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Orribile

Dublino, 1° marzo 1992

Non aveva mai visto una stanza tanto buia.
Sembrava di affogare nella pece.
"Cazzo."
Éibhleann imprecò e portò le mani davanti a sé, procedendo a tentoni nella speranza di trovare un interruttore.
Nulla.
"Dove diavolo è finito?"
"Éibhleann? Tesoro?"
La voce di Connor riecheggiò nella stanza: sembrava lontano, mentre le mura parevano restringersi ogni volta che le parole dell'uomo vi rimbalzavano.
"Papà?"
"Dove sei, pulce?"
Gli occhi della donna divennero presto lucidi. Si affrettò nervosamente verso una fonte di luce, trovando finalmente la maniglia di una porta.
La abbassò, spinse l'uscio e lasciò che il chiarore l'avvolgesse nuovamente.
Socchiuse per qualche istante le palpebre, colta di sorpresa da quella scena tanto luminosa.
Si voltò e, con grande sconcerto, scoprì di essere appena fuggita dalla propria cameretta.
Riuscì a scorgere poco in quel buio pesto ma, ad occhio e croce, sembrava essere rimasto tutto come l'aveva lasciato la Éibhleann adolescente che l'abitava.
"Papà?" chiamò ancora, percorrendo cautamente il corridoio al piano superiore della vecchia casa di Portrane.
"Sono qui, in cucina."
Scese le scale, passando le dita sul legno consunto del corrimano laccato.
Un forte senso di angoscia cresceva nel petto della donna ad ogni gradino, mentre un fastidioso rumore bianco le riempiva le orecchie.
Delle note iniziarono a risuonare nell'aria, sempre più insistenti: provenivano dal pianoforte in soggiorno.
Nessuno, però, vi era seduto per suonarlo.
"Papà?" chiese per l'ennesima volta, ripercorrendo con lo sguardo la casa d'infanzia.
Connor era di spalle, in cucina, intento a spadellare qualcosa dal profumo delizioso.
"Sei tornata per cena." constatò l'uomo versando del vino bianco in una casseruola.
Ciò che cuoceva iniziò a sfrigolare fastidiosamente.
"Hai finito di scrivere la tesi? Ti serve aiuto?"
"... no, papà." rispose Éibhleann con la voce tremula di chi non ha alcuna intenzione di trattenere le lacrime.
Le note che coloravano l'atmosfera cominciarono a mutare in una cacofonica esecuzione, come se qualcuno avesse iniziato a calpestare casualmente i tasti dello strumento.
"Chi suona?" domandò lei, allungando la mano verso la spalla dell'adorato padre.
"Tua mamma. Chi altri, se no?"
Connor si voltò e Éibhleann inorridì.
La sua gola era tagliata, scavata così in profondità da far colare una cascata di sangue sul pavimento ad ogni movimento.
"No... no!"
Indietreggiò piangendo, negando insistentemente con il capo.
Quando aprì la porta d'ingresso per fuggire da quell'orrore, un'altra figura le si parò davanti: Siobhán.
La madre le afferrò le spalle, bloccandola e perforando l'anima di Éibhleann con quello sguardo perennemente deluso.
Anche la sua gola era stata recisa.
"Orribile." iniziò a ripetere a bassa voce, cantilenante.
"Sei orribile."
"Perché hai fatto questo?" chiese Connor avanzando dalla cucina.
"Cosa ho fatto?" ribatté la più giovane, impaurita e tremante, ancora intrappolata nella stretta della madre.
Connor sollevò il bracciò e puntò il dito contro il viso della moglie.
Quando si voltò, la garda noto le labbra di Siobhán raggrinzirsi per poi iniziare a colare sanguinanti.
Tentò di urlare, ma la voce non uscì.
"Papà, non ho fatto nulla!"
"No?"
Éibhleann si portò le mani al viso, solo per scoprirsi insanguinata fino ai gomiti.
Provò ancora una volta, ma il gridò le si strozzò tra le labbra.
Svenne.

