da n'artra parte, voglio dire, Roma è immensa, enorme, mica ce conoscono da ogni parte, sai che je frega alla gente dall'altra parte della città se ce vede bere 'na birra insieme? Niente, perché non sa chi siamo e non je importa».
«È la prima volta che dici a qualcuno di essere bisessuale?».
«Simò, davvero hai sentito solo quello?».
Simone mentirebbe se dicesse il contrario. Si morde piano il labbro inferiore. «No, cioè—sì, più o meno» balbetta.
«Oh, Gesù», Manuel si passa una mano sul volto «sì, comunque: sei er primo. Mò ce esci co' me?».
Pone quel quesito nella maniera più naturale possibile, senza farsi problemi: che all'esterno se ne fa fin troppi, ma con chi è ora al suo fianco, essi paiono sparire.
E Simone lo percepisce, lo vede in modo cristallino, scorge la sua leggerezza. Così allunga una mano, fa intrecciare le loro dita sopra al lenzuolo.
«Ci esco con te» sussurra.
«'Sto weekend?».
«Ho allenamento questo sabato».
«Te passo a prende' al campo».
«Non sai manco dov'è».
«Oh, e me manni 'a posizione, quanti problemi te fai! Magari vengo 'n po' prima, vedo gioca' er rugbista cresciuto nelle mischie».
«Non conosci le regole».
«Me le spieghi. O non vuoi che venga?».
Sono mesi che voglio che tu venga. Scuote piano il capo. Si sporge in avanti per poterlo baciare delicatamente sulle labbra. «Comincio alle quattro, dura due ore» soffia.
«Ma che so', i lavori forzati?».
Gli viene da ridere. «Abbiamo una partita importante settimana prossima».
«Pensa te».
***
Sono le due di sabato pomeriggio.
Simone è seduto alla scrivania, col pc connesso al blog mappadellavergogna.
Ha provato altre tre volte a cancellarlo, ma è stato inutile. La posta in arrivo ha continuato a gonfiarsi durante quei giorni: sono tutti messaggi anonimi, che riportano potenziali scoop, gossip, voci da corridoio da far circolare.
È sorpreso dalla quantità ricevuta. Pare che le persone siano contro il blog e chi lo gestisce e che, però, continuino ad alimentarlo: è un controsenso ed è incoerente.
Non dovrebbe sorprendersi.
Gli esseri umani sono quanto di più incoerente possa mai esistere.
Per curiosità, ne ha letti alcuni, cercando quelli che lo riguardavano:
anonymous said
ho visto luna della 4B imboscarsi nei bagni di una discoteca con gianni della 4A... ma non era impegnata?
anonymous said
Forse è qualcosa che va oltre questo blog, ma credo si debba sapere che Michael della 5^B è un violento misogino di m3rda. Stategli lontano.
Su questo, Simone annuisce e lui aggiungerebbe pure razzista e omofobo. Va avanti:
anonymous said
Matteo della 4^B ha il vizietto di inviare dick pics su instagram ed è pure piuttosto insistente se non gli rispondi... qualcuno dovrebbe dirgli di placarsi e che ce l'ha piccolo
Nemmeno lo sorprende ciò che legge.
anonymous said
Ma non è che si possono avere altre foto di questi Simone e Manuel? Sono carucci...
Simone aggrotta le sopracciglia e rischia di sputare il caffelatte che sta sorseggiando direttamente sulla tastiera.
In che senso carucci? Perché volete foto nostre? Siete feticisti?
Strabuzza gli occhi e solo a tal punto chiude la pagina del blog e, poco dopo, il portatile.
Scuote il capo, ancora incredulo e perplesso, mentre si alza in piedi. Finisce di riempire il borsone da palestra che ha appoggiato sul letto – manca giusto un asciugamano; chiude la zip ed è pronto per recarsi al campo da rugby per l'allenamento.
Infila il telefono nella tasca anteriore della tuta che indossa senza controllare le notifiche. Abbandona la stanza, scendendo rapidamente le scale. Poco prima che possa raggiungere la porta, tuttavia, un finto colpo di tosse di Dante lo blocca all'ingresso.
