ERRORE
«Secondo voi, allora, cos'è l'amore?».
Il professor Coverti pone il quesito che non ha risposta e ne è consapevole quando lo esterna, tanto che un sorriso si dipinge sulle sue labbra.
È in piedi davanti alla distesa bianca dove tutto è iniziato, laddove nasceva la mappa della vergogna.
Ogni cosa è stata nascosta e celata, ora.
L'uomo indica comunque quella lastra incolore e poi rivolge lo sguardo agli alunni della 4^B, durante l'ultima lezione prevista di educazione sessuale.
Simone non ha idea con che coraggio ci si è presentato, neppure con quale forza si è trascinato a scuola negli ultimi giorni, che corrispondono ad un incubo dal quale vorrebbe svegliarsi.
Non vuole vivere in una realtà dove Manuel lo ignora, dove è tornato a non esistere per lui.
Prega sempre affinché una mattina appaia un biglietto con una poesia sotto al suo banco, ma lo trova vuoto ed è solo un peso in più sul piatto della bilancia a lui opposto.
Che schifo.
Anche in quel momento, non sta davvero ascoltando le parole del professore che tenta di spiegare come sesso e amore siano collegati, come si debba coltivare quel sentimento, portare la connessione fisica su un piano molto più spirituale rispetto al solo atto.
Gli sembrano una serie di frasi fatte per spiegare qualcosa che una spiegazione non ce l'ha.
«La cosa più importante rimane una sola» la voce dell'insegnante arriva alle sue orecchie e fa parte di un discorso di cui non ha tenuto il filo «che in qualunque modo esprimiate il vostro amore, dovete sentirvi bene, dovete sentirvi liberi, su ogni fronte. I giudizi della gente arriveranno comunque, ma fintanto che ogni vostro gesto è mosso dall'amore, quel che dicono gli altri vi deve scivolare addosso, che sia scritto su un muro o meno».
Manuel dista soltanto qualche metro da Simone. Tiene lo sguardo basso e nemmeno lui sta per davvero ascoltando il monologo di Coverti.
Gli occhi di Simone, invece, sono fissi sulla figura dell'altro ragazzo. Sa che gli basterebbe poco per creare un contatto tra di loro, solo allungare una mano per sfiorare la sua.
È assurdo come percepirlo al tatto gli manchi e sia diventato essenziale quanto lo è l'atto di respirare.
Solo che si trattiene e può solo guardarlo.
Non può fare altro poiché, in quegli ultimi giorni, Manuel lo ha ignorato, non lo ha lasciato parlare, esporre le sue ragioni e Simone è convinto che, se solo lo ascoltasse, capirebbe.
Ne è certo.
No, crede.
Pensa.
Che casino, Simone.
Non si rende conto della lezione che finisce, perso in pensieri e marchingegni della testa che lo hanno portato ad eclissarsi – come la luna.
Realizza che non c'è più nulla a cui prestare attenzione quando i compagni di classe si diramano, ode i loro saluti e allora sbatte in fretta le palpebre per tornare lucido.
Pure Manuel non rientra più nel suo campo visivo. Deve scrutare l'ambiente intorno, di fronte all'edificio scolastico, per notare che l'altro ragazzo si è indirizzato verso la sua moto e ora sta raccattando il casco da sotto la sella.
Decide di raggiungerlo e deve accennare una lieve corsa per farlo.
«Possiamo parlare?» va dritto al punto.
Come previsto, Manuel evita accuratamente il suo sguardo, rimane scostante, distaccato. «Non c'ho niente da dì» taglia corto.
«Ma io sì» rimbecca Simone «puoi—puoi ascoltarmi, per favore?». Il suo tono di voce si spezza, di pari passo alla sua anima – perché fa male non avere più il suo sguardo addosso, fa male aver ricevuto una dichiarazione in quel contesto, fa male non essere più visto.
Manuel sospira, si guarda intorno, col casco retto in una mano. La sua espressione è dura, arrabbiata. Gli fa un solo cenno con la testa, per invitarlo a tirar fuori qualunque cosa abbia dentro.
È un minuscolo traguardo per Simone, che lo rincuora, almeno un po' – troppo poco, ma è qualcosa.
«Non è opera mia» spiega «tutto quanto, non—ho ricevuto le credenziali per entrarci dopo, non c'entro niente col muro o con la nascita del blog, davvero. Non lo avrei mai fatto».