-

"Papà!"
Si svegliò urlando, madida di sudore ma sana e salva nel proprio letto.
Ci vollero lunghi istanti prima che riuscisse a capire di non essere in pericolo. Strinse tra le dita le lenzuola, recuperando lentamente il fiato: le mani erano candide, niente tracce di sangue.
Si alzò tremante, tentando di raggiungere il telefono all'ingresso senza morire di paura ad ogni cigolio delle assi del pavimento, ad ogni spiffero.
Sollevò rapidamente la cornetta, componendo a memoria il numero di telefono della dottoressa Doherty.
Era domenica, lo studio sarebbe stato con ogni probabilità chiuso, quindi scelse di telefonare direttamente a casa della donna.
Quel numero le era stato dato dalla psichiatra per le emergenze, dopo la morte dei genitori, ma non era mai servito realmente.
Squillò a vuoto un paio di volte, finché finalmente scattò la comunicazione.
"Flor?" implorò nel panico Éibhleann.
"Risponde la segreteria telefonica di casa Doherty. Sfortunatamente non posso rispondere, ma se sarete così gentili da lasciare un messaggio vi richiamerò il prima possibile."
"Flor...?" chiamò ancora, dubbiosa.
Le lacrime ricominciarono a cadere pesanti e silenziose.
"Si può?"
La donna sobbalzò, gridando spaventata. Gettò la cornetta e afferrò senza riflettere un ombrello dall'appendiabiti accanto alla porta, brandendolo come arma prima di voltarsi verso l'intruso.
"O'Gallagher! No!"
Seoige si parò improvvisamente davanti al figlio, cercando di calmare la collega.
"Giù. Mettilo giù: sono io. Non volevamo spaventarti."
La donna tentennò, ma posò ugualmente l'oggetto che minacciava di scagliare contro i due.
Chinò imbarazzata il capo, tirando con le dita nodose la maglia che utilizzava come pigiama perché coprisse, se non le lunghe gambe snelle, almeno gli slip.
"Io..."
La mano di Brión afferrò senza indugio quella di Éibhleann: tremava come una foglia.
"Maitiú, prendi gli attrezzi dall'auto. Torno subito." soffiò in direzione del figlio che, perplesso, decise di obbedire senza questioni.
L'uomo sfilò il giubbotto e lo adagiò sulle spalle dell'amica, cercando di rassicurarla.
"Dov'è la tua camera? Dovresti vestirti."
Lei annuì e fece strada.
"Non volevamo spaventarti: la porta era aperta."
A quelle parole, Éibhleann gelò sul posto.
"Aperta?"
"Sì. Socchiusa, perlomeno. Non sei stata tu a lasciarla così?"
Negò con un breve cenno, sedendo sul bordo del proprio letto e facendo segno a Brión di fare lo stesso.
"Mi dispiace di aver minacciato Maitiú. Mi ero scordata che sareste venuti."
"Cosa ti è successo?"
"Incubi."
Lui pettinò morbidamente con le dita le ciocche rosse della donna, chiedendosi spontaneamente da quanto tempo qualcuno non si prendesse realmente cura di lei.
"Ero a Portrane, con i miei. Loro erano... già morti, credo. Mi accusavano di qualcosa, dicevano che sono stata io."
"Sei stata tu?"
O'Gallagher annuì pensierosa.
"Éibhleann, ora vestiti, prepara un caffè bello forte e fai un giro per le stanze per controllare che non manchi nulla di valore e potrebbe essere stato rubato. Sarò fuori a falciare il prato."
La donna tornò immediatamente alla realtà, iniziando ad eseguire gli ordini di Seoige.
Attese che il collega fosse uscito dalla camera da letto per spogliarsi della maglietta di svariate taglie più grande.
Si avvicinò allo specchio appeso accanto alla libreria, osservando con non troppa approvazione il fisico scarno.
Passò le dita sulle clavicole sporgenti, per poi scendere lenta sui seni nudi, rimasti acerbi e poco pronunciati.
Contò brevemente le costole più evidenti, fermando la propria discesa sul ventre piatto.
Non poté fare a meno di scrollare il capo con disappunto, ignorando il sentimento di inadeguatezza che il solo guardarsi allo specchio le trasmetteva.
Notò distrattamente un lungo graffio sull'avambraccio sinistro, ma lo liquidò classificandolo semplicemente come uno dei tanti incidenti domestici che, per pura sbadataggine, la ricoprivano ogni volta di lividi e tagli.
Voltò le spalle al proprio riflesso, vestendosi rapidamente prima di proseguire con la lista di compiti assegnatale dall'amico.
Non ringrazierà mai abbastanza per aver trovato in lui una seconda figura paterna.

