NEGAZIONE
«Ma 'n che senso c'avete tre buchi?».
L'esclamazione di Matteo fa ridere tutta la classe.
Simone pensa non ci sia niente da ridere, ma tant'è.
Il loro nuovo insegnante si chiama Massimiliano Coverti, ha poco più di trent'anni, abbigliamento sportivo e folti capelli lisci e castani; tiene le labbra curvate in un sorriso, con la parte bassa della schiena appoggiata alla cattedra presente nella palestra - una di quelle più piccole - dove si svolge la prima lezione di educazione sessuale, fortemente volute dalla preside Smeriglio.
C'è una lavagna bianca dietro di lui, sulla quale ha scritto con un pennarello nero Anatomia femminile e maschile.
I componenti della 4^B sono accomodati su delle sedie di plastica rigida verde scuro, disposte su quattro file parallele; Simone occupa un posto in una delle ultime e cerca costantemente con lo sguardo Manuel che, invece, in maniera un po' insolita, si è piazzato tra le prime file - non capisce perché.
Ringrazia il fatto che la loro classe abbia il turno da singola e non si debba mischiare ad altre, come è successo in differenti sezioni.
«Ti sorprende questa cosa, Matteo?» chiede il professor Coverti, inarcando un sopracciglio.
«Boh, sì», replica il ragazzo, incrociando le braccia al petto «cioè, pensavo massimo due, mica tre».
«Vedi? La vostra preside direbbe che è proprio per questo che vi occorre questo corso!» Coverti ridacchia e gli punta un dito. «Pensavi uscisse tutto dallo stesso posto?».
«Uno davanti e uno dietro».
«Invece la natura ha voluto esagerare e alla donna ne ha dati tre: uretra, vagina e ano».
«Superiori anche anatomicamente» commenta Luna. Si trova in seconda fila, ha incrociato le gambe sulla sedia. Chicca è seduta al suo fianco, le batte il cinque con una mano.
Stanno prendendo tutto alla leggera: solo questo pensiero trafigge Simone, nonostante il muro non ci sia più; è stato riverniciato, i nomi sono spariti.
È trascorsa una settimana, però, e nessuno smette di parlarne.
Oltretutto, quelle lezioni non sono come si aspettava - non sa manco cosa davvero s'aspettasse - ma non riesce a provare altro che imbarazzo, misto di terrore e voglia di fuggire via.
Sarà che il loro insegnante ha un aspetto più che giovanile e non ha idea di quanto, in effetti, voglia imparare da lui.
Per sua fortuna, la lezione dura soltanto un'ora ed è un supplizio che riesce a sopportare - in quel caso, per altri cinque minuti.
Cinque minuti che paiono un'eternità.
Succede, quando ci si annoia - anche se Massimiliano Coverti è tutt'altro che noioso.
All'uscita, Simone perde di vista Manuel non appena varca la soglia del portone. Non riesce a stargli dietro; non ce ne sarebbe nemmeno motivo, del resto.
Raggiunge la propria Vespa bianca con passo strascicato e il capo basso. Solleva la sella per recuperare il casco, lo stesso che poi infila sulla testa.
«Simo? Simo!» per quanto desideri che sia la sua voce a raggiungergli le orecchie, questa suona più squillante e acuta per appartenergli.
Difatti, a Simone è sufficiente far guizzare di poco gli occhi per scorgere una ragazza bionda con un sorriso ampio stampato in volto che gli si avvicina.
Laura gli si appropinqua, rallentando il passo man mano che si fa vicino. «Fighe 'ste lezioni, no?».
Simone scrolla le spalle, frattanto che chiude lo scomparto da dove ha recuperato il casco e sale in sella. «Seh, più o meno» borbotta.
«Non pensi ci siano utili?».
«Lo credevo, ma praticamente è frequentare una lezione di scienze. Niente di che».
«Vabbè, era solo la prima». Laura si guarda intorno. I loro compagni chiacchierano lontano, alcuni si sono già avviati verso casa con la loro moto o con i mezzi pubblici. «Senti, uhm», biascica allora, dopo «posso chiederti una cosa?».
Lui annuisce. Interpretando il suo tono che si fa più basso e quieto, già può immaginare dove vada a parare, ma decide di starla a sentire. «Che?».
«Quella cosa sul muro...».
«Hanno cancellato tutto».
«Sì, ma le cose che c'erano scritte ce le ricordiamo. Uhm, sono giorni che penso di chiedertelo e...». Laura tentenna, si guarda ancora intorno, furtiva, e si avvicina ancora di qualche centimetro al ragazzo. «Quella cosa con Manuel— voi due... Davvero?».
Simone serra la mandibola: a Laura ha confidato, in passato, il fatto che gli piacciano i ragazzi, che ce n'è uno che gli piace più di tutti e corrisponde al nome di Manuel Ferro, quindi è abbastanza ovvio che lei sappia. Non se la sente neppure di negare con l'unica persona con la quale si è mai confidato, pertanto si ritrova ad annuire, piano.
