MOSTRI
«Io non ce credo a 'sta roba».
Il primo commento che sopraggiunge alle orecchie di Simone appena arriva in classe quella mattina proviene da Matteo.
Si siede al suo banco, mentre un gruppo ristretto di compagni è riunito attorno a quello di colui che ha parlato. Stanno discutendo sull'ultimo post pubblicato sul blog mappadellavergogna.
«Beh, perché no?» interviene Luna «Un po' la faccia da stronzo ce l'ha».
Matteo scuote il capo in cenno di diniego. «Un conto è fa' lo stronzo a scola, n'altro alza' e' mani sulla ragazza sua. Non è tipo».
«Perché, lo conosci?».
«Abbastanza e te giuro che non lo farebbe mai».
Simone ascolta in silenzio il loro dialogo. Stringe i pugni sul banco così forte da rischiare di farsi male.
«Beh, io delle volte l'anno scorso parlavo con Camilla», interviene Monica, accomodata su una sedia con le gambe accavallate «certi suoi comportamenti non è che fossero tanto—gentili». Abbassa lo sguardo e tira appena i collant che indossa con la punta delle dita. «Mi ricordavano un po' quelli del mio ex».
Il suo sguardo si fa malinconico, vuoto e spento. Porta ancora con sé traumi di una passata relazione tossica e la notizia che sta trapelando la tocca alquanto.
«Il tuo ex era 'no stronzo e lo sappiamo», ribatte Matteo, serrando la mandibola «cioè, c'avemo 'e prove da quando ha fatto gira' quel video. Michael no, ve lo sto a dì».
«So' du' cose diverse, Mattè» lo rimbecca Luna «qua se parla de uno che arza 'e mani alle donne sue, è pure peggio».
«Sono la stessa cosa» Monica rimarca e finge un colpo di tosse «due tipi forse diversi, ma si tratta sempre di violenza, di una superiorità che gli uomini pretendono di avere sulle donne».
A tale sua frase, Matteo aggrotta le sopracciglia e si lascia sfuggire una risata. «Capito, sei una di quelle femministe der cazzo che girano co' gli striscioni che schifo gli uomini» borbotta e pare anche piuttosto infastidito.
Monica gli rivolge un'occhiata tagliente. «Non mi pare di aver generalizzato,» attesta «ma anche se fosse, viviamo in una società misogina e questo è un fatto».
«Quindi è giusto pensa' che Michael è uno che mena 'e donne solo perché 'na pischella ha detto che non la trattava coi guanti?».
«Quindi è giusto non pensarlo solo perché lui si reputa innocente?».
«Vabbè, Mo', e vaffanculo».
«Perché t'affanni così tanto a difenderlo?» è solo a quel punto che Simone interviene. Lo fa dapprima fissando un punto davanti a sé, in seguito le proprie mani piene di graffi.
Soltanto alla fine si gira, inclina il capo su di un lato per fissare il compagno di classe, all'ultimo banco.
Quest'ultimo schiocca la lingua sul palato, intanto che un sorriso sbieco appare sulle sue labbra. «Perché è n'amico mio, l'ho detto» replica «e perché 'o state condannando pe' qualcosa che non sapete se è vera o no».
«Così come avete condannato Chicca o me, intendi?».
«Che vor dì, erano altre cose e non così gravi».
«Ma c'avete creduto, senza alcun dubbio o senza farvi nessuna domanda. Allora spiegami il motivo esatto per cui quello che c'è scritto su Michael dovrebbe essere falso e il resto no. Non vale che è perché è amico tuo, non gliene frega un cazzo a nessuno».
L'espressione di Matteo tramuta in una maschera di disapprovazione, di astio.
Ride ancora, stavolta in maniera isterica, a tratti. «Oh, da quando s'è scoperto che sei frocio, te comporti peggio de 'na ragazza, 'o sai sì?».
Simone ignora la sua provocazione, vedendola soltanto come un modo per deviare il discorso di uno che non sa sostenere una conversazione.
«Rispondimi», rimarca, serio «sono curioso». Lo fissa, cerca di concatenare il suo sguardo al proprio.
Il punto, comunque, è che Matteo non trova una replica plausibile, a parte quella già esposta. Gli sembra di doversi arrampicare sugli specchi. Sbuffa, incrocia le braccia al petto.
«Piantala, Bale'» sbotta «o finisce che ce menamo de novo».
A Simone non dispiacerebbe: lo prenderebbe volentieri a pugni, uno per ogni cazzata che sente uscire dalla sua bocca.
Riporta lo sguardo davanti a sé, smettendo di interloquire con l'altro ragazzo o il resto dei compagni.
La campanella suona in quell'istante e rimbomba tra i corridoi.
Per una frazione di secondo, Simone rivolge lo sguardo al banco vuoto che ha accanto: Manuel non c'è e vuoto si sente pure lui.
***
«Che hai fatto all'occhio?».
Simone ha messo in conto quella domanda e ha persino indovinato la persona che gliela pone in quel preciso momento, mentre è fermo nel corridoio con le spalle appoggiate ad una parete e il suo bicchiere di caffè caldo in mano.
Col senno di poi, dovrebbe farne a meno, dato che è già nervoso e forse quella bevanda lo fa agitare ancor di più.
