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AFFONDARE



Uno dei biscotti con cui Manuel sta facendo colazione si spezza e fa schizzare il suo latte e caffè sulla tovaglia bianca e pulita.

Il ragazzo sospira, sconfortato, raccattando un cucchiaino per poter recuperare il pezzo caduto dentro al liquido.

È una di quelle giornate che può soltanto peggiorare, se inizia così.

«Che fai, oggi ce torni a scuola?» glielo domanda Anita, in piedi e in affanno ad aggiustarsi i capelli e le pieghe che ha sulla camicia. Deve andare al lavoro ed è già in ritardo.

Manuel non risponde subito, continua a fissare un punto vuoto davanti a sé, sperando che il biscotto che mantiene tra indice e pollice non si spezzi ulteriormente.

«Oh?» la madre insiste e gli schiocca le dita davanti. Soltanto allora lui si desta e scuote il capo, in cenno di diniego. «No, non credo...» replica.

«Manuel...».

«Hai detto che andava bene se cambiavo scuola».

«Seh, e me sto a informa' pe' questo, ma mica è tanto bello se entri da n'artra parte con un richiamo pe' le troppe assenze, mh?».

«Tanto l'anno lo perdo comunque».

«Non è detto».

«Sì, è così e manco me interessa». Il biscotto lo molla, rotto per metà, sopra alla tovaglia. «Posso torna' a dormì?».

Anita lo fissa, la sua espressione risulta inquieta, impensierita. «Stai sempre buttato su quel letto», fa notare «'o sai che non te fa bene».

Nel frattempo, Manuel scansa la sedia per allontanarsi dal tavolo e si rimette in piedi con leggera fatica, a causa delle fitte di dolore che ancora lo attanagliano in ogni punto del corpo.

Non proferisce parola, si limita a trascinare i piedi ricoperti solo da un sottile calzino sul pavimento per poter essere in grado di raggiungere la sua stanza.

Tuttavia, prima che possa davvero farlo, Anita la frena piazzando una mano sulla sua spalla.

«Devi parlarne con qualcuno, Manuel» gli dice, seria.

Il ragazzo accenna un sorriso spento. «Ne ho parlato co' te, no?» ribatte.

Non c'è necessità di specificare di cosa e con chi, lo sanno entrambi.

«Ne devi parla' co' qualcuno che ne capisce di più di me».

«Non mi va».

«Appunto perché non ti va, non puoi...».

La frase della donna non trova una fine.

Manuel lascia perdere quella conversazione, la taglia di netto. Ignora pure l'eco della voce della madre quando si chiude la porta alle spalle, con un tonfo.

Adesso ha solamente bisogno del silenzio.

***

Se gioca ancora a lungo con quel ciondolo, Simone è pressoché sicuro che finirà per romperlo.

Eppure, non riesce a farne a meno come se quel minuscolo contatto con quella mezzaluna potesse in qualche modo...

Ah, che stupido.

Pensa davvero che sfiorare un oggetto di metallo possa fargli sentire Manuel più vicino?

Follia.

È tutto inutile e insensato.

Non sa nemmeno che ci fa lì, seduto in sella alla sua Vespa, coi piedi che toccano terra e il casco lasciato appeso ad uno dei manubri.

La campanella della scuola sta per suonare e lui vorrebbe solo fuggire. Le lezioni gravano su di lui al pari di macigni, non riesce a seguire nulla e neppure gli interessa.

Ogni cosa ha smesso di avere qualche sorta di rilevanza, del resto.

«Dove lo hai preso?».

Simone solleva il capo e distoglie lo sguardo dal gioiello. Sbatte le palpebre, per poter mettere a fuoco due grandi occhi azzurri che lo scrutano: è Laura.

«Cosa?» replica, anche se ha capito a cosa si riferisce la compagna di classe.

«Il bracciale», spiega lei «è carino. Dove lo hai preso?».

«Ah, uhm—niente, è un regalo».

«Beh, è molto bello».

Simone si limita ad annuire e si costringe a non torturare più il ciondolo.

Cambia in maniera drastica argomento, lo indirizza verso qualcosa che rientra di più nel suo interesse.

