Flor
Dublino, 3 aprile 1991
Éibhleann prese l'abitudine di visitare sempre più spesso senza appuntamento lo studio della dottoressa Doherty quando anche il nonno, padre di suo padre, l'ultimo laccio rimasto di una famiglia perduta, lasciò questo mondo.
Si spense sereno nel letto della propria casa, a Dublino, mentre l'unica nipote stringeva la sua fragile mano.
Chiuse gli occhi senza mai conoscere la verità, senza aver visto il volto della persona che gli strappò il cuore dal petto, uccidendo il maggiore dei suoi figli.
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"Signorina O'Gallagher?"
La voce all'altro capo del telefono sembrava distrutta.
"Sì?"
"Garda Síochána, polizia."
Bastò qualche minuto di conversazione perché, una volta riagganciata la cornetta, le mani di Éibhleann iniziassero a tremare violentemente.
Si accartocciò su sé stessa, avvolgendosi le braccia attorno al torace per tenere saldi tutti i pezzi che minacciavano di cadere e frantumarsi al suolo.
Ci vollero ore per assimilare ciò che il Sovrintendente MacCarthy cercò di comunicarle per telefono.
Quella mattina, i signori O'Gallagher erano stati ritrovati senza vita nella loro auto, poco distante dalla casa di Portrane, la stessa in cui anche Éibhleann visse fino all'ammissione alla facoltà di medicina del Trinity College.
Barbaramente uccisi prima che potessero rimettersi in marcia per raggiungere la figlia a Dublino, per festeggiare insieme il compleanno della madre di Connor.
Quella sera stessa Éibhleann lasciò il proprio appartamento, sistemando nella casa dei nonni paterni anni e anni di libri e qualche indumento.
Scelse di restare al loro fianco nonostante l'unica stanza che poterono offrirle fu quella che, anni addietro, Connor stesso occupava.
Ogni cosa era rimasta al proprio posto, ferma nel tempo: testi di giurisprudenza, qualche vecchio 78 giri di dubbio gusto, le maglie della squadra di hurling in cui giocava con i colleghi del college, una fotografia di Siobhán.
Ogni angolo di quella cameretta immergeva Éibhleann in una dolorosa vasca ghiacciata di ricordi.
Fu probabilmente in quella fredda sera verso la fine del 1981, ferma davanti ad una stazione di polizia sotto un nevischio fastidiosamente insistente, che iniziò a fumare.
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Posò la tazza di tè bollente sulla scrivania dell'amica, stravaccandosi comodamente sulla chaise longue di morbida pelle che Flor utilizzava per i pazienti.
"Fai come se fossi a casa tua."
Éibhleann frugò con impegno nella tasca dell'impermeabile e ne estrasse un imbarazzante accendino blu a margherite gialle, annuendo sfacciata alle parole dell'amica con una sigaretta già tra le labbra.
Ne tirò un fiato e sul viso stanco si allargò un sorriso;
accavallò quindi con estrema soddisfazione le gambe lunghe, lasciandosi sfuggire insieme al fumo un sospiro affaticato.
"Giornata intensa?" continuò la donna alla scrivania.
"Più o meno."
Flor rimase in silenzio, forse in attesa di un approfondimento alla sintetica spiegazione, ma Éibhleann non aprì più bocca.
Aveva il volto tirato in una smorfia tutt'altro che tranquilla.
"Sa perché ho lasciato la medicina, Flor?"
"Credo di immaginarlo."
Non seguì altro: le labbra di Éibhleann si strinsero di nuovo attorno alla sigaretta, che bruciava sempre più rapidamente.
La dottoressa sfilò gli occhiali, riponendoli con cura maniacale nel punto esatto in cui li poggiava solitamente, prima di avvicinarsi all'altra donna con la propria meritatissima tazza di tè tra le mani.
"È già zuccherato?"
Éibhleann annuì, facendo posto accanto a sé per Flor. "Due zollette."
Solo il tintinnìo del cucchiaino sulla porcellana riempì il lungo silenzio che circondava le due, almeno finché la più giovane non riprese il discorso.
"Mi sono arruolata in polizia sette anni fa, eppure mi sembra di essere ancora al punto di partenza."
Flor sfilò la posata dalla tazza, portandosela alle labbra.
"Lei avrebbe mai lasciato perdere? Avrebbe mai permesso che cessassero le indagini sulla morte dei suoi genitori?"
La psichiatra tacque: quando Éibhleann riuscì a farsi assegnare alla sezione omicidi della Garda, Flor fu la prima a cui ammise di aver sottratto dall'archivio giudiziario i fascicoli contenenti i dettagli di quella storia orribile e fu molto probabilmente anche l'unica a cui li mostrò.
"No, non l'avrei permesso. Ma non sono coraggiosa come te: non sarei stata in grado di lasciare il mio posto nel mondo per rincorrere dei fantasmi."
Il viso di Éibhleann si rabbuiò in un battito di ciglia.
Aggrottò la fronte e la voce si fece più cupa.
"Cosa sta cercando di dirmi?"
"Nulla, Éibhleann. Sei coraggiosa."
"Fantasmi? Flor, i fantasmi non tagliano le gole di due persone senza movente né tracce.
I fantasmi non guidano un'automobile con due cadaveri per sei chilometri da Portrane in direzione Dublino.
I fantasmi non esistono."