Chicca lo fissa, pretende una risposta, la stessa che lui non vuole darle.
Così, Simone evita il suo sguardo, prende un respiro profondo. «Niente, ho preso una botta a rugby» inventa una scusa abbastanza plausibile, una credibile quantomeno: agli allenamenti incassa molti colpi, uno in più non fa la differenza.
Chicca incrocia le braccia al petto. «Non ci credo» attesta. È irremovibile.
Simone sbuffa e alza gli occhi al cielo. «Come vuoi» borbotta. Risulta brusco e scostante, sebbene sappia che l'amica non se lo merita e si sta soltanto preoccupando per lui.
Ne è consapevole, ma il suo animo iracondo gli impedisce di mostrarsi vulnerabile, di accettare l'aiuto e la solidarietà altrui, costruendo uno spesso muro attorno che lo rende schivo e allerta.
«So' seria, Simò» insiste Chicca «e poi non credo sia solo l'occhio».
«Che vuol dire?».
«Che ti tieni il fianco ogni volta che te alzi, l'ho visto. C'hai altro, fortuna tua che semo a scuola, altrimenti t'avrei già fatto spojà».
«Seh, vabbè».
Simone non ha ancora finito di bere il caffè. Stacca le spalle dal muro, in procinto di allontanarsi, magari tornare in classe.
Prima che possa realizzare la sua intenzione, Chicca lo frena, premendogli tre dita sul fianco, proprio quello dove spicca il grosso ematoma. Gli fa male, tanto da smorzargli il respiro.
Pianta gli incisivi nel labbro inferiore per trattenere un urlo e il suo viso si fa paonazzo. Sgrana gli occhi, fulmina con lo sguardo l'amica, come a rimproverarla per quanto compiuto.
Lei, tuttavia, scuote il capo. Sorriderebbe in maniera soddisfatta e gli farebbe il verso, con tanto di avevo ragione io. Si trattiene poiché la sua apprensione è maggiore. «Me lo dici mo' che è successo?» ritenta.
Simone prova ancora a fingere e tergiversare. A mentire. «Te l'ho detto», insiste «a rugby».
«Seh, e io so' fessa».
«Cosa c'è di così strano? Ci gioco a rugby, non è uno sport delicato, può succedere di farsi male».
«Sì, certo, er punto che sei osceno a menti' e te lo leggo in faccia che stai a dì 'na cazzata».
Non è d'accordo: in particolar modo negli ultimi tempi, crede di esser diventato esperto nell'inventare menzogne, anzi, a volte gli capita pure di congratularsi con sé stesso a riguardo per le frottole che ha reso credibili.
Si guarda intorno, furtivo.
L'ala della scuola in cui si trovano è pressoché deserta. È conscio del fatto che non verrà lasciato in pace presto e che se ripete ancora una volta la scusa del rugby, Chicca potrebbe fargli nero l'altro occhio.
«Ho avuto un incidente» la prende alla larga «cioè—circa, con dei... delle persone a cui non... non andavo bene, evidentemente». Il suo tono di voce si abbassa sull'ultima parte della frase.
Chicca rilascia un sospiro sommesso. Ha intuito qualcosa già in precedenza, senza bisogno di ulteriori chiarimenti. «Li hai visti in faccia?» domanda.
Simone scuote la testa. «No», sussurra «era buio, ero mezzo addormentato perché era tardi, non... ho solo sentito delle voci».
«Voci che conoscevi?».
«Non so nemmeno questo».
Evita di marcare il fatto che una l'ha riconosciuta, che è stata quella che lo ha spinto a pubblicare il primo post sul blog maledetto.
Evita perché non ne è sicuro.
Ha scritto quelle cose su Michael di getto, per istinto di vendetta e per attenuare il proprio dolore.
Non crede neppure di esserne pentito: che sia stato lui o meno, che sia il diretto responsabile della sua aggressione ha poca rilevanza; è una persona orribile e devono rendersene conto tutti.
«Devi denuncia' la cosa» esordisce Chicca, seria.
Lo sguardo di Simone ricade sul braccialetto col ciondolo a forma di luna che porta al polso. Per fortuna, durante la colluttazione non si è rotto.
«Ti ho detto che non ho visto chi è stato» pigola.
«Non importa. Puoi dì dove stavi, a che ora, se eri co' qualcuno» rimarca lei e non fa la vaga sull'ultima parte; riprende la vecchia confessione dell'amico, sul fatto che stesse frequentando una persona e dà per scontato che fossero insieme.
«Tanto non servirebbe a niente».
«Lo dici tu questo! Serve eccome. So' delle persone de merda che girano tranquille e vivono serene, mentre tu stai da schifo e non riesci a vive' come vorresti. Non è giusto», Chicca si agita e gesticola «e poi facendolo potresti pure evita' che quel che è successo a te, non capiti ad altra gente».
Simone vorrebbe dirle che non è così facile, che è tutto molto più complicato e che si sente bloccato da quella situazione – e che poi sta cercando di risolverla a suo modo.
Annuisce e già sa che non farà nulla del genere. Si scosta di qualche centimetro, giusto per buttar via in un cestino il bicchiere di caffè mezzo pieno – gli è passata la voglia di berlo.