«Ho visto che Matteo non viene a scuola da qualche giorno» inizia.

Laura comprende il suo tentativo e decide di accordarlo. «Sì», asserisce «dopo il post sul blog hanno iniziato a girare degli screen di chat con lui. Un po' illegale fare circolare conversazioni altrui, ma—penso abbia scritto ad ogni ragazza di questa scuola, pure a quelle di prima».

«E faceva la morale a Chicca».

«È Matteo, che t'aspetti?».

«Niente di diverso».

«Ecco, appunto».

Simone andrebbe avanti in tale conversazione, ma viene preceduto dall'arrivo di Pin, che affianca la ragazza, gli appoggia entrambe le mani sulla vita e le lascia un bacio sulla guancia.

«Ehi, buongiorno!» esclama, con un sorriso.

Laura arrossisce appena sulle gote.

Simone saluta il compagno di classe con un lieve cenno del capo, nascondendo il senso di invidia che prova perché vorrebbe essere libero di fare la stessa con Manuel, lì, davanti a scuola, invece ogni cosa sta andando allo scatafascio e forse non si vedranno mai più, specialmente se l'altro cambierà per davvero scuola.

«Ma Manuel?».

Ecco, non bastano più i suoi pensieri a tormentarlo: sopraggiunge anche il quesito di Pin.

Simone solleva lo sguardo per incrociare i suoi due occhi scuri e spalancati che lo fissano e pretendono una risposta, mentre aggiunge: «Sono quasi due settimane che non viene a lezione. È successo qualcosa?».

Scrolla le spalle, come a fingere un'indifferenza che non prova. «Non lo so, non l'ho sentito» sussurra – ed è una mezza verità, considerando che lo sta sentendo poco e niente; almeno prima aveva le repliche a monosillabi, adesso neppure quelle.

Fa schifo che il loro rapporto si sia interrotto per cause non dipese da un loro comportamento, da un litigio, da una incomprensione, ma solo per...

Per cosa?

Perché non ci parliamo più?

«Magari dopo provo a scrivergli» propone Pin e lancia un'occhiata a Laura, la quale annuisce e aggiunge: «Io l'ho fatto ieri, mi ha risposto dopo due ore con una emoji. Non credo avesse tanta voglia di parlare».

Almeno non sono l'unico a cui risponde così.

«Più siamo, meglio è, no? Almeno sa che ci manca».

Simone pensa che ha già assistito troppo a quella conversazione, ragion per cui sospira, si sistema lo zaino sulle spalle. «Ci vediamo dentro» annuncia e si allontana dai due ragazzi senza aggiungere null'altro.

Piuttosto, mentre sale le scale verso il piano dove si trova la sua classe, recupera il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans chiari che indossa, sblocca lo schermo e va dritto sull'applicazione di WhatsApp, apre la conversazione col contatto di Manuel.

Digita rapido:

Manchi a tutti.
A me un po' di più.

È un cliché, un messaggio che non avrebbe mai pensato di mandare, uno di quelli che gli avrebbe, di norma, fatto storcere il naso per l'eccessiva dolcezza e grande banalità.

Però, forse, l'amore rende più smancerosi, più scontati, più da frasi fatte che cominciano, d'improvviso, ad avere un senso, perché, senza saperlo, cominci ad averlo pure tu.

Un senso.

***

Quando Manuel apre la porta, nel primo pomeriggio, immagina sia Anita che ha scordato di nuovo le chiavi – di proposito o meno, per costringerlo ad alzarsi dal letto, come ha fatto nei giorni precedenti.

Tuttavia, sulla soglia non ci trova la madre e, a tal punto, si pente persino di aver aperto.

«Che ce fa qui, professò?».

Dante tiene le mani intrecciate dietro alla schiena e il capo appena piegato su di un lato. Non risponde alla sua domanda, piuttosto esclama: «Lo sai che hai proprio un aspetto di merda?».

In una differente situazione, è probabile che Manuel avrebbe riso. Ora, tuttavia, non gli esce nulla a parte un sospiro sommesso. «Le ha detto mi madre de venì qua, ve'?» svia il discorso.