«Oh— e quindi voi due adesso...».
«Facciamo finta di niente».
«E tu ci riesci? A far finta di niente?».
No, è una tortura. «Non importa, è stata una cosa così».
«Sai che non devi nasconderti per questo, mh? Quello che hai detto l'altro giorno in classe, che tu non sei...».
«Laura— siamo in una classe co' uno che si sorprende se le donne hanno tre buchi. Se dicessi una cosa del genere, passerei i prossimi due anni a ricevere domande tipo se faccio il maschio o la femmina, perché questo è il livello».
«Lo sai che Matteo è un coglione».
«Lo sono tutti in 'sta scuola» Simone sbuffa e accende il motore girando la chiave. «Fidati, è meglio così».
Laura non ne è molto convinta. Sospira, sommessa, e si porta una ciocca di capelli dietro ad un orecchio.
«Vuoi un passaggio?» le viene chiesto.
«Oh, no, vado da Pin, è qui vicino, faccio due passi».
«Non torna a scuola?» domanda Simone.
Pin è uno degli alunni della 4^B che, a causa di vari problemi personali, ha seguito lezioni da casa per non perdere l'anno; ha detto a tutti che sarebbe tornato con l'inizio delle lezioni a settembre, ma nessuno - a parte Laura, che è la sua ragazza - lo ha più visto.
«Tra qualche giorno», replica lei «non vedo l'ora».
«Salutamelo, mh?».
«Sarà fatto».
***
Simone rientra a casa nel tardo pomeriggio.
Parcheggia la moto nel viale di ciottoli di pietra davanti alla villetta dalle pareti ocra dove vive insieme al padre Dante e la nonna Virginia.
Spera di non incontrarli, almeno fino a cena; nulla contro la nonna - anzi, la adora - ma non ha voglia di parlare con nessuno, vuole solo—
Ecco, come non detto.
Fa appena in tempo a varcare la soglia della porta dell'abitazione che il professor Balestra è in piedi davanti a lui, con gli occhiali abbassati sul naso e il suo telefono in mano. «Oh, sei arrivato».
«Seh», taglia corto il figlio, chiudendosi l'anta alle spalle «c'era la prima lezione di quella roba oggi».
«Sì, lo so» borbotta Dante. Blocca il cellulare tramite il tasto laterale e lo ripone nella tasca posteriore dei pantaloni blu che indossa. Poi pone entrambe le mani sui fianchi. «La preside ci ha riempito di opuscoli informativi».
«Pensavo avesse messo pure voi a fare lezione».
«Poco ci mancava, ma sarebbe costato troppo!» sbuffa. «Ho un altro casino da sistemare».
«C'entra la Girolami, per caso?».
«È successo un secolo fa».
«Era sposata, un secolo fa, così come lo è oggi».
«Sì, possiamo non infierire? Per favore?».
Un tempo, con molta probabilità, Simone si sarebbe arrabbiato. Adesso, però, la prende più sul ridere.
Il rapporto col padre è migliorato, di recente, dopo che hanno trovato un certo equilibrio, dove che l'uomo gli ha rivelato delle verità che gli ha tenuto nascoste per protezione.
Procedono a piccoli passi, per risolvere ogni incomprensione.
È necessario tempo, cautela e parole per farlo.
«Vabbè», borbotta il ragazzo «vado a fare una doccia prima di cena». Fa per avviarsi verso le scale, ma il padre lo frena, tenendolo per un braccio e dunque «Che c'è?» gli viene da domandare.
«Ho letto quel che c'era scritto su quel muro» osserva Dante «e a chi era collegato il tuo nome...».
«Quindi?».
«Quindi— vuoi parlarmi, per caso?».
No, di questo no. «Non c'è nulla da dire», cerca di chiudere la conversazione «si saranno inventati cose per creare un po' di dramma. Non tutto ciò che c'è scritto lì sopra è la verità».
«Mh-m, puoi dirlo anche al marito della Girolami?».
Dallo sguardo che gli vede stampato in viso, Simone sa bene che non è bastata quella spiegazione, che magari il padre ha capito qualcosa - sicuro che sta mentendo - ma si sono promessi di parlare, di avere fiducia l'uno dell'altro, per cui spera che ne tenga fede e si impicci meno.
Poi glielo dirà.
Un giorno, non ora.
Quando sarà pronto.
«Quello mi sa che devi risolverla te».
«Seh, immaginavo».
Con un'ultima fiacca risata, Simone si congeda, correndo su per le scale di legno scricchiolanti che lo conducono al piano superiore. Lascia indietro l'eco del professor Balestra che dice: «La nonna ha fatto il pasticcio di riso per stasera!».
Sotto l'acqua calda, Simone ci rimane almeno il doppio del tempo rispetto al solito, con la musica messa al massimo volume su Spotify a riprodurre una playlist pop anni Duemila. Canta addirittura quei brani, mentre si lava i capelli e si insapona.
Per fortuna che nessuno può vederlo.