Spera che ciò possa servire; del resto, è la verità, a lui non sarebbe mai passata per la testa l'idea di metter su una cosa del genere. Per un momento, si illude che ciò sia sufficiente a sistemare la questione, che l'onestà possa ripagarlo, ma dura pochi secondi. Dopo, realizza che lo sguardo di Manuel non è cambiato, non è tornato ad essere dolce e comprensivo d'improvviso, anzi, permane la sua delusione e collera.
«C'hai scritto?» viene chiesto.
«Che?».
«Dopo che hai avuto le credenziali, c'hai scritto qualcosa sul blog?».
Sì, lo ha fatto.
Con delle ragioni, dei motivi che sembravano validi.
Simone annuisce e un po' trema.
Manuel si lascia sfuggire una risata amara. «Allora non sei così diverso da chi ha creato tutto» conclude. Indossa il casco ed è in procinto di andar via – dal parcheggio davanti a scuola, dalla vita, da loro due, importa poco.
Simone torna ad essere in apnea, a corto di fiato. Osa allungare una mano che va a posarsi sul braccio dell'altro ragazzo, ma viene evitato, scostato subito.
Se la felicità fa un bel rumore, l'indifferenza è un suono sordo e dilaniante da diventare silenzio.
«Manuel...» biascica.
Ma Manuel non lo ascolta, non lo sente, non lo vede.
Accende la moto e sgomma via senza proferire parola.
Simone rimane immobile, a fissare i ciottoli della strada, mentre le gambe gli tremano e i suoi occhi si inumidiscono.
Vorrebbe trovare un colpevole di quella situazione, ma la parte peggiore è che può solo guardarsi allo specchio.
***
Il buon uso che devi farne non vuol dire eliminarmi :)
Il buon uso che devi farne non vuol dire eliminarmi :)
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Il buon uso che devi farne non vuol dire eliminarmi :)
Il buon uso che devi farne non vuol dire eliminarmi :)
Simone ha perso il conto delle volte che ha provato ad eliminare il blog, anche se ormai non serve cancellarlo, non ora che il danno è fatto.
Ha provveduto a cancellare i messaggi ricevuti – quasi mille, in totale – non leggendoli neppure.
Ma tutto il resto è ancora lì ad inchiodarlo.
Ha tentato persino di rimuovere i post, però anche quelli risultano protetti e bloccati, come se non ci fosse modo di tornare indietro.
Rimane seduto alla scrivania in camera propria, di fronte al portatile aperto, nella penombra; l'unica illuminazione presente nella stanza è dovuta allo schermo del computer.
I suoi occhi sono umidi di lacrime, il suo cuore vuoto e in frammenti.
Clicca per l'ennesima volta sul pulsante elimina e, di nuovo:
Il buon uso che devi farne non vuol dire eliminarmi :)
La gamba destra gli sussulta più del solito. Socchiude le palpebre, ha le guance bagnate.
Il buon uso che devi farne non vuol dire eliminarmi :)
Il buon uso che devi farne non vuol dire eliminarmi :)
Il buon uso che devi farne non vuol dire eliminarmi :)
Non ce la fa più.
Chiude il computer con uno scatto, lo afferra e lo scaraventa sul pavimento. Presume lo abbia rotto e non gliene frega niente.
Si alza in piedi, si passa entrambe le mani tra i capelli, dopo sul viso.
Gli sembra di esser finito in un incubo.
In quel sogno da cui non è possibile svegliarsi ci è dentro pure Manuel, che è seduto sul davanzale di marmo della finestra aperta, con una sigaretta consumata a metà tra indice e medio, e il fumo che si leva per aria.
Con lo stesso cuore affranto, a chilometri di distanza nella stessa città, in una stanza anch'essa priva di luce.
Da una simile posizione, è facile osservare la luna, coperta da nubi grige in parte, ma pur sempre visibile; non è piena, quella è passata e Manuel ha perso l'occasione di poterla ammirare insieme a Simone.
Non ha potuto cogliere l'attimo per rimanere con lui sotto la luna e le stelle e sussurrargli ciò che è sempre stato rinchiuso in una allegoria.
È bella la luna stasera, vero?
Sai che ti amo, stasera e domani, vero?
Però, adesso è solo, mentre la luna lo giudica e non riesce a consolarlo.
È solo lui, è solo Simone e la luna perde la sua poesia e risulta soltanto un satellite, un pezzo di roccia freddo in mezzo allo spazio infinito.