«Simo...» pigola Chicca, appoggiando una mano sulla sua spalla. «Stai bene?».
Gli occhi di Simone si sono arrossati e fatti lucidi, non è riuscito a controllarlo. Fa cenno di no col capo, in segno di diniego. Non serve dica qualcosa o che dia una effettiva risposta.
Chicca lo comprende. Nemmeno lei proferisce parola, piuttosto si sporge nella sua direzione e lo abbraccia, sollevandosi sulla punta dei piedi.
Simone si immerge in tale contatto, un po' perché gli serve per lenire delle ferite che non sono solo fisiche.
Lo vorrebbe da qualcun altro, l'abbraccio.
Potrebbe morire per quello.
Chicca si distacca poco dopo, al suono della campanella che segna la fine dell'intervallo. Gli schiocca un tenero e delicato bacio sulla guancia.
«Andrà tutto bene, mh?» gli sussurra.
Simone si sforza di crederle, per quanto restio.
È arduo farlo, però, quando, percorrendo il corridoio per rientrare in classe, può osservare Matteo insieme a Michael ed altri due ragazzi che non conosce, davanti ad una delle finestre dell'edificio, lasciata socchiusa.
Non sente i loro discorsi a causa del baccano prodotto dagli studenti che si affrettano a rientrare in aula; tuttavia, è in grado di scorgere bene i loro sorrisi, il modo in cui Matteo batte un palmo sulla spalla di Michael, in cenno di rassicurazione.
E questo aspetto lo manda fuori di testa giacché il post che ha divulgato sul blog non ha scaturito i risultati che sperava.
No, peggio: non hanno scalfito minimamente quel ragazzo di quinta, né fatto barcollare.
Non lo ha fermato.
Ciò che fa ancor più imbestialire Simone è il fatto che Matteo lo abbia difeso a spada tratta – che chiunque attorno a lui, o quasi, lo abbia fatto.
La collera monta nel suo petto.
Se non fosse debilitato a livello fisico e non volesse farsi espellere, li avrebbe presi a pugni entrambi.
Per il momento, deve buttar giù l'ennesimo boccone amaro, in attesa che il destino giri diversamente.
O che possa farlo girare lui, diversamente.
***
Quel pomeriggio, Simone salta la lezione di educazione sessuale a scuola: è la seconda di fila a cui non si presenta, però se mai dovesse avere un richiamo a riguardo, non gli interesserebbe.
Ha qualcosa di più importante da fare, perlomeno così figura nella sua testa.
Gli fa ancora male il fianco, addirittura quando respira, ed è arduo restare in equilibrio sulla Vespa senza accasciarsi per il dolore. Cerca di stringere i denti e guidare fino alla meta prescelta, che corrisponde alla casa di Manuel.
Non ha nemmeno la certezza che l'altro ragazzo si trovi lì poiché gli ha mandato dei messaggi, ma ha ricevuto soltanto risposte a monosillabi e con ritardo di ore. Non crede di essere in grado di sostenere una conversazione così fredda e nemmeno di meritarla: non si è comportato male, non hanno litigato, e lui ha l'irrefrenabile bisogno di vedere il suo volto, guardarlo in faccia, sentirlo dire che andrà tutto bene; si accontenterebbe persino di una bugia.
Giunto a destinazione, parcheggia il proprio mezzo in malo modo, lascia il casco appeso ad un manubrio.
Zoppica un po' a salire le scale che conducono all'appartamento della famiglia Ferro. Fermo davanti all'anta, bussa in maniera vigorosa.
In un primo momento, non ottiene alcuna risposta. Ipotizza che non ci sia nessuno in casa, ma non si arrende, ci prova di nuovo: una volta, due, poi tre.
«Manuel?» sospira e la sua voce gracchia un briciolo. «Manuel, ci sei?» ripete, mentre le sue nocche battono ancora sull'anta di legno.
Si concentra per percepire dei rumori all'interno dell'appartamento e, in effetti, qualcosa sente.
Potrebbe pure essere Anita, in realtà, però vuole credere che non sia la donna e dunque: «Manuel, lo so che ci sei», tenta, mente «mi apri, per favore? Ti prego».
Deve attendere, aspettare una reazione che potrebbe anche non ottenere. Bussa di nuovo, l'ennesimo «Manuel...» viene fuori, sospirato, dalla sua bocca.
Dopo diciassette minuti, è in procinto di arrendersi. Tuttavia, a tal punto, ode la serratura scattare e il cigolio della porta che viene aperta.
In modo inconscio, Simone trattiene il respiro e potrebbe persino scoppiare quando davanti a lui compare Manuel: non lo vede da quella sera, dalla notte dell'aggressione; forse qualcosa dentro al suo cervello ha cancellato il ricordo o quantomeno lo ha offuscato perché non rimembrava fosse così.
Ha ben impresso il fatto che l'altro ragazzo si lamentasse per il braccio, sì, ma la fascia attorno ad esso è l'aspetto meno allarmante.