Quando esce dalla cabina di vetro, indossa l'accappatoio azzurro. Lo specchio sopra al lavandino di quel bagno con le mattonelle beige si è appannato; non si disturba a pulirlo, piuttosto si gode il tepore di quel piccolo ambiente e il calore dell'acqua sulla pelle che non è ancora scemato.
Ha abbandonato il telefono su un mobile bianco a ridosso della parete accanto alla porta; sta ancora suonando una canzone di quella playlist - tipo ora aleggia nell'aria Ops.. I did it again! di Britney Spears.
Simone picchietta con due dita sullo schermo, giusto per controllare ci siano notifiche che si è perso mentre era sotto la doccia.
Ed in effetti qualcosa c'è - qualcosa di troppo perché le notifiche sono 447, tutte dal gruppo della classe 4^B; ricorda di averlo silenziato, tempo fa, ma forse ha impostato una settimana, invece di per sempre.
Suo errore, lo riconosce.
Apre la conversazione. Non crede di aver voglia e tempo di leggere tutta quella sfilza di messaggi inviati dai compagni - che la maggior parte sono stickers inutili, tra parentesi, che, però, salva lo stesso.
Qualcuno lo scorge, quantomeno per capire l'argomento che li agita tanto. Tre parole sono la chiave: festa, venerdì, birra.
Alza gli occhi al cielo e non che possano parlare d'altro, pensa.
Decide di lasciar perdere e non rispondere, almeno per il momento. Preferisce asciugarsi corpo e capelli, togliere quell'accenno di barba che gli è cresciuta sulla linea della mandibola. In seguito, indossa un pantalone della tuta blu scuro e una maglia grigia a maniche lunghe.
È in camera propria, scalzo e con i ricci scuri ancora un po' umidi quando il cellulare che ha in mano comincia a vibrare.
Aggrotta le sopracciglia a notare che è il contatto di Manuel che lo sta videochiamando - e non capisce perché l'altro non possa semplicemente chiamarlo, invece di voler per forza usare FaceTime.
Tra parentesi, ha un aspetto orrido: è appena uscito dalla doccia, ha le guance arrossate, gli occhi lucidi, le labbra gonfie.
E non sa perché si sta preoccupando per dei particolari così stupidi - tanto a Manuel che interessa?
Risponde.
La sua immagine appare sullo schermo dapprima sgranata, dopo più a fuoco. Simone non riesce a capire dove si trovi, c'è poca luce - magari a casa, forse nel suo garage.
«Oh, Simó?».
«Mi puoi anche mandare solo un messaggio a volte, eh» replica, ridendo, e si siede sul letto a gambe incrociate.
«Me scoccio a scrive, così faccio prima».
Adesso vede meglio: è in camera sua.
Simone ci è stato soltanto una volta, ma ricorda che ha le pareti arancioni e numerosi poster di rock-band appese al muro, oltre che raffigurazioni di moto.
«Vabbè, che volevi?».
«Hai letto sul gruppo?».
«Qualcosa. Poi l'ho silenziato».
Manuel rotea gli occhi. «Ce vieni alla festa? La fanno a casa de uno de quinto».
«Chi?».
«Che ne so, Simó, uno! Ha invitato mezza scola».
«E ha pensato di invitare la classe nostra?».
«Matteo c'ha i suoi giri. Allora?».
Simone non ne ha molta voglia: la mappa della vergogna ha instillato in lui nuove paranoie, risvegliato paure che credeva sopite. Non gli va di entrare in una giungla di ragazzi e ragazze che possono fraintendere qualunque gesto, tessere scenari non veri o creare addirittura una seconda mappa. «Non lo so. Te ci vai?».
«Pensavo de sì, ma...».
«Ma...?».
«Non vojo annà se te non ce vai».
Quello non se lo aspetta. Esiste una reazione ad una cosa del genere? Presume pure di aver capito male, tanto da sbattere più volte le palpebre e deglutire a fatica.
Cerca di smorzare la sua evidente mancanza di fiato con una mezza risata. «Che— sei tu quello da una festa è una festa. Io che c'entro?».
«Ce vieni o no?».
Vorrebbe fargli presente che non si risponde ad una domanda con un'altra domanda, che così lo mette in un angolo senza possibilità di fuga.
Come sempre, tra parentesi.
«Quand'è?».
«Domani sera».
«Ci penso».
«Te passo a prende pe' le nove».
«Manuel...».
«Se vedemo domani». Dallo schermo, si vede Manuel che accenna un sorriso e alza indice e medio in saluto. Poi la videochiamata viene interrotta.
Simone rimane così, sul letto sfatto e le gambe incrociate, il telefono in mano e l'espressione sbigottita sul volto.
Che a quanto pare ha una festa a cui deve partecipare tra poco più di ventiquattro ore.
Una festa alla quale Manuel, involontariamente o meno, lo ha invitato ad andarci insieme.
E cazzo.
***
La festa si svolge in una villetta a schiera delle pareti beige e rifiniture verde scuro. Appartiene ad un certo Giorgio della 5^A.