Si volta, giusto per scorgere il padre in piedi a qualche metro di distanza, con le mani intrecciate dietro alla schiena. «Vai da qualche parte?» viene chiesto.
Simone scrolla le spalle con noncuranza. «Ho allenamento» taglia corto.
«Di solito non è alle quattro? È un po' presto».
«Seh, ma vengono a prendermi dopo, non saprei dove lasciare la moto, quindi devo prendere l'autobus e ci metto un sacco».
«E chi viene a prenderti?».
Ed ecco che è tornato il padre impiccione, si ritrova a pensare. «Un amico» mente – o forse no, non lo sa.
«Lo conosco?».
«Faccio tardi».
«Quando parliamo un po', Simone?» Dante non pare voler mollare.
Ma non è una cosa che il figlio vuole fare, soprattutto non in quel momento. Per cui «Un giorno che non sono in ritardo, mh?» dice.
Che poi non è nemmeno in ritardo, ha tutto il tempo del mondo e in largo anticipo, ma tant'è.
Non vuole proseguire oltre, pertanto si congeda in quel modo, salutando l'uomo con un cenno del capo e abbandonando la villetta.
In effetti, raggiungere il campo da rugby in autobus è arduo, una vera tortura. Con la moto ci avrebbe messo meno tempo, sarebbe stato molto più comodo.
Spera che Manuel si ricordi di andare a prenderlo.
È la cosa a cui pensa per tutto il tragitto, quando si cambia negli spogliatoi, quando inizia a correre per il riscaldamento che impartisce loro l'allenatore.
Non sa se i compagni di rugby sappiano qualcosa.
Okay, il blog pare essere circoscritto al Da Vinci e a chi lo frequenta, ma è possibile che qualcuno di loro sia in contatto tramite rete di conoscenze con gente di quel liceo; nota che due di loro lo guardano un po' storto durante la corsa, bisbigliano qualcosa all'orecchio l'uno dell'altro.
Vorrebbe ascoltare, poi pure chiedere se hanno qualche problema.
Alla fine, lascia perdere.
Decide di farsi gli affari suoi, di seguire le indicazioni dell'allenatore.
Che poi, alla fine, sono tutti distratti dai lanci che provano, dagli scatti, che i bisbigli cessano e non trovano più spazio.
Simone è esausto dopo un'ora e qualcosa di più.
Si è sporcato di terra sulle guance e pensa di aver ricevuto un colpo abbastanza forte su un fianco da averci guadagnato un livido.
Adesso è in piedi, con le mani sulla vita e il fiatone. Strizza gli occhi a causa dei raggi di un pallido sole che gli colpisce la faccia. Non è il suo turno per provare uno degli schemi di gioco della squadra - si sono divisi in due gruppi - perciò deve attendere di scendere di nuovo in campo.
È in quel frangente che, lanciando uno sguardo verso le transenne che costeggiano quel grosso rettangolo d'erba, osserva Manuel con gli avambracci appoggiati ad una di esse.
È venuto sul serio.
Ne è sorpreso.
Più che sorpreso, percepisce il cuore battergli forte nel petto, rimbombare contro lo sterno.
Non esita quando si allontana dai compagni di squadra per raggiungere il ragazzo che sta assistendo al loro allenamento, anche se vorrebbe aggiustarsi un po' ed è convinto di avere un aspetto terribile, tra lo sporco in volto e il sudore.
«Oh, ma che ve pagano pe' quante volte cadete?».
A Simone viene quasi da ridere considerando che quello è il primo commento che sente provenire dalla sua bocca.
«Sarei ricco sfondato, in tal caso» replica. Ha raggiunto la transenna, la può toccare con una mano, la stessa che vorrebbe indirizzare altrove, ma si trattiene. Gli è di fronte, inclina il capo su di un lato.
«Non credevo venissi davvero».
Manuel aggrotta le sopracciglia. «T'ho detto che venivo a prenderte», rimbecca «io mantengo sempre le promesse».