Si sollevò furente, rimettendosi l'impermeabile con gesti frettolosi e disordinati.
"E soprattutto" aggiunse, rincarando la dose, "i fantasmi non sfregiano le labbra delle persone come qualcuno in carne ed ossa ha fatto con quelle di mia madre.
Gliele hanno quasi strappate, Flor!"
Il tono di voce sorprendentemente alto stupì perfino sé stessa.
Non si era mai alterata tanto con Flor in tutti quegli anni di conoscenza e stima.
Riprese fiato e rilassò le spalle.
Quando sollevò di nuovo lo sguardo sulla dottoressa, però, scoprì un'espressione di profondo disagio dipinta sul viso di quest'ultima.
Flor sfiorava insistentemente la ferita accanto al labbro, con le dita che fremevano nervose. Abbandonò nuovamente la ventiquattrore sull'uscio.
In pochi passi fu di fronte a Flor, in ginocchio.
Prese le mani tra le proprie, chinando il capo.
"Mi dispiace." soffiò soltanto, moderando il volume in segno di scuse.
Flor negò con un rapido gesto, facendo ondeggiare le ciocche biondicce davanti al viso.
"Non è successo nulla."
Posò una carezza tra i disordinati capelli di Éibhleann, sorridendole rassicurante.
"Lo studio sta per chiudere, O'Gallagher. Dovrò rispedirti a casa."
La donna annuì mortificata.
Prima di rialzarsi, adocchiò un'ultima volta quel marchio profondo che iniziava a confondersi tra le prime rughe che si intravedevano sul viso d'una Flor ormai cinquantaseienne.
Sistemò la fedora grigia sul capo, afferrò la borsa e salutò Doherty con un cenno della mano.
Duke Ellington, la sua orchestra, una bottiglia di Lagrein e un pacchetto nuovo di zecca di Pall Mall riempirono la serata di Éibhleann senza assolutamente riuscire nel loro intento: distogliere la mente della donna dall'imbarazzante alterco di quel pomeriggio.
Flor Doherty fu, ai tempi dell'università, l'insegnante di Neurologia cui venne assegnata la classe di Éibhleann.
Non adorarla era semplicemente impossibile: sentirla parlare con quel suo tono pacato e gentile dopo una giornata passata a sezionare organi e studiare ossa era sempre un toccasana.
Il solo vederla era un sollievo per la giovane studentessa. Sapere di poter ricevere un sorriso da quella donna tanto buona bastava per spingerla attraverso le settimane più faticose.
Mossa dall'entusiasmo, lesse ogni pubblicazione della docente -dai testi più famosi agli articoli più nascosti- riscoprendo un particolare interesse negli studi della donna.
In particolare, trovò incredibilmente affascinante una serie di trattati sulla cura del dolore tramite ipnoterapia che la dottoressa decise di redigere in un momento complicato della propria vita.
L'ammirazione verso l'inarrivabile dottoressa cresceva ogni giorno di più.
Si avvicinarono ulteriormente quando fu proprio Flor ad interessarsi alla stesura della tesi di Éibhleann, sostenendola durante l'intero percorso verso la laurea.
L'aiuto non si fermava mai solamente allo studio: con Flor, la ragazza si sentì finalmente tanto libera da aprirsi e lasciar crollare il proprio povero cuore stanco tra le mani di chi sembrava volersene prendere cura.
Non capì realmente perché la dottoressa Doherty scelse proprio lei, ma fu davvero grata di quella fortuna.
Certo, l'aver suscitato pietà in una persona che ammirava così tanto è sempre stata una delle probabilità, ma non nella classifica delle papabili soluzioni al mistero a cui Éibhleann piaceva pensare.
Dopo la laurea, nel 1979, non si persero mai di vista;
non accadde nemmeno quando la giovane iniziò un impegnativo praticantato presso il St. James Hospital.
Flor era sempre lì per lei ed Éibhleann, con puntualità svizzera, si recava nel suo studio una volta alla settimana.
Poteva parlare di tutto: discutere di piccoli drammi quotidiani come chiedere consiglio per gestire al meglio il lavoro, ricordare i tempi dell'università come confessare l'odio cocente verso la propria madre.
Flor fu per molti anni l'unica persona ad ascoltare i lunghi pianti in cui Éibhleann cercava di sfogare una vita di delusioni e pretese, di carenze d'affetto materno e lezioni di pianoforte.
Con una tazza di infuso caldo e qualche frollino, i pomeriggi nello studio di Doherty si tramutarono presto in un insolito e abituale mix tra consulenze professionali e riunioni tra amiche.
Ci fu però uno strano periodo, tra il maggio del 1980 e l'agosto dello stesso anno, in cui la psichiatra chiuse i battenti del proprio studio.
Senza una spiegazione, una mattina sparì in silenzio ed allo stesso modo tornò a sedere alla propria scrivania qualche mese più avanti: contattò Éibhleann come se nulla fosse accaduto, invitandola per uno dei loro usuali tè da ufficio.
E, ignorando ogni stranezza, lei accettò.
Flor non raccontò mai cosa accadde in quel periodo;
non si sforzò mai nemmeno di trovare una scusa plausibile, si limitò semplicemente ad tralasciare l'argomento.
Non aveva nulla di diverso, nulla di strano.
L'unico particolare insolito era quella vistosa cicatrice che era apparsa accanto alle labbra che prima sorridevano molto di più.
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