E nulla più.
***
Quella notte, Simone non riesce a dormire.
Non ci prova neppure, a dire il vero, perché se solo chiude gli occhi, sopraggiungono pensieri ed incubi che sono peggio della realtà effettiva.
Convive con la tachicardia, le mani che gli tremano e il mal di testa.
Assurdo il modo in cui la tensione che prova si sia diramata e gli abbia provocato sintomi fisici.
Si trova nella penombra in cucina, seduto al tavolo, con una tazza di tè che si è preparato almeno un'ora prima, ma che non ha bevuto; si è fatto freddo.
«Ti sei fatto una camomilla?».
La domanda di Dante non lo coglie impreparato. Ha percepito la sua presenza da un po', ha soltanto fatto finta di niente, sperando che il padre non entrasse nella stanza e tornasse a letto dopo essersi recato in bagno.
Questo, purtroppo, non è successo e l'uomo si siede vicino a lui, incrociando le mani sulla superficie piana.
Simone continua a fissare il tè lasciato intatto e scuote appena il capo, in cenno di diniego.
«È successo qualcosa?».
Dante pone tale quesito sebbene una parte di lui già conosca la risposta: lo sa che qualcosa è successo, per quanto si sia sforzato di non impicciarsi, ma ha visto e sentito Manuel andare via da quel posto in fretta e furia, sbattendo la porta.
Non ha indagato oltre per un po', ma adesso è spettatore della caduta a pezzi del figlio e non riesce più a rimanere in disparte.
Simone si stringe nelle spalle e non gli rivolge ancora lo sguardo. «No, io...» balbetta.
Il padre allunga una mano, la posa lieve sul suo braccio, sperando che ciò serva da rassicurazione. Il ragazzo osserva quel gesto e il petto gli sussulta. «Qualcosa», biascica «cioè, io...». Solo adesso solleva il capo e mostra gli occhi gonfi e arrossati. L'aria comprensiva che ha assunto Dante un briciolo lo conforta.
«Vuoi parlarmene?».
Ce ne sarebbero di cose da dire, argomenti sui quali discutere. Tuttavia, essi faticano a venir fuori.
Simone si sente ancora bloccato da quel punto di vista.
Si morde forte l'interno della guancia e stringe i pugni sul tavolo. «Ho—ho litigato con una persona» sussurra, con un filo di voce.
«Hai litigato con Manuel?» non ci sono mezze misure.
Colpito, secco, dritto al cuore.
Deve per forza annuire.
«Posso sapere il perché o...».
«No», mugugna «ma non è importante, non...». Lo è, è importante. «Ho fatto delle cose che non dovevo fare e gli ho mentito e lui—lui adesso mi odia».
«Odiare è una parola grossa, Simone» attesta Dante. La sua espressione è seria, sebbene tenti di sforzare un sorriso rassicurante. «E sono sicuro che Manuel non ne sia capace, di odiare, intendo. Te, soprattutto».
«Invece sì» replica il ragazzo e si passa una mano sul viso «perché ho sbagliato, ho fatto una cosa imperdonabile e...».
«Stai ammettendo di aver sbagliato, è già molto maturo».
«Ma non cambia ciò che ho fatto, non...».
«No, certo che no» il professore incalza «e io nemmeno so cosa hai sbagliato, nello specifico, ma, vedi... tutti sbagliano. Tutti fanno errori, più o meno gravi, ma soltanto pochi hanno le palle di riconoscerlo, di dirlo e di non nascondersi dietro all'evidenza. Sai chi lo ammette? Le persone buone e con gran cuore».
Fa una breve pausa, intanto che si alza, si dirige verso il frigorifero, dal quale raccatta una bottiglia di vetro piena d'acqua; recupera pure un bicchiere e torna a sedersi nella posizione iniziale.
«È il peso della coscienza», prosegue, versandosi da bere «quello che ti fa tornare sulle tue azioni, te le fa analizzare, rivedere sotto più quanti punti di vista possibile, il tuo e quello degli altri, ti porta a chiederti cosa avresti fatto davanti al tuo comportamento se fossi stato un'altra persona e ciò ti aiuta a vedere meglio gli errori, a riconoscerli. È una grande qualità, non la sottovalutare».
Finge un colpo di tosse e butta giù un sorso d'acqua. «Ad esempio», chiede «se Manuel avesse fatto a te ciò che tu hai fatto a lui, qualunque cosa sia, tu come avresti reagito?».