«Me lo hanno detto le tue assenze a scuola, prima di tutto. Poi sì, ho sentito anche tua madre. Mi fai entrare?».

Non vorrebbe. Il suo unico desiderio è di tornare sotto le coperte, con le cuffie nelle orecchie così da permettere alla musica alta di stordirlo abbastanza per smettere di pensare o farlo meno.

È consapevole, però, che il professor Balestra non appartiene a quella categoria di persone che si arrendono con facilità e che non riuscirà a mandarlo via con qualche scusa.

Per cui, per evitare lotte inutili, si scansa dalla porta e gli fa cenno di entrare con la testa.

Dante accoglie il suo invito: entra in casa e si dirige direttamente sul divano, sul quale prende posto.

Manuel lo segue dapprima con la coda dell'occhio – quello ferito è un po' meno gonfio e riesce a tenerlo meglio aperto – e poi gli va dietro, dopo aver chiuso la porta.

Rimane in piedi, con una spalla appoggiata allo stipite dell'ingresso. «Me deve fa' qualche discorso motivazionale?» dice «Perché se è così, non je faccio perde tempo, non serve».

«Potrei», ribatte Dante «ne ho una caterva di quelli, sai?».

«Non ho alcun dubbio».

«Non voglio farti nessun discorso, solo capire cosa succede e sapere come stai».

«Non ha già detto che c'ho n'aspetto de merda?».

Dante annuisce. Si scosta sui cuscini del divano e ci batte sopra il palmo per invitare il ragazzo a prender posto accanto a lui.

Quest'ultimo tituba, serrando le labbra, ma al secondo richiamo, si sente costretto ad accettare, dunque si siede di fianco all'uomo.

È un po' meno dolorante rispetto ai primi giorni, ma è probabile sia solo a causa delle tonnellate di medicinali che butta giù, anche non prescritti.

«L'occhio nero come te lo sei fatto?» esordisce Dante.

A Manuel sfugge una fiacca risata. «Qualcosa me dice che lo sa già il come» borbotta.

«Come potrei saperlo?».

La sua indifferenza è quasi credibile. Il ragazzo si acciglia. «Dei tizi», taglia corto «niente di trascendentale, so' abituato».

«Sei abituato alle botte?».

«Abbastanza».

«Ma le altre volte che t'hanno menato, non ti sei chiuso in casa per giorni senza mettere il naso fuori o sbaglio?».

«No».

«E che c'è stavolta di diverso?».

Io.

La risposta sarebbe molto semplice, fin troppo, eppure Manuel tace. Si sfrega le mani, nervoso.

«Comunque non ce stava bisogno che veniva fino a qua», biascica e abbassa lo sguardo «tanto a quanto pare cambia' scuola è più difficile del previsto».

«Sì, ma le tue assenze stanno aumentando e in questa scuola o in un'altra...».

«Hanno un peso, 'o so. Mi pare de sentì mi madre».

«Beh, non ha tutti i torti» conviene Dante.

Fa una pausa ulteriore, accennando un sorriso di circostanza, ma che vuole essere comunque di conforto. «Sai, pure Simone c'ha n'occhio nero», continua poi «mi ha raccontato come è successo e.... beh, a lui è stato qualcosa di crudele, molto crudele. La violenza lo è sempre, per usare qualche frase fatta».

Manuel lo sta a sentire, in silenzio: non sa cosa e fino a che punto Simone abbia raccontato ciò che è accaduto, se ha specificato le ragioni o meno, se ha confessato ciò che ha sempre tenuto segreto, se ha detto di lui, di loro.

Una parte del ragazzo spera di sì.

Prega affinché abbia fatto tutto Simone, perlomeno con Dante, così che possa liberarsi di quel peso che gli opprime il petto, di ciò che si tiene dentro, che non ha confessato neppure alla madre - non nei dettagli.

Ha detto ad alta voce di essere bisessuale solo ad una persona, del resto.

Le mani gli tremano. Fissa le proprie dita graffiate: stanno guarendo, almeno quelle.