«Che ne so, magari— magari avevi cambiato idea».
«Non ho cambiato idea. Ho trovato pure 'n posto dove anna' dopo».
«Dove?».
«Dove te fanno paga' 'na margherita dieci euro e fidate che nessuno che va a scola nostra va a spende' quella cifra, semo dei poveracci».
«E noi vogliamo pagare dieci euro per una margherita?».
«No, me scoccia 'n po', però non fa niente. Al limite paghi tu».
Simone schiude le labbra, incredulo, ma dopo ride e scuote il capo. «Okay, dai» esclama «io ho ancora venti minuti, più o meno, e ci sono».
«Ho ancora venti minuti pe' capì come funziona 'sta roba».
«Poi se vuoi ti spiego».
Manuel annuisce. Vede l'altro ragazzo fare un passo indietro e allora «Spe', vie' qua» dice e gli fa un cenno di avvicinarsi.
Per istinto, Simone si guarda furtivo intorno: i compagni di rugby e l'allenatore sono impegnati, non prestano attenzione a loro, e non c'è nessun altro tra gli spalti che possa vederli.
Così obbedisce, compie due passi in avanti per diminuire la distanza che li separa.
A quel punto, Manuel allunga una mano quel che è sufficiente per poter sfregare un pollice sulla sua guancia e tentare di rimuovere le tracce di terra dal viso.
Simone trattiene il respiro. Quel minuscolo contatto vale mille ore di corsa durante un allenamento: gli smorza il fiato, lo rende debole.
E manco gli importa più che qualcuno li veda.
Che male ci sarebbe? Lo vedrebbero felice.
È così brutto vedere qualcuno felice?
«Fatte 'na doccia prima che andiamo, però, mh?» scherza Manuel e abbozza una risata.
Simone si limita ad annuire e, stavolta controvoglia, torna dalla squadra per finire l'allenamento.
***
Ci vuole qualcosa di più di venti minuti - quarantatré per l'esattezza.
Manuel attende con pazienza, con il fondo della schiena appoggiato alla sella della sua moto e le mani nelle tasche anteriori dei jeans strappati che indossa.
Simone lo raggiunge che ha i capelli ancora umidi per la doccia che ha fatto e il borsone nero caricato su una spalla. È salutato con un sorriso, frattanto che gli viene sporto un casco, lo stesso che mette in testa.
Non parlano.
Si susseguono soltanto movimenti naturali che paiono appartenere loro da sempre: se qualcuno li vedesse da fuori, ad esempio, direbbe che sono uno il riflesso dell'altro.
Nel modo in cui salgono in sella, Manuel alla guida con il borsone nero tra i piedi, cercando di non farlo cadere, Simone seduto dietro, che si aggrappa al suo busto; non ha paura di stringerlo troppo, al contrario, quando inizia a sentire il vento sfiorargli il viso, pone una mano sul suo petto, sul cuore, mentre mantiene l'altra sul suo addome.
Riesce persino ad affondare il naso sulla sua nuca ed osa ancora di più quando lascia un bacio sulla porzione di pelle scoperta sulla spalla tra il casco e il bordo della giacca.
E Manuel non si smuove, gli permette di compiere ogni gesto senza opporre resistenza, senza mostrare una reazione infastidita.
Al contrario, fermi ad un semaforo su una strada poco trafficata, pone un palmo sopra la mano ferma sul proprio petto. Dura poco, un brevissimo istante, ma significa tutto.
Anche ciò che avviene dopo è bello.
Sebbene si tratti di una semplice pizza margherita che costa troppo, che è sottile e non rende giustizia, pure se il vino che prendono insieme è leggermente annacquato.
Sono particolari a cui Simone non bada fintanto che è in compagnia di Manuel che gli parla, che gli racconta un'infinità di cose che non sapeva, che gli parla ancora della luna, delle poesie che legge, di Neruda che è il suo preferito.
E dopo quella pizza scadente, si ritrovano in un pub sempre dalla parte opposta di Roma, seduti ad un tavolo alto su due sgabelli neri, con delle birre chiare che hanno appena iniziato a bere.