Simone nota nell'immediato la chiazza violacea che si espande dall'occhio destro di Manuel - che a stento riesce a tenere aperto - su tutto lo zigomo, coi bordi frastagliati e più scura verso il centro, il labbro inferiore spaccato su un angolo, il taglio ricucito da tre punti sul sopracciglio sinistro; osserva le sue occhiaie scure, la sua espressione spenta.
Non ricordava fosse così o forse una parte di lui l'ha rimosso, per preservarlo da un differente tipo di dolore.
In un primo istante, Simone resta immobile, con la bocca schiusa. Vorrebbe dire qualcosa, ma qualunque frase gli passa per la testa adesso pare fuori luogo, inutile.
Manda giù a fatica della saliva e le mani gli tremano quando ne allunga una in direzione di chi gli è di fronte, per andare a carezzare la guancia esule da ogni ammaccatura.
Manuel non si scansa, non lo respinge. Si lascia sfiorare piano, delicato, e rilascia un sospiro. «Che ce fai qua?» dice, in un soffio.
Simone recepisce la domanda, ma la ignora: non è rilevante. Si sente inutile in quel momento, impotente e vorrebbe quasi scambiare il suo livido sul fianco con tutto ciò che ha investito l'altro ragazzo, assorbire le sue sofferenze.
«Sei andato in ospedale?» pone quella domanda che, in realtà, ha già una risposta, considerando i punti che gli vede in faccia. Lo chiede comunque.
«Ce só annato» lo informa Manuel. Fa un passo indietro ed interrompe il contatto tra di loro. Si muove per il piccolo ingresso, lasciando la porta aperta.
Simone segue la sua figura con lo sguardo, non capisce se è un invito ad entrare oppure no. Attende finché non lo vede allontanarsi verso la cucina, sparire dalla propria visuale. Soltanto allora decide di oltrepassare la soglia, chiudersi l'anta alle spalle e andargli dietro.
Lo vede sedersi in modo lento sul divano, come se gli facesse male compiere quel movimento.
Gli si accomoda accanto, cercando di smuovere il meno possibile i cuscini. «Ti fa male?» sussurra.
«Eh, un po'».
«Ti hanno dato qualcosa da prendere o...».
«Seh, so' imbottito de antidolorifici, non te preoccupa'» Manuel socchiude le palpebre per mezzo secondo. Mantiene la mano sinistra sul fianco destro.
Ha fatto caso allo sguardo apprensivo di Simone - sarebbe impossibile non notare i suoi grandi occhi scuri puntati addosso. «Sto bene» rimarca, anche se non serve perché qualsiasi cosa gli venga fuori, non può lenire quella situazione.
«Non mi sembra».
«Te dico de sì».
«Non ti reggi in piedi».
«Seh, damme qualche giorno».
«Non sto scherzando».
«Nemmeno io».
Simone si spazientisce, serra la mandibola. «Perché non m'hai detto niente?» pigola «Per giorni, mi—mi rispondevi senza farmi capire nulla, perché non...».
«Perché te preoccupi 'na cifra e non era il caso».
«Non era il caso?».
«No», sentenzia Manuel «e mo' te stai pure a agità pe' niente».
«Smettila di dire che non è niente, cazzo».
Gli sfugge una risata sull'orlo dell'isterismo. È stanco e non ha voglia di discutere. «Come vuoi» sospira.
«Per questo non stai venendo a scuola? Non volevi che ti vedessi e...».
«Non proprio».
«Che vuol dire?».
Quella domanda rimane sospesa nell'aria, la stessa che si fa, d'improvviso, più pesante e opprimente.
Manuel si tira su a fatica, camuffando una smorfia di dolore che gli sfigura il viso. Arranca fino al ripiano della cucina. Su uno dei fornelli c'è una caffettiera con il fuoco acceso sotto.
La volta precedente si trovavano nello stesso luogo col caffè sul fornello e si stavano baciando.
E adesso...
Adesso Manuel rimane a fissare la fiammella del gas, mentre Simone può scrutare solo le sue spalle.
«Che vuol dire?» ripete quest'ultimo.
L'altro ragazzo esita, poi si gira lentamente. Ha ancora una mano ferma sul proprio fianco malconcio.
«Ho chiesto a mi' madre de cambia' scuola», annuncia «se sta' a informa', anche se è più difficile in quarto, forse ce rimetto n'artro anno, non lo so».
Se la sensazione di mancanza di terreno sotto ai piedi avesse una definizione ben precisa, Simone è pressoché sicuro che coinciderebbe con quella frase.
Ha bisogno di metabolizzare ciò che ha sentito, pertanto resta fermo, immobile intanto che il borbottio della moka riempie la stanza. Torna a scrutare le spalle dell'altro ragazzo, il quale spegne il fornello e recupera una tazza nella credenza.
«Non puoi» pigola e il cedimento di voce lo tradisce.
«Vuoi il caffè?» viene ignorato e allora «Non puoi» ripete.
«Lo vuoi o no?».
«Non mi interessa del caffè, Manuel!» Simone tuona e si alza in piedi.
Manuel mette un cucchiaino di zucchero nella sua tazzina e pone il coperchio sopra al barattolo di vetro che lo contiene. Compie mezzo giro su sé stesso e rilascia un sospiro sommesso.