Simone lascia scorrere il suo discorso. Spinge un po' la tazza, la fa strisciare sulla superficie piana di legno. Quel quesito non gli ha mai sfiorato i pensieri, non ne ha mai trovato il motivo.
«Non lo so», sussurra «forse mi—mi sarei arrabbiato».
«E lo avresti odiato?».
No, mai, la risposta è così spaventosamente semplice: non odierebbe mai Manuel, nemmeno in un'altra vita.
Scuote il capo in cenno di diniego.
Dante solleva un angolo della bocca per accennare un leggero sorriso. «Vedi, ti saresti arrabbiato» appunta «magari avresti urlato, poi non gli avresti parlato per un po', ma non lo avresti mai odiato. Non credi che per lui possa valere lo stesso?».
Simone manda giù a fatica della saliva. Non ha mai amato particolarmente i discorsi troppo profondi del padre, eppure quello ha senso e lo colpisce dritto al cuore, fa breccia. «Dipende...» gracchia «dipende dal suo punto di vista».
«Certo, perché quando si discute, tra due persone ci sono sempre due punti di vista e il chiarimento è nel mezzo. Io sono sicuro, assolutamente certo che se spieghi a Manuel il motivo per cui ha fatto ciò che hai fatto, con calma, con sincerità, e soprattutto se gli chiedi scusa, lui vedrà il tuo punto di vista e la rabbia, a poco a poco, andrà via».
«Gliel'ho spiegato, gli ho detto perché ho fatto alcune cose, ma non è servito».
«Diglielo di nuovo. Se pensi che il vostro rapporto ne valga la pena, se non vuoi perderlo, diglielo finché non gli esce dalle orecchie».
«E se non funziona?».
«Ce ne preoccuperemo quando e se andrà così, mh?».
Da un lato, Simone apprezza quel tentativo di rassicurazione da parte di Dante: si sente compreso, almeno un po', confortato pure dalla pacca sulla spalla che il padre gli riserva.
È un abbraccio che non si verifica, quello, il medesimo che viene replicato a qualche chilometro ed ore di distanza, con la mano di Anita che si appoggia lieve sul ginocchio di Manuel quando entrambi sono seduti sul divano nella cucina del loro appartamento.
«Manuel, capisci che se non me racconti pe' bene le cose, come faccio a aiutarte?» esclama la donna.
«Te l'ho raccontato già» borbotta Manuel «che altro te devo dì?».
«M'hai solo detto che hai litigato co' Simone e adesso non lo vuoi più vede'. Me sembra 'n po' generico».
«Non ce sta bisogno de anna' nei dettagli».
«Evidentemente sì se questo influisce così tanto sull'umore tuo».
Sbuffa e alza gli occhi al cielo. «M'ha detto delle cazzate e non—non me sta bene».
Anita aggrotta le sopracciglia. «E tu cazzate a lui non ne hai mai dette?» puntualizza.
Lo ha fatto e questo Manuel lo sa.
È consapevole di ciò che gli è uscito di bocca in passato, di aver attributo epiteti offensivi a Simone, di averlo trattato male in più di un'occasione, così come ricorda il modo in cui è stato perdonato dall'altro.
Tuttavia, non vuole considerare le cose sullo stesso piano. «Che c'entra?» soffoca «È n'artra cosa, non... non puoi capire».
«Spiegamelo, allora».
Non vuole, è semplice. «Daje, lascia sta', mà» taglia corto e si alza con uno scatto. Vuole concludere quel discorso.
Anita rimane immobile, si stringe nelle spalle e abbassa per mezzo secondo lo sguardo. «Non ce sta bisogno che te nascondi co' me» attesta «non so' scema, so fare due più due».
Manuel muove qualche passo distratto nella stanza, ponendo entrambe le mani sui fianchi quando indirizza l'attenzione verso la madre. «Che?» gracchia.
La donna sospira, lo fissa attraverso le ciglia folte. «A Simone» pronuncia piano quel nome «gli vuoi bene, no?».
Solo sentirlo menzionare provoca una fitta profonda al petto di Manuel che si blocca e trattiene il respiro. Dopo sforza una risata isterica. «Che domanda der cazzo, ma'» tergiversa.
«E tu rispondi».
Rispondi.
Vuoi bene a Simone?
No.
Ami Simone?
Sì.
«Questo non—non c'entra con quello che è successo» non replica per davvero.