Simone tiene la testa appoggiata su di una mano. È passata la mezzanotte, ha un sonno tremendo; ciò nonostante, potrebbe restare sveglio per ore ed ore pur di chiacchierare con Manuel e passare ulteriore tempo con lui.
«Perché non ne scrivi di tue?» pronuncia ad un tratto. Non sa se la sua frase si incastri bene al discorso. È probabile di no, dal momento che Manuel aggrotta le sopracciglia, perplesso.
Beve un sorso della sua birra. «Di cosa?» domanda.
«Di poesie», spiega Simone «ne saresti capace. L'anno scorso ne hai recitata una in classe, non era male» sospira e accenna una risata nervosa «togliendo a chi fosse dedicata, insomma».
Non c'è bisogno di un riferimento specifico: Manuel si ricorda bene di quella specifica poesia, dedicata ad Alice. Rimembra persino l'attimo in cui ha pensato di scriverla, di come vedeva in quella donna troppo distante da sé una scappatoia, un posto dove sentirsi grande, realizzato, seppur ancora irresponsabile.
La frenesia e la passione che provava con lei che lo facevano sentire vivo. Ed è diverso da ciò che prova ora.
Ciò che prova con Simone.
Presume che ci vorrebbe più impegno e delicatezza per scrivere una poesia per lui, per tal motivo ha lasciato quel compito ad uno dei suoi scrittori e poeti preferiti, come se potesse svolgerlo meglio.
Ad alta voce, tuttavia, non è qualcosa che ammette.
Taglia corto con: «Magari un giorno».
«E me le farai leggere?».
«Sarai il primo» su quello non mente.
Sarebbe il primo e l'unico.
Gli angoli della bocca di Simone si curvano appena verso l'alto. Ha le palpebre stanche, si potrebbero chiudere di lì a poco. Non è nemmeno molto lucido.
Per questo senza riserva alcuna allunga la mano libera, la posa su di un lato del viso di Manuel, gli accarezza una guancia con un pollice.
Non viene scansato o allontanato.
Manuel si bea di tal contatto, ci preme ancora di più il volto sopra.
Che in quel pub sono solo due sconosciuti agli occhi degli altri e, se vogliono ridere di loro, possono farlo.
«Stai morendo di sonno» bisbiglia Manuel.
Simone si affretta a scuotere la testa e socchiudere le palpebre. «Non è vero» biascica.
L'altro ragazzo ride. «Sì, invece», ribadisce «vado a pagare. M'aspetti fuori, vicino alla moto?».
«Devo pagare anche io».
«Paghi quando mi inviti tu».
La mente di Simone è già in fermento per quella singola affermazione, per la convinzione che ci sarà una prossima volta perché quella loro prima volta è andata bene e non potrebbe chiedere di meglio.
Dunque, alla fine, si limita ad annuire e a seguire le sue direttive: lo lascia andare alla cassa per pagare, mentre lui si infila la giacca ed esce da quel pub stile irlandese per raggiungere la moto che hanno parcheggiato in una stradina adiacente.
Quel quartiere non lo conosce, non pensa di esserci mai stato; è scomodo, lontano da casa, però crede potrebbe diventare il loro rifugio.
Non conosce nemmeno il nome, forse qualcosa come San Basilio, ma non ne è sicuro.
Si appoggia alla sella con il fondo della schiena.
Ha davvero mentito: sta morendo di sonno, potrebbe addormentarsi pure in quel preciso istante, ragion per cui abbassa le palpebre per un attimo, a riposarsi gli occhi.
Dura poco o magari tanto. Quando le alza, nota che Manuel lo ha raggiunto.
Simone scorge il suo sorriso nella penombra, percepisce la sua mano che delicata gli sfiora un fianco.
E sono soli, in mezzo ad una strada circondata da palazzi pieni di murales colorati.
Pare un sogno.
Tra i colori, stanno per baciarsi.
Però ciò non fa in tempo ad accadere, le loro labbra non hanno occasione di entrare in contatto.