A Simone pare di aver scorto il suo nome sulla mappa - anche se ci sono parecchi Giorgio, quindi, magari, si tratta di un omonimo - ma quello che ha visto lui era collegato con una sola freccia ad Alessia, per aver fatto sesso nei bagni della scuola.
Non è molto preoccupante, ecco.
Anzi.
Da quando le scritte sono state rimosse, le voci sono sempre circolate, ma nessuno ne ha subito atroci conseguenze - a parte le lezioni di educazione sessuale e il casino tra la Girolami e il marito.
È stato tolto tutto prima di fare troppo danno.
Perlomeno, Simone spera sia così.
Ha già ricevuto qualche battuta scadente per il nome a cui è collegato lui, gli hanno rotto abbastanza le scatole, ma deve dire che nel giro di poco più di una settimana, tutto pare abbastanza scemato.
Pare.
Ha una bottiglia di birra in vetro tra le dita; ne ha bevuta solo metà.
Se ne sta con le spalle appoggiate a ridosso di una parete, in disparte, nell'enorme salotto di quell'abitazione. C'è una tenue luce gialla che colora i mobili di legno color noce, il divano di finta pelle nera dove sono accomodati ragazzi che non conosce - come la maggior parte delle persone in quella stanza.
La musica che risuona è bassa, priva di voci, ed è sovrastata dal chiacchiericcio generale.
Ha perso di vista Manuel, anche se sono arrivati lì insieme: l'altro è passato a prenderlo alle nove in punto, neppure un minuto di ritardo, con la sua moto e hanno percorso quei tredici chilometri per arrivare a destinazione.
Ha pure evitato di stringere troppo il suo busto, di infilare le mani da qualche parte per non dargli fastidio - ha rischiato di cadere per questa cosa, ma non è accaduto.
Però ora non sa dove sia lui.
Continua a guardarsi attorno, ad analizzare ciò che lo circonda, ad individuare un volto conosciuto tra cento privi d'identità.
Nulla, non ha successo. Intravede, forse, Chicca con accanto Matteo, a qualche metro di distanza, che parlano con persone di altre classi, assieme a Laura e Pin - ma nulla più.
Simone ha sempre sostenuto di odiare le feste e quella non fa molta differenza.
Molla la bottiglia di birra che non ha consumato sul davanzale di marmo. Si pulisce la bocca con la manica della felpa, poi sguscia tra la gente per raggiungere le scale di legno che portano al piano superiore.
Cerca il bagno, deduce sia lì.
Spera sia lì.
Sopra, non c'è nessuno: un corridoio vuoto con tre porte socchiuse, color nocciola. Quella del bagno presuppone sia l'ultima ed è verso di essa che incalza.
Tuttavia, prima che effettivamente possa raggiungere tal luogo, passa davanti alla seconda porta, con l'anta appena più aperta rispetto alle altre, con dentro la luce accesa. Forse è quel particolare che attira di più la sua attenzione.
Quello, e il fatto che dentro alla camera ci sia qualcuno.
Simone non indugia, non tentenna quando varca la soglia della stanza non appena riconosce la figura che scorge di spalle.
È spaventoso che possa ricondurre una linea delle spalle ad un nome.
Terrificante.
«Che ci fai qui?» domanda.
Manuel è davanti alla finestra, scruta fuori, anche se la visuale non regala granchè e quella sera c'è persino un po' di nebbia. «Me stava a venì mal di testa» borbotta, rivolgendogli uno sguardo distratto.
Simone avanza piano, finché non lo affianca. «Non c'è nemmeno la musica alta», commenta «stai perdendo colpi».
«Eh, sarà così».
Cerca di non fissarlo troppo, di non ancorargli gli occhi addosso - sul suo profilo, sul naso dritto, sui capelli che recentemente ha tagliato un po'.
E Manuel quel suo sguardo non lo ricambia mai.
«Ti posso chiedere una cosa?».
«Mh-m».
Si morde piano il labbro inferiore, nervoso. «Mi avresti parlato di nuovo se non fosse saltato fuori quel muro a scuola?».
Manuel sbuffa una risata, a tratti isterica. Gli rivolge un'occhiata fugace. «Ma se te parlo sempre» sbotta.
«Da quando sono tornato dalla Scozia, a stento mi saluti. Ora all'improvviso mi cerchi, mi fai venire ad una festa che è pure un po' 'na merda. Non ti capisco».
«Non ce sta nulla da capì» borbotta e compie mezzo giro su sé stesso, finché non si allontana dal fianco dell'altro e prende posto sul letto ad una piazza e mezza, ricoperto da una trapunta blu.
Dall'aspetto della stanza, con le pareti scure, con dei vinili appesi ai muri, con molta probabilità è la camera di Giorgio, il padrone di casa - che, tra parentesi, non sa nemmeno che faccia abbia.
Simone segue il suo spostamento con la coda dell'occhio, stringe i pugni lungo i fianchi. «Boh, secondo me invece sì», insiste «mi hai— chiesto di far finta che quella notte non sia successo nulla e okay, lo sto facendo, di restare amici e mi sto sforzando, però non posso... Non so come comportarmi in certi casi, pare quasi che mi attiri e poi mi respingi in base al tuo umore».