Come ovvio, Anita lo realizza nell'immediato. «Gli vuoi bene» la risposta esatta - o quasi - la fornisce lei «altrimenti non staresti così male per averci litigato. Non si sta male per le persone a cui non si vuole bene». Si alza in piedi, in maniera lenta, e raggiunge il figlio. Prende il suo viso tra le mani e Manuel, di riflesso, abbandona le braccia lungo i fianchi.
«Sei arrabbiato e va bene» dice Anita «va bene esse' arrabbiati, ce stanno i sentimenti negativi, a volte. Però, quando lo sei un po' meno, puoi andare da lui, puoi spiegargli cosa ti ha fatto così arrabbiare e sono sicuro, sicurissima che troverete una soluzione».
Manuel non è certo.
Nell'ultimo periodo non lo è di molte cose, del resto.
Vorrebbe tanto credere a quelle parole, pensare che tutto si risolva semplicemente parlandone, il punto è che non sa se riesce a passare sopra ad alcuni aspetti.
È come se non fosse in grado di andare oltre quella mancanza di fiducia.
Che Simone avrebbe potuto dirgli del blog, che se è vero che ha ricevuto le credenziali a posteriori, avrebbe potuto parlargliene e allora lui...
Cosa?
Che avrebbe fatto?
Un cazzo, avresti fatto, Manuel.
Te saresti bloccato e basta.
Mentre questi pensieri vorticano nella sua testa, il cellulare che tiene nella tasca anteriore dei pantaloni vibra per tre volte. Ringrazia che ciò accade almeno può discostarsi e concludere il discorso.
«Scusa» farfuglia, raccattando l'apparecchio - Anita, allora, interrompe il contatto tra di loro e indietreggia, incrociando le braccia al petto.
Trova alcune notifiche sullo schermo, la maggior parte delle quali sul gruppo della classe. Ha sempre il terrore quando vengono inviati tanti messaggi tutti insieme, non rappresentano mai nulla di buono.
E, in effetti, anche quella volta è così: niente, assolutamente nulla di positivo.
Anzi, al contrario, legge messaggi che lo bloccano, lo fanno tremare.
Giulio
Matteo sta grave in ospedale
Luna
Ma chi te l'ho detto???
Giulio
Mi ha avvisato sua madre, stiamo andando lì ora
Laura
Che ospedale?
Aureliano
Al gemelli
Chicca
Arriviamo
Simone legge i medesimi messaggi quando è rimasto da solo ed è tornato a letto, sperando di dormire qualche ora dopo la notte trascorsa in bianco.
Ma, come prevedibile, la notizia che giunge glielo impedisce.
Non sa cosa sia successo davvero, quando e come, eppure uno strano presentimento lo attanaglia, gli stringe una morsa al cuore.
È quella che lo porta a vestirsi di fretta, a recuperare le chiavi della Vespa e a precipitarsi fuori, in strada, verso il luogo nominato dai compagni.
Per un istante gli passa per la testa di avvertire Dante che, intanto, è tornato a letto – è sabato, le giornate, di sabato, solitamente sono tranquille – ma desiste e fugge via più veloce che può.
Ciò nonostante, è uno degli ultimi a giungere al pronto soccorso.
Mantiene il casco in mano quando vi entra e trova, oltre ai genitori di Matteo, alcuni compagni di classe accomodati sulle sedie della sala d'attesa – ci sono Chicca, Luna, Giulio e Aureliano, poco distanti, in piedi, Laura, Pin e Manuel.
È quest'ultimo che scatta appena lo vede, lo afferra per un braccio con una forza non indifferente, tanto da fargli male, e lo trascina per quel lungo corridoio bianco e asettico, abbastanza lontano per non essere visti e sentiti dagli altri.
Simone è confuso, agitato e stranito. Vorrebbe incrociare i suoi occhi, scorgere un briciolo di rassicurazione in essi, tuttavia, quando ciò accade, ci vede solo un muro ghiacciato, astio e avversione.
Manuel molla la presa con uno scatto e si guarda fugacemente intorno.
«Che—che succede?» domanda Simone, con lieve timore.
«S'è buttato sotto 'na macchina» è la risposta tempestiva che sopraggiunge.
«Che?».
«Dopo ave' scritto ai genitori che non riusciva più a sopporta' quel che je veniva detto».
Il presagio si trasforma, d'improvviso, in greve senso di colpa.