Perché quelle sensazioni di leggerezza e felicità, di stentata felicità, vengono travolte e distrutte da violenza, urla, dolore.
È tutto confusionario, caotico.
Simone non riesce a vedere nulla poiché viene strattonato.
Si ritrova a terra, sull'asfalto, mentre dei forti colpi gli sono inferti sulla schiena e sull'addome; questi ultimi lo costringono a piegarsi su sé stesso, ad assumere una posizione fetale per potersi proteggere in qualche modo - ma neppure quello serve.
Non serve dal momento che le botte giungono pure al viso.
Cerca di aprire gli occhi per scorgere chi mai ne sia l'artefice; c'è ancora più caos quando lo fa e peggiora nell'attimo in cui riesce ad udire: «Froci di merda!».
Ed ecco che tutto crolla, che Simone nemmeno più ci prova a difendersi, quasi fosse tutto inutile.
La sua preoccupazione si sposta su Manuel, lo cerca in quel casino, in quell'inferno che lo sta risucchiando.
Lo cerca almeno finché un colpo assestato sulla pancia non gli smorza il respiro e crede di morire in tal preciso istante.
Che, forse, morire sarebbe una soluzione, adesso.
D'improvviso come tutto è iniziato, tutto finisce.
Permane il dolore - ovunque, gli duole ogni centimetro del corpo.
Simone strizza gli occhi.
È disteso sull'asfalto, su di un fianco. La sua vista è appannata, cerca di mettere a fuoco ciò che ha intorno.
Cerca Manuel con disperazione.
Lo vede poco distante, a terra, a ridosso del muro in mattoni del palazzo che delimita quella strada; è privo di sensi.
«Manuel...» sussurra solo, gli fa male parlare.
Vorrebbe raggiungerlo, assicurarsi del fatto che stia bene.
Non ci riesce.
Il dolore è troppo forte e lo costringe ad arrendersi.
***
Simone non ricorda con esattezza cosa sia successo dopo.
Non ricorda come è arrivato a casa, in quali condizioni, se ha fatto rumore tanto da svegliare Dante e Virginia.
Non ricorda se ha discusso con loro, se ha dovuto inventare scuse oppure è sgattaiolato nella propria stanza senza troppi problemi.
È tutto troppo confuso.
Adesso sa solo che è mattina - tardi o presto - ha la persiana della portafinestra della sua stanza chiusa e l'unica fonte luminosa è l'abat-jour sul comodino.
È in piedi davanti allo specchio a figura intera posto in un angolo. Ha indossato abiti morbidi, dei pantaloni grigi di una tuta e una felpa col cappuccio del medesimo colore.
Solleva appena quest'ultima per controllare le lesioni subite.
Ha un grosso ematoma che si espande su di un fianco, da sotto il costato fino al bacino; sta virando al viola e gli fa male quando respira. Ne sfiora i bordi con la punta delle dita e ciò gli procura ulteriore dolore.
Anche se quello fisico non è niente in confronto a quello che prova dentro.
Ha pure un livido sotto l'occhio destro ed è l'unica lesione che non riesce a celare in alcun modo.
Potrebbe metterci del correttore, forse.
La mano gli trema.
In quel momento, il telefono che ha abbandonato sul letto comincia a vibrare.
Non gli occorre guardare lo schermo e appurare chi lo sta chiamando, aspetta una telefonata da Manuel da ore.
Così si precipita a rispondere: «Manuel? Dove— stai bene? Mi hai detto che mi chiamavi appena possibile, sono ore che aspetto e...».
Segue un attimo di silenzio, tanto che Simone pensa di aver sbagliato a parlare, a farlo di getto; quindi tace, trattiene il respiro.
Poi una risposta sopraggiunge: «Sto bene, Simó, non preoccuparti».
La sente la sua voce spezzarsi, il suo tono rauco.
Si lascia cadere di peso seduto sul letto sfatto. «Sicuro?» sussurra «Il braccio ti faceva male, forse—forse dovevamo andare in ospedale e...».
«No, niente ospedale».
«Ma...».
«Ho messo 'na fascia, non fa niente, davvero. Tu come stai?».