«Che te devo dì? Só 'no stronzo lunatico».
Si lascia andare ad un sospiro, frattanto che lo raggiunge e si siede al suo fianco. «Non è vero» dice «cioè, forse un po' la prima parte».
Fa una breve pausa. Ora gli occhi li tiene fissi puntati sul suo profilo. «Sono successe un sacco di cose in 'sti mesi, durante l'estate».
«Seh? Tipo?».
«Tipo— sono stato con uno, a Glasgow» soppesa quelle parole, per decifrare qualsivoglia reazione da parte dell'altro, però, a parte una lieve tensione della mandibola, non scorge altro. «Si chiama Thomas, era carino, giocava anche lui a rugby».
«Perché me lo stai dicendo?».
«Perché in 'sti mesi ho capito che mi piacciono sul serio i ragazzi e non era un'infatuazione isolata. Mi piacciono i ragazzi e pure parecchio».
A tal punto, un briciolo di reazione in più la ottiene: è qualcosa di minuscolo, un respiro smorzato, una mancanza di fiato improvvisa.
Forse è impercettibile, forse si sta persino immaginando tutto. Non ne ha idea. Tuttavia, è qualcosa che lo spinge ad osare - perché in quei mesi in Scozia, con Thomas, lo ha fatto.
A Glasgow ha abbracciato una libertà che a Roma non si sente di avere. Perlomeno, non fino a quel momento.
Magari quella mappa della vergogna potrebbe aver fatto qualcosa di buono.
Quindi si ritrova ad allungare una mano. Appoggia il palmo dapprima sul ginocchio di Manuel, poi più su, sulla coscia. Cerca di recepire il ritmo del suo respiro che pare mescolarsi perfettamente al proprio: intenso, a tratti affannato, mentre le sue dita risalgono ancora, si fermano sul cavallo dei suoi pantaloni.
Si aspetta di tutto: venir respinto, una sfuriata, che gli urli addosso di lasciarlo stare.
Eppure Manuel non si muove, schiavo del fiato che gli viene a mancare, delle palpebre che si fanno pesanti, dai muscoli che iniziano a formicolare.
«A me non piacciono i ragazzi, Simó...» soffoca.
Ma Simone continua, deglutisce a fatica. «Se non ti piacciono», gracchia «perché non m'hai ancora fermato?».
Però tu non fermarmi.
Osa esercitare della pressione sull'erezione che sente già essere presente sotto il tessuto spesso dei jeans. Gli strappa un gemito strozzato.
«Vuoi che mi fermi?» glielo chiede piano.
Non ottiene alcuna risposta, per cui solleva la mano libera, posiziona due dita sotto al suo mento per fargli sollevare il capo e farsi guardare in faccia. I loro visi sono vicini - troppo, incredibilmente troppo vicini.
«Vuoi che mi fermi?» lo ripete, con voce roca.
A tal punto, Manuel fa cenno di no con la testa - e sembra tanto un gesto disperato, di supplica.
Ti prego, non fermarti.
Basta come via libera, un tacito consenso per Simone che ne approfitta per sporgersi nella sua direzione e far collidere le loro bocche.
Lo ha baciato una sola volta, sotto le impalcature di un cantiere e luci rosse, ma le sensazioni sono le medesime: passione, desiderio, l'irrefrenabile voglia di strapparsi i vestiti di dosso a vicenda.
Mentre inserisce, cauto, la lingua, riesce a sbottonare i suoi pantaloni, a tirare giù la zip - non con poca difficoltà - così da insinuare le dita all'interno, lasciando il cotone dei boxer come ultimo ostacolo.
Comprende che ogni barriera è stata abbassata, che non vi è - almeno per ora - uno spesso muro a dividerli e contro il quale sbattere.
E Simone si sente incredibilmente bene in quel momento.
Non gli importa nemmeno più delle scritte sulla mappa, che qualcuno possa parlare o ridere di lui, che potrebbe anche urlarlo ed essere libero come in Scozia.
Gli viene, in maniera spontanea, persino da sorridere nel mezzo di quel bacio che ancora non cessa.
Ciò nonostante, non può essere certo che tale libertà valga anche per chi sta toccando, pertanto si costringe a distaccarsi, ad interrompere il contatto tra loro unicamente per indirizzarsi verso la porta, chiudere l'anta e girare la chiave nella toppa.
Manuel rimane fermo, imbambolato, confuso e frastornato. Si passa un palmo sul volto ed è l'unica cosa che è in grado di fare prima che Simone si fiondi di nuovo su di lui - lo fa mettendosi a cavalcioni sulle sue cosce, prendendo il suo viso tra le dita, sfregando i pollici sui suoi zigomi.
Manuel mantiene le mani a mezz'aria: non sa che fare, come muoversi. A rallentatore, va a posarle sui fianchi dell'altro.