Una volta ultimato il giro di perlustrazione dell'abitazione con la propria tazza di caffè fumante tra le mani, si affacciò sul pergolato.
Brión coordinava il lavoro di potatura del giovane melo che cresceva nel giardino della villetta, mentre Maitiú sforbiciava foglie e rami pericolosamente abbarbicato ad una scala di legno.
"Allora? C'è tutto?"
Lei annuì soltanto, sedendo su uno dei gradini della veranda.
Il collega le sedette accanto, in silenzio.
"Ho avuto paura.
Ho paura." proseguì la donna. "Non aprivo il loro fascicolo da molto tempo, eppure sembravano come appena usciti dalle fotografie scattate sulla scena del crimine.
Le gole tagliate, le labbra di mia mamma massacrate. Tutto troppo realistico.
Sentire le loro voci dopo undici anni mi ha paralizzata."
Lui ascoltò ogni cosa in silenzio, fissando un punto imprecisato del cancello in ferro battuto.
"Forse mi stavano accusando di non essere tornata a casa con loro prima del compleanno di mia nonna.
Se non avessi dovuto coprire un turno in ospedale, probabilmente mi sarebbe toccata la stessa sorte."
Sorseggiò pensierosa dalla propria tazza colorata, chiudendo gli occhi. "Forse sarebbe stato meglio."
Brión aggrottò la fronte, voltandosi lesto verso la collega.
"Che stronzata, O'Gallagher.
Il caso di Linda Murphy ti sta occupando troppo la mente. Se anni fa fosse accaduto il peggio, Murray non avrebbe mai avuto la sua testimone di nozze, Morrison ora sarebbe senza una figura a cui ispirarsi, io non avrei la figlia quasi adottiva che tanto adoro."
Per l'ennesima volta in quella giornata di sole, gli occhi di Éibhleann si velarono di lacrime.
"...tutto bene?" domandò Brión mentre un sorriso morbido si apriva sul suo viso.
"Mh. Sarà polvere."

-

"Quando è successo?"
"Il medico legale non ne ha ancora idea. È stata ritrovata nel primo pomeriggio."
Finnerty lanciò un'occhiata all'orologio, rassegnandosi ad un'altra cena saltata.
"Dov'è?" incalzò O'Gallagher.
"Ancora sull'argine del fiume."
La donna annuì, avvicinandosi cauta.
Morrison era confinato sulla scena del delitto, incaricato dal commissario di fotografare anche la più insignificante delle inezie: un elastico per capelli, un accendino verde, un fazzoletto di stoffa con delle iniziali.
"Capo." salutò il ragazzetto dietro l'obbiettivo.
Éibhleann si limitò a biascicare un saluto mentre frugava nelle tasche del paltò alla ricerca dei propri guanti di pelle.
Li indossò e si avvicinò alla vittima.
Era giovane, molto più di lei o di Linda.
Sgozzata.
Le labbra martoriate.
Si passò una mano tra i capelli, sbuffando esasperata.
Non poteva più essere un caso, no? Ma sicuramente era ancora presto per dichiarare la presenza di un omicida seriale.
Esaminò le mani della ragazza, cercando qualsiasi traccia che potesse aiutarla a capire come diamine fosse finita a Waterstown Park, immersa nelle acque scure del Liffey.
Osservò con cura la ferita sul collo, poi le ecchimosi che i massi dell'argine le avevano causato sul viso e sul capo, tra i lunghi capelli ramati.
Sollevò con due dita le palpebre gonfie e si sentì morire dentro: occhi di ghiaccio.
Un altro sguardo spento che l'avrebbe perseguitata per giorni.

"Orribile."

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