«Se sta a informa' mi madre», ribadisce «non so se ce riesco, bisogna chiede».
«Non dovresti nemmeno chiedere, tu non...».
«Io che?».
Non mi puoi lasciare.
«Non—non devi andartene».
Ti prego, non mi lasciare.
«Vado solo in un'altra scuola, Simó».
«Ma non intendi solo questo, no?».
Simone fa due passi in avanti e sono sufficienti a raggiungere Manuel, fermarsi davanti a lui.
«Perché hai detto che ci vediamo a scuola e se tu non ci vieni più, non...».
Non ci vediamo più.
Manuel abbassa lo sguardo. L'occhio gli pizzica un po'. «Magari è meglio così» sussurra.
Simone si affretta a scuotere il capo. Conduce una mano sulla sua guancia sinistra, lo costringe a sollevare il capo, così da potersi guardare in faccia.
«Non lo è», pigola «lo sai che non lo è e se—se tu mi avessi risposto, se avessimo parlato, potevamo... possiamo affrontare queste cose insieme. Tu non— te lo ricordi, no? Non sei solo».
«Non è questo il punto» sussurra Manuel e, con delicatezza, allontana la sua mano.
Simone lascia ricadere il braccio su di un fianco, fiaccamente. «E qual è?».
«Che non ce la faccio a—ad affrontare tutto questo, non...» un singhiozzo interrompe la frase di Manuel.
È spezzato, rotto e ciò sta accadendo più spesso di quanto abbia mai fatto in precedenza. «Pensavo d'esse pronto, ma non lo sono».
Non specifica a cosa, non c'è bisogno di evidenziarlo o di spiegarlo in qualche modo.
Simone lo capisce comunque.
«Andare in un'altra scuola non cambia niente», biascica «non cambia quel che sei».
«Non so manco io chi sono, Simó».
«Sì che lo sai, me lo hai detto», soffia ancora e appoggia la fronte contro la sua «sei l'altra faccia della luna».
Il petto di Manuel sussulta appena all'udire quella frase. Tuttavia, non può dargli retta, non riesce a cedere. «Vai a casa» sussurra.
Simone scuote il capo in cenno di diniego.
«Vai a casa, Simó».
«No, non ti lascio».
«Simó...».
Non lo ascolta. Smette di farlo, non gli va più, non se deve sentire cose che non vuole.
Deve smettere di parlare.
Allora lo ammutolisce con un bacio, preme con delicatezza le labbra sulle sue, cercando di non toccare troppo il taglio su quello inferiore. «Non ti lascio» biascica sulla bocca, in un lamento.
Per un attimo, Manuel accorda quel suo gesto, socchiude addirittura le palpebre. Soltanto dopo si costringe a premere un palmo sul suo torace per spingerlo di qualche centimetro all'indietro e obbligarlo a distaccarsi.
Ed è assurdo come gli dica di andar via, ma, per un attimo, le sue dita stringono il tessuto della maglia di chi gli è di fronte, come un muto sussurrare vai via da qua, però rimani qui.
Ogni contatto tra di loro viene così interrotto.
Simone prova di nuovo ad avvicinarsi, ma a quel punto Manuel lo scansa, lo supera, cammina veloce fuori dalla cucina.
Lo scatto della serratura della porta d'ingresso riecheggia nell'ambiente.
Simone trasale. Stringe i pugni lungo i fianchi e trascina i piedi sul pavimento per seguire l'altro ragazzo, arrendevole. Lo vede che mantiene l'anta aperta e gli fa un cenno col capo, per invitarlo ad uscire, asserendo: «Vai a casa, per favore».
A casa, Simone non vuole tornarci. Darebbe qualsiasi cosa per restare lì, insieme - perché sono meno soli se sono uniti.
Eppure, col gelo nel cuore, si accinge ad assecondare la sua richiesta. Poco prima di superare la soglia, però, gli riserva ancora un ultimo sguardo implorante.
«Mi prometti che ci pensi?» gracchia «Alla scuola, al fatto che—che non cambia nulla se vai in un'altra, non...». Lascia in sospeso la frase.
Manuel abbassa la testa per evitare qualunque altro contatto visivo. «Non te faccio promesse che non so se posso mantene'» sussurra.
Simone trattiene il respiro.
Vuol dire tanto e vuol dire pure troppo.
Valica la soglia della porta con altri due passi, prima che l'anta venga chiusa con uno scatto. Ad essa finisce per appoggiarsi con le spalle, come se fosse l'unica cosa che lo fa reggere in piedi.
In fin dei conti è un po' così.
Non può vederlo, ma dalla parte opposta di quell'anta, Manuel compie il medesimo gesto.
Sono schiena contro schiena, separati dal legno che cattura i battiti dei loro cuori che seguono lo stesso ritmo.
Ed è quel battito che parla un po' per loro, un linguaggio silenzioso.
Anche i battiti del cuore sanno parlare: sanno dirsi mi manchi già, non ti voglio lasciare, non mi lasciare, resta qui, anche se devo lasciarti andare.
Simone strizza le palpebre. Le sue gambe si son fatte pesanti quando le trascina giù per le scale per raggiungere la Vespa e salirci sopra.