A Simone viene poi naturale iniziare a muovere il bacino, lo fa oscillare fino a creare una piacevole frizione tra i loro membri che iniziano a farsi turgidi per l'eccitazione.
Distacca le loro bocche, per riprendere fiato, ma non troppo - rimane abbastanza vicino da far sfiorare la punta dei loro nasi, da percepire i rispettivi respiri accarezzare le loro pelli. Si aggrappa alle sue spalle per far leva, per dare più cadenza ai movimenti che effettua con i fianchi, anche se persiste l'intralcio dei vestiti.
Vorrei spogliarti, si ritrova a pensare, anche se siamo nella camera di uno sconosciuto.
Tu vuoi spogliarmi?
«Simó...» Manuel bofonchia. Ha gli occhi ridotti ad una fessura, il basso ventre che gli formicola e i gemiti sommessi dell'altro ragazzo che gli riempiono le orecchie.
Ma Simone non lo ascolta, non indugia, non molla e non si ferma. Sposta le mani ad afferrare l'orlo inferiore della maglietta nera a maniche lunghe che Manuel indossa, la strattona fino a costringerlo ad alzare entrambe le braccia per rimuovere l'indumento e gettarlo alla rinfusa sul pavimento.
Posa la bocca sulla sua guancia, si sposta fino a mordicchiargli il lobo dell'orecchio e piano sussurra «Vuoi che mi fermo?» lo chiede di nuovo, nonostante non ci sia bisogno.
Non ce n'è, in effetti, perché Manuel arpiona le dita sui suoi fianchi, lo afferra e ribalta le loro posizioni: si ritrova sdraiato sul corpo dell'altro, gli blocca le mani ai lati della testa, premendo sui suoi polsi.
Riprende a baciarlo sulle labbra come se ne valesse la propria vita, come se fosse l'unica fonte d'ossigeno alla quale attingere.
Simone è frastornato: sì che ha dato il via lui a tutto ciò, ma non ha messo in conto quella reazione, il fatto che l'altro lo accordasse quindi passa dall'avere redini a perdere il controllo della situazione.
Che non gli dispiace neppure.
Anche se c'è poca luce dentro quella stanza, proveniente da una applique posta accanto alla porta, riesce comunque a scorgere Manuel che allunga un braccio, va a tentoni con una mano a frugare nel primo cassetto del comodino bianco posto accanto al letto.
Quel gesto, lo porta ad aggrottare le sopracciglia, ad interrompere per un momento il bacio e soffocare «Che— che fai?».
Manuel sbuffa. Ha i capelli arruffati, le labbra gonfie. «Questo scopa nei bagni a scola», borbotta «figurati se non c'ha i cosi ner cassetto 'n camera».
«I cosi?».
«Eh, i preservativi». Cerca ancora e non ha torto - perché Giorgio ha davvero una scatola di profilattici nel primo cassetto; ne estrae uno, un involucro quadrato di plastica color blu metallizzato.
Il professor Coverti ne sarebbe quasi fiero.
Simone trattiene per un momento il respiro. «Vuoi farlo?» soffia e scuote il capo poiché non vuole perdere tutta la sicurezza accumulata, che lo ha spinto fino a tal punto.
Manuel gli morde piano il labbro inferiore e su di esso sospira: «Da morire».
Simone non sa se deve ringraziare chiunque abbia scritto quella mappa sul muro fuori scuola, come se avesse innescato chissà quale meccanismo in lui, in loro.
Forse non c'entra proprio nulla, forse c'entra tutto.
Non ne ha idea, però sta accadendo e non crede di essersi mai sentito più felice.
Un sorriso si dipinge sul suo volto quando, in seguito, si spogliano - anche se lui finisce per tenere la maglietta di cotone bianca a maniche corte.
Manuel risulta più impacciato nei movimenti: più si toccano e più fatica a sapere dove toccare.
Ed è allora che Simone si sente di nuovo più disinvolto, più sicuro perché conosce gli angoli del corpo che vanno stimolati, i punti che vanno sfiorati, sa che non hanno a disposizione del lubrificante, pertanto sceglie di usare la saliva in sostituzione.
Lo fa minuziosamente, guidando le mani dell'altro ragazzo, quasi insegnandogli i gesti più consoni.
Dal lato opposto, Manuel neppure prova ad opporre resistenza poiché si sta addentrando in un territorio sconosciuto, disarmato.
Si lascia cullare dalle onde in quel mare che corrisponde al nome di Simone.
L'unica azione di cui è protagonista in prima persona è quando strappa involucro di plastica blu del preservativo con i denti, lo srotola sulla propria erezione dopo averla massaggiata con la punta delle dita.
Vorrebbe dire qualcosa.
Lo vorrebbero entrambi, ma le parole paiono superflue in quel momento.
Gli unici suoni presenti nella stanza sono il rimbombo della musica che proviene dal piano inferiore e quello dei loro respiri affannati.
Il secondo è, con molta probabilità, il più bello del mondo.