«Sono successi solo casini da quando è stato scoperto quel muro», comincia dal principio, tenendo lo sguardo basso «come se avesse tirato fuori la cattiveria di chiunque perché se so' sentiti tutti legittimati a dì la propria, anche quando non serviva. E io pensavo de sopportarlo, quello e ben altro, no? Ero convinto de ave' 'na corazza abbastanza spessa e forte pe' sopportà il peggio, ma me so' accorto che non è così, che so' fragile, debole, me spezzo co' niente e non me piace».

«Ed è un male?».

Gli sfugge una risata un po' isterica. «Vorrei non esserlo, vorrei esse' forte per—pure pe' gli altri, pe' le persone a cui tengo, non...».

«Non è sempre un male essere fragile, Manuel» Dante cerca di rassicurarlo e appoggia una mano sulla sua spalla per un momento. «Dimostra molte cose, sai?».

«È 'na debolezza».

«Non lo è, dimostra che sei—umano. E non credo ci sia cosa più bella, mh?».

«Non me piace» gracchia Manuel e strizza le palpebre, per quel che può «esse' così, dico. Ave' paura der mondo intero, delle persone, del...» manda giù a fatica della saliva.

«Vorrei solo che quel che dice la gente non me condizionasse così tanto. A volte non me riesco ad alza' dal letto la mattina perché penso che diranno oggi? Che faranno? E allora me blocco. Perché le altre persone c'hanno troppo potere su quel che sento e manco questo me piace. Me fanno esse' fragile, me fanno spezza' e non... non voglio questo».

«Le persone hanno su di te il potere che tu dai loro» attesta Dante «e questa è un'altra frase fatta, lo so, ma è pure la verità» corruccia le labbra in una smorfia e scrolla le spalle.

«Il problema è che siamo sempre portati a vedere il peggio, no? Sentiamo solo ciò che ci fa male ed escludiamo ciò che ci fa bene e allora le voci di chi ci distrugge risultano sempre più forti, ma non deve essere così. Se ascolti bene, quelle delle persone che ti amano sono molto più potenti, ne sono sicuro».

Soltanto allora Manuel alza gli occhi, va a guardare il professore con lieve speranza e si morde piano il labbro inferiore.

Dante amplia il sorriso. «Ce ne sono tante, mh?» dice «C'è quella di tua madre, la mia...» fa una breve pausa e sospira: «Quella di Simone».

Sottolinea quel nome, inclinando il capo su di un lato.

È sufficiente quello, per Manuel, per capire quanto il professore sappia, nonostante non abbia esplicato nulla. E va bene così, non vi è la necessità.

«Quella di Simone è bella» sibila il ragazzo «di voce, intendo».

Esterna tale confessione senza pensarci troppo e, per un attimo, se ne pente addirittura.

Forse ho detto troppo.

Si morde il labbro inferiore, nervoso. «Non... non je dica che l'ho detto».

«Sarà il nostro segreto» Dante lo rassicura, mentre si alza in piedi, con lentezza. Si indirizza verso i fornelli. «Faccio un po' di caffè, che dici? Posso?».

Manuel si limita ad annuire, rimanendo accomodato sui cuscini del divano. Scruta le spalle del professore, che intanto traffica con la moka, riempiendo d'acqua la caldaia e, in seguito, di polvere scura l'imbuto.

«Comunque, il mio è solo un consiglio, eh!» dice Dante e alza un po' il tono di voce per essere sentito meglio «Non dico che tornando domani a scuola, sarà tutto facile, anzi... molto probabilmente sarà atroce lo stesso, ma da qualche parte si comincia. Se dai più retta alle voci di chi ami, a poco a poco ti peserà di meno. Poi ovviamente, per questo ed altro, potresti pure parlarne con qualcuno che ne capisce di più di un poraccio che spiega filosofia ad un branco di scalmanati».

«Devo anna' dal medico dei pazzi?».

Dante si acciglia. Lascia la caffettiera sul fornello, non accedendo ancora la fiamma sotto. Si volta e gli lancia un'occhiata di rimprovero.