Trema mentre guida, mentre le dita si stringono attorno ai manubri, mentre accelera sulla strada.
È a pezzi.
Lo è anche quando arriva alla villetta dove abita e vuole soltanto rifugiarsi sotto le coperte, come quando ci si ficcava da piccolo per sfuggire ai mostri della notte.
Quelli erano molto più facili da combattere: bastava arrivasse la mamma e accendesse il lumino arancione inserito nella presa accanto alla porta e poi gli baciava la fronte, sussurrandogli che i sogni li avrebbero cacciati via.
Ma i mostri che tormentano adesso Simone sono ben peggio di quelli che affrontava da piccolo.
Questi non spariscono coi sogni, ma li distruggono.
Il suo intento, ad ogni modo, viene bloccato non appena si accinge a salire le scale che conducono al piano superiore, con la voce di Dante che tuona: «Simone!».
Il ragazzo si blocca, in piedi sul secondo gradino. Stringe i pugni lungo i fianchi e gira il capo quel che è sufficiente per scorgere il padre che lo fissa, con espressione seria, la quale sta a significare una cosa soltanto: che vuole parlare, solo che a lui non va.
«Cosa?» borbotta.
Dante sospira. «Che sta succedendo, mh?» domanda «La nota a scuola prima, l'occhio nero adesso. Si può sapere che ti è capitato?».
La prende alla larga.
Simone pensa che, conoscendolo, avrebbe già dovuto mettere insieme tutti i pezzi, come si è già verificato durante la terza superiore. Tuttavia, crede che stia tenendo fede alla sua promessa di mantenere le distanze, di impicciarsi un po' meno, solo che non sa fino a che punto possa farlo.
Magari si aspetta che sia lui a parlare.
Ma Simone è stanco anche solo per fare quello.
Scende quei due gradini, lentamente, va di fronte al professore, con una maschera sul volto che non lascia trasparire alcuna emozione.
Vorrebbe fosse così, quasi l'apatia potesse essere la soluzione a tutto.
Se non provo niente, non posso stare male.
Eppure, sto male, anche se non provo niente.
«Vuoi sapere che succede?» biascica – e Dante annuisce.
Simone rimane serio, con le labbra tese e il fiato che vien meno. Sostiene lo sguardo di chi ha di fronte come fosse un nemico – non lo è, Simone, non è lui.
«Io sono gay, papà» dice, con il tono di voce che si spezza un po' verso la fine della frase.
Non ha mai messo in conto che il momento del suo coming out con l'uomo sarebbe stato così, che avrebbe avuto un subbuglio irrefrenabile nel petto, un peso su di esso e un dolore lancinante ad ogni muscolo del corpo.
Ha immaginato potesse andare come quando lo ha confidato alla madre Floriana, in un modo naturale e sciolto, con leggera irrequietezza che man mano ha lasciato spazio alla calma.
Adesso, sembra che glielo dica con rabbia e rancore immotivato.
Non attende una reazione, non la vuole neppure. Evita il suo sguardo e la sua bocca che si schiude per dire qualcosa.
«Sono gay e la nota l'ho presa perché ho dei compagni di classe che, per quanto tu li ami, li tratti bene e cerchi di renderli migliori, rimarranno un ammasso di stronzi. E questo...» si indica l'occhio pesto «questo me lo hanno fatto degli sconosciuti fuori ad un pub per lo stesso motivo. Perché mi piacciono i ragazzi, papà. Perché mi sono innamorato di un ragazzo, papà».
Trattiene un singulto. Vorrebbe essere più fermo e deciso, più rabbioso, anche, ma finisce per spezzarsi al pari dei fiori sotto un temporale.
«E tu vuoi sempre risolvere i problemi, vedere—vedere le cose positive, ma non ci sono. Non ci sono in un mondo dove ti picchiano perché sei omosessuale».
Finisce col mordersi il labbro inferiore. I suoi occhi grandi e scuri si sono fatti lucidi.
«Sei più contento così?».
Dante ammutolisce, sebbene fosse a conoscenza di una parte di tale rivelazione, solo che non ha mai fatto alcun passo avanti, aspettando fosse il figlio ad esser pronto.
Adesso, a quanto pare, lo è.
Avrebbe voluto accadesse in modo diverso.
Lo avrebbero voluto entrambi, del resto.
«No, non sono contento» dice, fingendo un colpo di tosse per schiarirsi la voce. Solleva una mano per posarla sulla spalla del ragazzo che ha di fronte. Stringe appena la presa. «Avresti dovuto parlarmene subito, io avrei potuto...».
«Che?» lo interrompe subito Simone «Non avresti potuto fare nulla».
«Ma posso farlo ora. Se questi atti di bullismo si verificano a scuola, si parla con la preside, si può...».
«No», scuote il capo «non cambierà niente».
«Non è vero e non puoi saperlo».
Vorrebbe credergli, così come vorrebbe credere alle simili parole di Chicca.
Vorrebbe davvero essere convinto del fatto che le cose possano variare, che un intervento del genere possa placare il trambusto che ha dentro.
Ci prova.
Tira sul col naso. «Mi lasci stare?» biascica, arrendevole «Per favore, per—per stasera, lasciami stare».