Simone è conscio di cosa veniva detto a Matteo, da quando è iniziata la crociata nei suoi confronti, per un post che ha ritenuto ingenuo, dedito soltanto ad una vendetta che ha tanto bramato.
Il peso delle parole ha diversi impatti sulle persone, delle volte quelle più innocue possono sfociare in conseguenze devastanti, in ferite difficili da rimarginare.
Lui dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro.
Manda giù a fatica della saliva, si irrigidisce. «E come—come sta?».
«Per adesso non c'hanno detto niente de che, ma non pare sia messo bene».
Da quella posizione non può vedere gli altri presenti, ma si sforza comunque allungando il collo.
È allora che Manuel lo frena, appoggia un palmo aperto sul suo petto e lo spinge con lentezza indietro fino a fargli premere la schiena contro il muro bianco.
I loro sguardi si incrociano ed è micidiale.
«Però se la caverà, in qualche modo» biascica Manuel «ma 'o sai perché è successo, no?».
Simone annuisce e tira su col naso. «Non—non volevo accadesse, non...» soffoca.
«Lo so che non volevi» attesta Manuel «è che 'sto mondo è 'na merda e basta un niente per dare il via ad un effetto domino pauroso, basta— 'na mezza parola, 'na mezza accusa che se trasforma in qualcosa de più».
«Mi dispiace».
Manuel assimila quelle scuse. La rabbia, però, non gli è passata. Abbassa il capo, sulla propria mano al centro del torace dell'altro ragazzo; può recepire i battiti accelerati del suo cuore sotto le dita.
«Dì la verità» biascica.
«Cosa?».
«La verità sul blog, sulle cose che c'hai scritto, su—su tutto».
«Manuel...». Il suo nome esce dalla bocca di Simone con tono di supplica, poiché sa che, tirando fuori la verità, dovrà subirne le dirette conseguenze e non crede di essere pronto - non tutti capirebbero.
A tal punto, Manuel alza lo sguardo. «Dimostrame che qua sotto ce sta quella persona che m'ha fatto innamora'» gracchia «quella che non crede in 'sti mezzi pe' vendicarse, quella che è buona, quella che ce tiene agli altri».
«Manuel...» ripete Simone e la sua voce si spezza.
È perso, allo sbaraglio e gli manca il respiro.
La cosa peggiora quando l'altro si stacca da lui e fa un passo indietro.
Lo vede schiudere le labbra, spera aggiunga qualcosa, ma non è una cosa che accade.
Al contrario, Manuel si allontana.
Lo lascia solo in quel corridoio gelido e d'improvviso buio.
***
Simone non permane per molto in quell'ospedale.
Si assicura soltanto che Matteo stia bene, che sia vivo.
La notizia arriva due ore dopo e non può che esserne sollevato, ma ciò non scaccia via il resto.
Non manda lontano i sensi di colpa, non quieta le parole di Manuel che ancora gli ronzano in testa.
Va via in silenzio, non salutando nessuno.
Recupera la sua Vespa bianca e, per un po', girovaga per le strade di Roma senza una meta ben precisa, con le lacrime che gli solcano il viso e si seccano sulle sue guance.
Giunge a casa di sera, stanco, a pezzi dal punto di vista fisico ed emotivo.
Pensa che, per due volte, ha sentito Manuel dire che è innamorato di lui e in nessuna occasione è stato come nei suoi sogni.
No, lo ha sempre immaginato con loro sotto le stelle e la luna, a guardarsi negli occhi e sorridersi, non con lo sguardo pieno di astio da una parte e solitudine e dispiacere dall'altra.
Non è quello il modo in cui doveva verificarsi.
Voleva sentire Manuel pronunciare quelle parole dolcemente.
Invece c'è stata una eclissi ed ogni cosa è scura.
Ha ancora la giacca addosso quando trascina i piedi in cucina. Trova Dante seduto al tavolo, con una tazza di té fumante davanti, il cellulare in mano e gli occhiali abbassati sul naso.
Il padre capisce subito che qualcosa non va, glielo legge in faccia. Posa il telefono sulla superficie piana e si alza in piedi.
«Papà...».
Il petto di Simone trema. Comincia di nuovo a piangere - non crede di aver mai smesso da quando ha lasciato l'ospedale e i suoi occhi gonfi e rossi lo testimoniano.
Crolla in quel momento.
Prende posto su una delle sedie e racconta a Dante la verità, dall'inizio, con le parole che scorrono mentre lui desidera solo sparire, come la luna nuova.
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