Simone, in posizione supina, mantiene le gambe appena divaricate per concedere a Manuel, sopra di sé, più spazio nel momento in cui questo gli si insinua dentro; lo fa piano, con delle spinte col bacino un briciolo incerte, non regolari, che lo fanno sussultare.
Così conduce un palmo sul suo fianco, stringe appena la presa quasi volesse dettagli un ritmo, fino a raggiungerlo insieme.
Anche stavolta, Manuel gli va dietro, segue la sua lezione. Si regge con una mano alla spalliera rigida del letto, la utilizza come leva.
Poi gli sfugge un gemito forte, che non trattiene.
Simone è attento pure a tal particolare - perché sono nella camera di uno sconosciuto, con almeno cinquanta, se non di più, persone oltre alla porta chiusa, e nonostante l'eco della musica, possono ancora essere sentiti.
Per cui è svelto quando piazza la mano sopra la bocca, a tapparla, per non fargli emettere alcun suono.
Di norma, Manuel penserebbe di soffocare, ma quel palmo sulle labbra non gli toglie il fiato - pare donarglielo.
Succede che poi, con un affondo più deciso, un verso strozzato scappa pure a Simone, ed allora anche Manuel lo mette a tacere, con la medesima mossa.
In camera di uno di cui a stento conoscono il nome, con il vociferare di persone all'esterno che ridono, loro si concedono l'un l'altro, tappandosi la bocca a vicenda per fare meno rumore fuori, mentre ne fanno tantissimo dentro.
***
Il rimbombo della musica si sente ancora quando Simone si ritrova a fissare il soffitto bianco.
Ha il corpo ricoperto da una trapunta leggera e bordeaux che lo cela dall'ombelico in giù.
Si morde piano il labbro inferiore. Osa voltare il capo, di tanto in tanto, a scrutare Manuel che giace al proprio fianco nella medesima posizione.
Lo vede con gli occhi appena socchiusi, a focalizzarsi sul muro piatto quasi fosse un cielo in cui contare le stelle - ma nessun punto luminoso è sopra le loro teste, nessuno che possono ammirare.
Il petto gli sussulta leggermente. «Sei pentito?».
«Di che?».
Di me.
«Di quello che è successo, non—». Non importa se lo sei, posso sopportarlo.
Manuel si porta una mano al petto, sullo sterno, sopra il quale spicca un tatuaggio di un serpente intrecciato. «No» la sua risposta è calma. Gira il capo in direzione di chi gli è accanto in quel momento. «Tu?».
Simone non si aspetta una simile reazione. A dire il vero, ha smesso di creare scenari immaginari su cosa potrebbe mai accadere - ha capito che finisce sempre per sbagliarsi.
«No», sussurra «per niente». Si sdraia su di un fianco, si rannicchia, tirandosi la coperta dietro.
Manuel, invece, non si muove. Anzi, i suoi occhi tornano fissi al soffitto, come se sostenere il suo sguardo fosse forse troppo - sebbene abbiano finito di guardarsi solo pochi minuti prima.
«Só stato co' uno pure io questa estate» tale confessione gli viene fuori al pari di una liberazione, crede di sentirsi persino più leggero dopo averla esternata.
Ed ecco, è l'ennesima cosa che Simone non si aspetta, «Che?» biascica. In realtà, ha capito benissimo - fin troppo bene.
«Co' uno, co' 'n ragazzo, c'ho fatto roba». Strizza le palpebre.
Alla faccia del non mi piacciono i ragazzi.
«Non me ricordo manco er nome suo, se questo te interessa, e penso che lui non se ricorda il mio, ma va bene così, n'era importante».
«E perché—».
«Ce só annato perché volevo capire se...». Lascia la frase in sospeso, prima di riprendere il contatto visivo con l'altro. «Se te eri solo 'n caso o ce stava qualcosa de più. Ne sai qualcosa, no?».
Dare una interpretazione a ciò che ha appena udito, per Simone, è complesso. Di certo, non deve replicare di pancia, senza ragionare; del resto, pure lui è stato con Thomas per tutta l'estate, pure lui per rendere chiaro un dubbio che aveva già una sua risoluzione.
Si domanda, invece, chi mai sia Vanessa - presume una ragazza di 4^C che è arrivata all'inizio di quell'anno, ma che ha conosciuto parte della scuola durante i mesi estivi; perlomeno, questo è ciò che gli ha raccontato Laura.
Immagina, comunque, che non sia stata qualcosa di così importante. «Questo ragazzo— non c'è nella mappa, però».
«Nemmeno er tuo Filippo».
«Thomas».
«Quel che è».
Touchè.
«E che— cosa hai capito andando con questo ragazzo?».
A Manuel sfugge una risata. «'N cazzo» borbotta. «All'inizio proprio 'n cazzo, ma poi...».
«Poi?».
«Non lo so. Forse non sei 'n caso, forse ce sta pe' davvero qualcosa de più».
Simone non vuole fargli esternare qualcosa per forza, non vuole costringerlo. Non ne avrebbe diritto, del resto, anche perché è il primo a far fatica a dire ad alta voce determinate cose.