Riesce a dire soltanto quello, una supplica per poter rifugiarsi in quel mondo dei sogni, coi mostri che combatteva da bambino e che ora gli fanno meno paura.
Allora Dante annuisce, rimanendo cupo in viso. Vorrebbe abbracciarlo, stringerlo a sé per fargli capire che è lì per lui.
È sul punto di farlo quando Simone fugge via, su per le scale, lasciando l'uomo da solo, con una lacrima solitaria che gli scivola lungo una guancia.
***
Manuel non ha mai pensato che la sensazione di vuoto potesse essere così grande e acuta.
Percepisce una voragine al centro esatto del petto, qualcosa che non è in grado di colmare.
Esistono diversi tipi di dolore, ma non ne ha mai provato uno simile.
È come quando, da piccolo, correva per la strada, inciampava e cadeva, si sbucciava tutte le ginocchia e sua madre Anita cercava di disinfettare le sue escoriazioni con un batuffolo di cotone imbevuto d'acqua ossigenata; e bruciava così tanto da fargli venire le lacrime agli occhi.
È un po' lo stesso, solo che ora le ferite non può provare a sanarle: sono troppo profonde, vaste, rendono la sua anima a brandelli.
Di sicuro era meglio avere le ginocchia sbucciate che guarivano nel giro di qualche giorno, almeno sapeva come e quando la sua sofferenza sarebbe finita.
Debole, Manuel è rimasto in camera sua, seduto a terra con le ginocchia strette al petto e la schiena premuta contro il muro. Si è rannicchiato su sé stesso come se in quel modo potesse farsi più piccolo.
Piccolo fino a scomparire.
Piccolo fino ad essere di nuovo quel bambino con le ginocchia sbucciate.
Vorrebbe sparire.
Ha abbandonato il telefono sul letto, con lo schermo rivolto verso il basso. Ogni tanto lo ha sentito vibrare ed è stato pari a ricevere ulteriori schegge a lacerargli la pelle.
Strizza le palpebre anche adesso che l'ennesima notifica sopraggiunge. Non sa chi è, non ha voglia di controllarlo.
Si porta le mani a tappare le orecchie, chiedendo muto a qualunque suono di fare meno rumore.
Persino l'aria fa rumore e gli fa male.
Ma negli ultimi giorni, comunque, ogni cosa gli provoca dolore: le parole degli altri, quelle che rivolge a sé stesso, i pensieri che formula, la convinzione di essere sbagliato, un giocattolo rotto che nessuno vuole più nessuno.
Che fuori posto ci si è sempre sentito, non voluto, un peso, capitato per errore, che se non fosse mai nato avrebbe reso migliore la vita di sua madre...
E, di recente, ogni cosa è peggiorata, come se avesse avuto la conferma di tutto ciò che ha sempre pensato.
Sei sbagliato, non vai bene.
Sei sbagliato e ti meriti quel che è successo.
Sei sbagliato.
Sbagliato.
Sbagliato.
Sbagliato.
Un eco si espande nella sua testa, rimbomba, lo percuote ancora, ancora e ancora.
Sbagliato, ancora.
Sbagliato, sbagliato, sbagliato.
«No, no, no» cantilena.
La sua voce è al pari di un lamento. Vorrebbe scacciare quel che lo dilania, mettere a tacere i pensieri, gli echi che lo rimproverano, che gli sbattono in faccia una verità scorretta.
Mentre ancora biascica «No, no, no», il suo telefono vibra di nuovo. Ogni notifica corrisponde ad una pugnalata al centro esatto del torace.
«Ti prego, ti prego, ti prego» è ormai un lamento, una supplica affinché tutto smetta.
Ti prego, smettila.
Manuel ha gli occhi serrati, la testa gli gira, gli manca il fiato, non riesce a respirare. Il cuore batte troppo forte, lo percepisce contro lo sterno. Una fitta lo colpisce al centro del torace, poi più sotto, alla bocca dello stomaco.
Pare quasi che il proprio corpo si stia ribellando e lui stia precipitando in un buco nero pronto a risucchiarlo.
«Manuel? Manuel!».
È un'altra voce, più limpida e cristallina, che sopraggiunge.
Manuel non è in grado di vedere Anita che è entrata nella stanza, che gli si inginocchia accanto con espressione preoccupata stampata in viso.
«Manuel...» sussurra la donna, piano. Prova ad allungare una mano per sfiorare il suo braccio, ma il figlio la scansa in malo modo, con uno scatto, e sbraita «No!» e dopo farfuglia «No, no, no».
Manuel spalanca gli occhi: sono lucidi, gonfi e arrossati. Fissa la madre con aria smarrita perché è perso e non ha più la concezione di spazio e tempo.
Cerca di lottare contro la sua presa, contro l'abbraccio che la donna vorrebbe dargli.
Prova a combattere.
Ma non è lei il nemico, Manuel.
«No, no, no, lasciami, lasciami!» grida «Lasciami!».
«Manuel, Manuel, Manuel...».
Anita non si arrende, insiste, afferra entrambi i suoi polsi, cercando di non esercitare eccessiva pressione su quello fasciato. È faticoso, alla fine deve persino strattonarlo per stringerlo in un abbraccio.