Sto malissimo. «Sto bene», singhiozza «posso—posso venire da te se vuoi e possiamo...».
«È meglio di no, Simo...».
«Perché?».
«Perché ce sta mia madre e...» Manuel fa una brevissima pausa.
Attraverso la cornetta, Simone riesce a recepire il suo respiro affannoso.
Forse anche a lui fa male respirare.
«Magari—magari è meglio se per un po' ce evitiamo».
Forse il dolore vero sopraggiunge soltanto con quella frase sentita uscire dalla sua bocca.
«Cosa? Tu—perché? Non...».
«Tanto ci vediamo lo stesso a scuola e...».
«Non è lo stesso».
«Lo so che non è lo stesso, ma—quello che è successo...».
«Ci è successa una cosa brutta, però non possiamo lasciare che questo ci...» Simone non riesce a finire la frase.
Vorrebbe dire tante cose, vorrebbe dire che non è giusto, che hanno subito qualcosa di terribile, ma che questo non dovrebbe frenarli, non dovrebbe impedire loro di vivere.
Di viversi.
«Ti prego...» non vorrebbe piangere, non vorrebbe crollare con così tanta facilità. Eppure si sgretola, si riduce in mille pezzi, in macerie sopra quel letto con le lenzuola sgualcite e il silenzio della sua camera buia.
Dalla parte opposta, Manuel rimane muto.
Simone non può vederlo, però lui si trova nella sua stanza, rannicchiato a terra con le spalle contro una parete; ha un braccio fasciato, un grosso livido sotto l'occhio e un labbro spaccato. Non sono le ferite fisiche a fargli più male.
È maceria anche lui.
Sono macerie insieme.
«È solo per un po', solo finché... solo per un po'».
«Non è giusto».
Lo sanno entrambi.
Lo sanno benissimo e a Simone si spezza un briciolo il cuore.
E si spezza pure quello di Manuel.
«Ci vediamo a scuola» ribadisce quest'ultimo «e quando non siamo lì, tu puoi—guardare la luna. Sarà un po' la stessa cosa».
«Non è vero» ciò che dice Simone non è neppure comprensibile. Si mangia le parole tra i singhiozzi.
Vorrebbe aggiungere qualcosa, però la chiamata viene interrotta prima che ciò si verifichi.
Rimane soltanto lui col telefono in mano e l'anima a brandelli, di pari passo col corpo.
Per un periodo di tempo indefinito, Simone fissa il vuoto.
Immagina che pure il mondo potrebbe smettere di girare e lui non se ne renderebbe conto.
Si lascia investire dai propri pensieri, perlustra ogni alternativa che avrebbe potuto verificarsi quella fatidica sera, ogni risvolto.
Si focalizza sulla voce di Manuel, sulla sua risata, sulle sue carezze, sulla sensazione di benessere che viene spazzata via dal dolore, dalle urla e dagli insulti.
Riconoscerebbe la voce di Manuel tra mille.
Ma adesso fa capolino nella sua mente un'altra, che appartiene ad un individuo diverso di cui, però, sa il nome.
Lo sguardo di Simone appare svuotato, assente e vitreo quando si alza dal letto, soltanto per trascinare i piedi verso la scrivania.
Si lascia cadere di peso sulla sedia girevole e apre il portatile. È sufficiente premere un tasto per avviarlo, un secondo e un terzo per avviare il browser.
I messaggi su mappadellavergogna sono aumentati, tuttavia quelli nuovi non sono di suo interesse.
Ce n'è uno in particolare che cerca, che ricorda di aver tralasciato poiché ritenuto di poca rilevanza.
Nuovo post
È così facile cliccarci sopra.
Le sue dita scorrono sulla tastiera:
Non fingiamoci particolarmente sorpresi: Michael della 5^B è un violento misogino. Chiedete alle ragazze che ha frequentato e accettate il consiglio: stategli alla larga.
Preme invio, senza alcuna esitazione.
Non riesce a pentirsi.
Non più.
***
[Note autore:
Purtroppo non fa ridere.]
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