Si accontenta di una velata ammissione, che è più che sufficiente.
Che, per il momento, va bene per entrambi.
Annuisce. «Se volessi— non pentirti di nuovo, una seconda volta o una terza, una quarta... Io sto qui».
«Stai attento a quel che dici, Simó».
«Só attento» allunga una mano, la va a poggiare sulla sua pancia. «Sto qui».
Manuel rimane fermo, gli occhi ancora rivolti al soffitto.
Non dice nulla.
Ha, forse, già detto troppo ed è meglio il silenzio in quella stanza.
Anche se Giorgio non ne sarà affatto contento.
***
Trascorrono poco più di quarantotto ore da quella sera.
Quarantotto e Manuel non si fa sentire.
Non che Simone si aspetti qualcosa: hanno passato mesi a non mandarsi neppure un messaggio, non mette in conto che ogni cosa cambi d'improvviso, nonostante tutto.
Quella mattina, parcheggia la Vespa bianca al solito posto, davanti alla scuola; posiziona il casco nello scomparto sotto alla sella.
Lancia un'occhiata alla distesa bianca e ridipinta, per coprire le scritte del muro con la mappa della vergogna.
Lo sorprende la facilità con cui certe cose vengono cancellate: basta una pennellata, una mano di vernice che cela ogni cosa.
Se solo nella vita fosse così facile...
Delle volte, la memoria umana è deleteria: si ricordano fatti ed eventi che bisognerebbe dimenticare e si scordano quelli che andrebbero tenuti a mente per un tempo indefinito.
Perso in tali pensieri, nemmeno si accorge del rumore di un secondo motore che lo affianca. Sbatte piano le palpebre per notare Manuel, col suo mezzo di trasporto a due ruote che parcheggia lì accanto.
Lo vede levarsi il casco, riporlo anche lui sotto alla sella.
Segue i suoi movimenti con particolare attenzione, anche se, molto probabilmente, non dovrebbe tenergli gli occhi così puntati addosso.
Non dovrebbe, eppure succede, così come capita che i loro sguardi si incrociano, attratti l'un l'altro.
Che sono sempre stati bravi a guardarsi ed essere al centro di un'esplosione solo tramite quello.
«Ciao» borbotta Simone e ottiene come reazione soltanto un cenno del capo - niente, in sostanza.
Lancia un'occhiata furtiva attorno. C'è poca gente, la maggior parte degli studenti ha già fatto ingresso a scuola. «Uhm— vuoi venire da me stasera?» si butta, con leggero timore.
Manuel aggrotta le sopracciglia, strizza le palpebre a causa del pallido sole che picchia su di loro. «Cosa?».
«Sì, boh, mio padre non c'è, mia nonna va a teatro, possiamo— fare quella cosa del pentimento, capito».
Sì, ha capito, tanto da sgranare gli occhi e controllare smaniosamente che nessuno lo abbia sentito.
Impossibile, comunque, le persone più vicine a loro si trovano a metri di distanza e non possono udire tale conversazione.
«Ce penso», borbotta «devo sistemà 'na roba, ma dovrei esserce».
«Okay».
«Okay».
Si sente un briciolo stupido, Simone, ma non ha ottenuto un sonoro rifiuto, quindi tanto basta.
Si sistema lo zaino sulle spalle, medesimo gesto che compie l'altro ragazzo, prima che entrambi si dirigano verso il portone d'ingresso dell'edificio, fianco a fianco.
Salgono le scale di marmo che li conducono al piano dove si trova la loro classe.
Tra di loro non ci sono parole, però il silenzio nel quale piombano appena mettono piede in quel corridoio, il vociferare degli altri studenti del Da Vinci che cessa al cospetto della loro presenza, gli sguardi attoniti che li frecciano...
È strano.
Manuel si trova qualche centimetro più avanti rispetto a Simone; si volta addirittura per capire cosa mai stiano guardando, che magari gli è rimasto del dentifricio in faccia o quella mattina si è pettinato male.
Ma no, non è quello.
Sta per chiedere che succede, ma viene anticipato da Chicca che cammina spedita nella loro direzione. Afferra entrambi per un braccio, li conduce in disparte, in un angolo del corridoio che li celi dalle occhiate altrui.
«Oh, ma non avete letto sul gruppo?» sbotta la ragazza.
Manuel aggrotta le sopracciglia. «L'ho silenziato» spiega, in breve. Simone annuisce poiché ha fatto lo stesso.
Chicca alza gli occhi al cielo. Recupera il cellulare che tiene nella tasca posteriore dei jeans, smanetta sul touchscreen. «Le dovete legge 'e cose, almeno» borbotta. Sbuffa, poi gira il telefono per mostrare ai due cosa intende.
Ed è qualcosa di fin troppo chiaro, al contempo improvviso, a tratti—
Fastidioso? Doloroso?
Perché sul piccolo schermo di quello smartphone compaiono loro due, seduti sul letto di Giorgio, con le labbra in contatto.
E a tal punto, negare non serve più.
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