«Si chiama psicologo» specifica «e non è il medico di pazzi, è quella figura alla quale tutti dovrebbero rivolgersi almeno una volta nella vita, t'assicuro».

Fa una breve pausa, voltandosi nuovamente e solo per accendere il fornello. «E non ci devi andare per cambiare ciò che sei o per essere normale, tutt'altro. Che poi, in 'sta vita nessuno è normale. È solo per imparare a gestire l'ansia che puoi avere in determinate situazioni, le tue paure e angosce e mille cose che ti passano per la testa. Ecco, per convivere bene con la tua testa, in sostanza. Non c'è nulla di sbagliato in questo».

Il caffè viene messo in preparazione e l'uomo torna a prender posto accanto all'alunno. «Ma ovviamente», aggiunge «è una tua scelta, come qualunque altra. Nessuno ti obbliga a fare qualcosa che non ti senti, sia chiaro».

Manuel abbassa di nuovo lo sguardo. Ha preso a torturarsi le dita, tirando i piccoli lembi di pelle attorno alle unghie. «Professo'?» richiama.

«Mh-m?».

«Lo psicologo t'aiuta pure a capì perché t'innamori di qualcuno? Tipo qualcuno a cui non hai mai pensato, ma poi cominci a farlo ogni giorno di più e te—te viene in mente sempre, pure quando guardi la luna?».

Dante sbuffa una risata. «Su questi miracoli si deve ancora attrezzare, mi sa» replica «e ti dico pure che sono millenni che la filosofia si fa questa domanda e nessuno ha trovato la risposta... come funziona l'amore. Credo sia un enigma senza una vera risoluzione».

Manuel si limita ad annuire a tale affermazione. Concorda su un simile aspetto, di quanto sia ingarbugliato l'amore.

Eppure, una piccola, minuscola parte di lui, in quel momento, comincia a riflettere su un concetto semplice quanto paradossale – e buffo, strano al contempo.

Manuel, l'enigma.

Simone, la sua risoluzione.

***

Trascorrono due giorni.

Matteo è tornato a scuola e Simone ha analizzato a fondo i suoi comportamenti: lo ha visto più schivo nei confronti di chiunque, più silenzioso, dalle poche o assenti battute che fanno ridere lui soltanto.

Ne è rimasto soddisfatto poiché stavolta sa di aver colpito e vorrebbe congratularsi con sé stesso.

Sul blog, ha continuato a ricevere ulteriori messaggi. Li sta conservando tutti, così da poterli utilizzare all'occorrenza.

Il senso di colpa viene spazzato via dalla compiacenza del vedere i suoi nemici cadere a pezzi.

Quella mattina, giunge al Da Vinci abbastanza presto, parcheggia la Vespa al solito posto. Ha smesso di fare colazione al chiosco davanti all'edificio giacché non pare avere un senso prendere solo un cornetto – ce ne vorrebbero due.

Così si dirige direttamente in classe: c'è un compito di autori latini alla prima ora e, magari, ne può approfittare per ripassare, dato che quella lingua arcaica non gli entra proprio in testa, ma può recuperare con la teoria.

L'aula è vuota. Non c'è nemmeno Pin che, di solito, è uno dei primi ad arrivare a lezione.

Tanto meglio, pensa Simone, che non ha voglia di fare conversazione.

Prende posto al proprio banco, dopo aver appeso allo schienale della sedia la giacca di pile verde e lo zaino, dal quale estrae il libro della materia prescelta.

È in quel frangente che si accorge di qualcosa di diverso, che ha già visto, è già successo, solo che non si aspettava potesse capitare di nuovo.

Proprio lì, nello scomparto sotto al suo banco, intravede l'angolo di un cartoncino bianco e basta quella insignificante visione a smorzargli il fiato.

Il petto gli sussulta intanto recupera quello spesso pezzo di carta, che estrae, tenendolo tra medio e pollice.

Riconosce la calligrafia, riconosce tutto:

Dammi la tua mano.
Vedi?
Adesso tutto pesa la metà.

Vorrebbe sorridere, ma non ci riesce. È completamente bloccato da quella frase, dal biglietto, da tutto.