Lo costringe ad accasciarsi su di lei, ad appoggiare la testa sul suo petto.
Manuel lotta ancora per qualche secondo finché non si arrende.
Finché non combatte più quel nemico inesistente.
Singhiozza, intanto che il profumo di vaniglia della donna gli invade le narici.
Trema, sussulta.
Anita passa le dita tra i suoi capelli in maniera delicata. Lo fa per tranquillizzarlo, come faceva sempre quando era piccolo e si sbucciava le ginocchia.
«Shh», mormora «sono qui, sono qui». Lo culla, dondola a destra e sinistra per mandar via tutta l'angoscia.
Manuel si aggrappa a lei, un unico appiglio in mezzo alla sua tempesta. Chiude di nuovo gli occhi.
«La mamma è qui con te» bisbiglia Anita in un suo orecchio.
E fa un po' tutto meno male.
***
Simone fissa lo schermo del cellulare da minuti interminabili.
Ha la conversazione di WhatsApp aperta sulla chat di Manuel. Ha scritto qualcosa, dei messaggi che, ad un certo punto, hanno smesso di avere significato, ma li ha cancellati tutti senza premere invio.
L'ultimo recitava: "la luna non è la stessa senza di te".
Gli è sembrato troppo, inopportuno, privo di senso.
Decide di chiudere quell'applicazione. Ne apre un'altra, principalmente per distrarsi. Clicca sull'icona di Instagram, tuttavia questo va solo a peggiorare la situazione giacché la prima cosa che appare è un post di matt_deroma insieme a Michael: sono uno accanto all'altro, sorridenti, mentre Matteo gli tiene una mano sulla spalla.
La didascalia corrisponde a: "sei er mejo de Roma, sempre al tuo fianco".
I commenti sotto sono da parte di altri ragazzi, tutti di supporto.
Simone pensa che potrebbe vomitare in quel preciso istante.
Gli fa venire la nausea il fatto che nessuno abbia ritenuto vera quell'informazione su Michael, come i suoi amici non abbiano avuto il benché minimo dubbio e lo abbiano difeso a spada tratta, mentre non è stato lo stesso per lui o per Chicca.
Come se usassero due pesi e due misure.
Ed è ingiusto.
In tal modo, la rabbia torna alla ribalta, prepotente e inarrestabile.
Simone vorrebbe urlare. Lancia un'occhiata verso la porta chiusa quando si alza dal letto sul quale è rimasto seduto a gambe incrociate per tutto il tempo.
Raggiunge la scrivania alla quale si siede.
Il meccanismo che si innesca in lui è il medesimo di qualche giorno prima: è ferito, preso dalla collera e, adesso, anche infastidito. Sono sentimenti negativi che lo conducono su mappadellavergogna, sul ricorrente nuovo post, su cui clicca e comincia a scrivere:
Preme su pubblica senza nemmeno rileggere e chiude il browser.
Le conseguenze non lo preoccupano, spera soltanto che quella gente che lo ha massacrato così tanto soffra tanto quanto ha fatto lui.
Non gli interessa altro.
«Posso?».
Viene distratto, poco dopo, da un lieve bussare alla porta. Si concede soltanto una fugace occhiata per notare Dante sulla porta, ma non gli presta troppa attenzione.
Il professore considera il suo sguardo al pari di un cenno d'assenso, pertanto varca la soglia della stanza senza esitazione. Su una mano aperta regge un piatto di ceramica bianco, che contiene una fetta di torta e una forchetta.
«Ti ho portato questo», spiega, avvicinandosi al figlio «è al cioccolato. La nonna dice che è il rimedio perfetto alla tristezza».
Appoggia il piatto col dolce sopra alla scrivania, in modo che il ragazzo lo possa vedere, e abbozza un sorriso.
Simone ha lo stomaco chiuso, non riuscirebbe a buttar giù proprio niente. «Non mi va» borbotta.
«Sicuro? Non hai cenato e...».
«Non ho fame. E, come ho detto tre ore fa, non voglio parlare».
«Non volevo parlare».
«Sì che vuoi parlare!» il tono di voce di Simone si alza appena e rivolge al padre, stavolta, uno sguardo truce «Lo fai sempre: arrivi con una scusa e cominci a fare i tuoi discorsi. Queste cose funzionano a scuola con quei deficienti, non con me».
È ancora più scontroso di prima ed è un aspetto che Dante decifra bene. Annuisce, intrecciando le dita dietro alla schiena.
«Volevo solo portarti la torta», dice «nessun discorso strano».
Sorride ancora, più per circostanza, per nascondere apprensione e angoscia. «Buonanotte, Simone» si congeda in quel modo e dopo esce dalla stanza, chiudendo la porta.
Simone rimane da solo, di nuovo.
Con i suoi deleteri pensieri, di nuovo.
***
[Note autore:
La storia ha sorpassato la metà, quindi vi chiediamo...
Secondo voi chi è l'autore/l'autrice della mappa e del blog?
Manuel scoprirà che adesso lo gestisce Simone?
Ma soprattutto, Manuel e Simone riusciranno a stare insieme oltre questi problemi?
Speriamo vi sia piaciuta la storia fin qui,
al prossimo capitolo!]
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