Non ha il tempo di reagire, non per davvero. Non riesce a metabolizzare quanto accaduto che, sollevando lo sguardo, lo vede entrare in classe, con lo zaino tenuto su una sola spalla dalla bretella un po' allentata, il livido sull'occhio decisamente migliorato rispetto all'ultima volta e i ricci scompigliati che non si è sforzato di sistemare.

Con disinvoltura, si accomoda al solito posto, tenendo la giacca bomber verde militare addosso.

Simone segue la sua figura con lo sguardo, con gli occhi spalancati e grandi. Schiude le labbra, vorrebbe dire qualcosa, ma non crede di essere in grado di formulare una frase sensata.

Difatti, quel che gli viene fuori di bocca non ha un significato profondo, corrisponde a «C'è il compito di latino oggi».

Manuel accenna un sorriso nella sua direzione. «Lo so», attesta «ho studiato, che credi».

«Ah, uhm... io no».

«Te lo passo io».

È una conversazione tanto quotidiana e banale da risultare più che assurda in quel frangente perché non si sono parlati per giorni, perché il silenzio è stato protagonista tra loro per un tempo fin troppo lungo e adesso le frasi che si scambiano sono soltanto quelle, su uno stupido compito di latino.

Tuttavia, a Simone va bene così.

Si sente tranquillo all'improvviso, tanto da allungare la mano da sotto il banco. Non c'è nessuno in classe, nessuno può vederli.

Attende che l'altro ragazzo la afferri in quel modo, il che accade poco dopo - pochi secondi: Manuel stringe le sue dita tra le proprie, in un gesto celato che suggella quel loro ritrovo.

E tutto, per davvero, pesa la metà.

***

Il compito di latino, in realtà, è qualcosa di impossibile e, in previsione, tutta la classe avrà un pessimo voto; del resto, il professor Lombardi si diverte così.

A Simone non interessa, non quando, allo scoccare dell'intervallo, si ritrova insieme a Manuel nella biblioteca della scuola.

È un luogo piuttosto appartato, con i mobili e gli scaffali di legno e libri datati che in pochi sfogliano.

Il chiacchiericcio incessante proviene dai corridoi, oltre la porta che hanno chiuso.

Simone si è appoggiato ad essa con le spalle, così da accorgersi se qualcuno tenta di aprirla.

Manuel gli è di fronte, con un mezzo sorriso che gli segna le labbra. Pare più sereno rispetto all'ultima volta che si sono visti.

Di conseguenza, lo è pure Simone.

Enigma e risoluzione.

«Che ti ha fatto cambiare idea?» chiede allora «Sulla scuola, sull'andare via...».

Manuel corruccia le labbra in una smorfia e il taglio sull'angolo gli pizzica un briciolo. «Un po' tuo padre, in realtà» spiega e gli sfugge una risata nervosa – la stessa che scaturisce nell'altro ragazzo; «Un po' perché t'ho fatto 'na promessa e quelle le mantengo sempre».

Gli ha giurato di non lasciarlo solo.

Se lo sono giurati a vicenda.

Simone piega appena il capo su di un lato. Non sta per davvero controllando i propri movimenti quando va a far intrecciare le dita con quelle di chi gli è di fronte. Gli viene spontaneo, un gesto naturale.

«Non so se me la sento di andare a ringraziare mio padre» scherza.

«T'ho sempre detto che è forte».

«Si impiccia troppo».

«Eh, a volte serve, no?». Manuel abbassa lo sguardo per un breve attimo prima di, con un respiro profondo, sporgersi nella direzione dell'altro ragazzo e depositare un bacio lieve e leggero sulla sua guancia; deve sollevarsi appena sulla punta dei piedi per farlo.

«C'ho ancora 'na paura assurda» sussurra, a pochi centimetri dal suo viso «e certe volte manco riesco a respira' se penso a quel che è successo, però... però me ricordo che ce stai tu, che non serve chiuderti fuori o allontanarti, quello rende 'e cose solo più difficili».

Fa una breve pausa, intanto che Simone pone la mano libera su un lato del suo collo; in quel modo, può sfregare un pollice sulla parte bassa del suo zigomo.

«E poi se scappo, è come darla vinta a cojoni come Matteo, non se lo meritano».

Simone annuisce, ad accordare quanto esposto, sebbene abbia smesso di ascoltare in maniera diretta: si è perso nei suoi tratti, nei suoi occhi, nella sua bocca che si muove e che vorrebbe baciare – perché non accade da giorni.

Sta per farlo: la distanza tra di loro è davvero minima, minuscola, tanto da percepire i rispettivi respiri sulla pelle, anche se Manuel sta ancora parlando, anche se Simone ha smesso di ascoltarlo seppur nolente, anche se...

«Ma vaffanculo, va!».

Un'imprecazione proviene dal corridoio, che fa trasalire entrambi. La voce protagonista la riconoscono.

Manuel compie un passo indietro per permettere a Simone di scostarsi e aprire la porta che si affaccia sullo spazio comune. Sono sufficienti pochi movimenti per scorgere la figura di Matteo con gli occhi lucidi e l'espressione contorta di sentimenti negativi che, di solito, non lo contraddistinguono.

Manuel è sul punto di dire qualcosa, ma il compagno di classe gli rivolge un'occhiata tagliente quando gli passa davanti, a passo svelto e sbotta: «Vaffanculo pure voi!».

Matteo urla ancora e si dirige in fretta verso la rampa di scale che conduce al piano inferiore e poi, probabilmente, l'uscita dell'edificio.

Lo sguardo di Simone fugge in fretta verso il fondo del corridoio, dove sono visibili Michael insieme ad altre persone che non conosce, appartenenti di sicuro alla stessa sezione; ha un ghigno stampato in faccia, ridacchia e scuote il capo.

Simone non riesce ad interpretare quei gesti, però immagina abbiano discusso e persino un simile evento è in grado di scaturire nel suo petto un moto di soddisfazione.

State affondando.

***

La giornata a scuola trascorre più in fretta e in modo meno pesante, tanto che la campanella che suona non segna più la liberazione da una prigione, ma soltanto la fine di qualcosa.

Simone scende i gradini di marmo uno ad uno, con una spalla che, talvolta, va a scontrarsi con quella di Manuel – il quale, durante la giornata, è stato attorniato dai compagni e ha inventato scuse sulla sua assenza e sull'occhio ancora livido.

Non lo ha biasimato: lui, del resto, continua a sostenere di essersi fatto male a rugby.

Al termine delle lezioni, sono più tranquilli e con più quiete a circondarli, anche perché la maggior parte dei presenti si affretta a correre verso la fermata della metro o sale sulla moto per arrivare in fretta a casa.

Di fretta, invece, Simone non ne ha. Trascina i piedi lentamente verso la Vespa bianca parcheggiata al solito posto, intanto che, senza nemmeno chiederglielo, Manuel lo segue.

«Non l'ho vista la tua moto stamattina» dice, giocherellando con le chiavi che tiene in una mano.

«Perché mi ha accompagnato mi' madre» replica l'altro «voleva esse' sicura che entrassi pe' davvero».

«Ah—e ti viene anche a prendere?».

«Ecco, su questo c'avemo 'n piccolo problema».

Raggiungono il mezzo posteggiato. Simone solleva la sella, ci tiene sempre due caschi lì. Ne afferra uno e glielo porge.

«Vieni da me?» lo chiede, sebbene nella sua testa non suoni come una domanda, più come una richiesta diretta, una supplica.

«Da te?».

«Sì, da me» conferma «possiamo pure—studiare».

«Studiare» Manuel gli fa il verso e afferra il casco, ficcandoselo, in seguito, sulla testa. Gli fa un cenno per invitarlo a mettersi alla guida.

Simone sorride, sereno. Obbedisce: richiude la sella e sale sulla Vespa, inserendo la chiave nel quadro.

Manuel si sistema dietro di lui. Si affretta subito a cingergli la vita con entrambe le mani e, d'istinto, appoggia il mento sulla sua spalla. «Non me fa' cade'» sussurra.

«Mai».

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