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II. C'era una Volta


C'era una volta un ragazzo,

che entrò in un emporio in cui non sarebbe mai dovuto entrare

per riprendersi qualcosa che nessuno ha mai potuto avere indietro.

Il ragazzo si chiamava Alessio.

Alessio aveva occhi come un cielo d'estate e una speranza come un fuoco d'inverno.

Entrò nell'emporio in un giorno senza sole, e fu raggirato da una donna crudele. La donna gli diede ciò che voleva, ma il prezzo da pagare fu immenso.

E così, Alessio fu dannato.

Per sempre.



C'era una volta Ravenna sotto ai pensili della cucina.

Origliava una conversazione importante: i suoi genitori stavano discutendo con Dolores.

‒Non posso, lo siento‒ disse la donna, scuotendo la testa. ‒Il tempo è scaduto.

‒Il tempo è scaduto?‒ fece eco la vocetta bisbetica di Luisa Boneio. ‒Ma noi non sappiamo...

"Come gestirla" completò mentalmente Ravenna, stringendo più forte le ginocchia al petto, ma sua madre la sorprese.

‒Come proteggerla...

Ravenna lottò contro l'impulso di affacciarsi per guardarla dritta negli occhi. Aveva pronunciato quelle parole come se le fosse importato qualcosa, ma non era così. Lo sapeva bene.

Lo siento‒ ripeté il disco rotto di Dolores. ‒Non posso fare di più.

Ravenna sentì una stretta al cuore. Per anni Dolores era stata l'unica a prendersi cura di lei, l'unica a sostenerla, l'unica a capirla. E ora se ne stava andando. Nessuno aveva idea di dove fosse diretta ma, nonostante la segretezza della destinazione, Dolores le aveva proposto di seguirla.

Ravenna aveva rifiutato. E quindi non aveva alcun diritto di fermarla.

‒Ti prego, Dolores‒ fece Alberto Vizi, implorante. ‒Ripensaci.

Lo siento‒ ripeté di nuovo la donna. ‒Parto stasera stessa. Non posso attendere oltre.‒ Seguì un rumore di rotelle trascinate sul parquet, poi silenzio. ‒Vorrei salutare Ravenna, prima di andare.

‒Fai pure‒ gracchiò offesa sua madre. ‒Allora buon viaggio, Dolores. Andiamo, Alberto. Siamo già in ritardo.

Detto questo, ecco il familiare scalpitare di stringate e decolleté, e il tonfo della porta d'ingresso che si chiudeva. Per l'ultima volta, in casa rimasero solo lei e la cosa più simile a una famiglia che avesse mai avuto.

Lunghi istanti di attesa.

‒Tana per Ravenna! Avanti, esci fuori.

Sbuffando, Ravenna fece capolino da dietro alla credenza. Il grande open space di casa Vizi era illuminato dalle luci giallognole dei faretti appesi al muro. Dolores era sorridente come al solito, avvolta in un pesante scialle prugna e in un lungo vestito nero, dal quale sbucavano un paio di stivaletti di cuoio. Un'aureola di fitti ricci bruni incorniciava un volto tondo, dalla pelle ambrata, dalla fronte ampia e dagli occhi piccoli e verdi.

‒Non ti sopporto quando fai così...‒ biascicò Ravenna, tirandosi in piedi e andandole incontro. Aveva sedici anni ed era più alta di Dolores di almeno una spanna, ma in sua presenza si sarebbe sempre sentita una bambina.

Dolores le scompigliò con benevolenza i capelli. ‒Lo so, e ti mancherò proprio per questo.

‒Ti piacerebbe...

‒Oh, que linda!‒ esclamò compiaciuta l'altra. ‒Ti vergogni di dimostrare il tuo amore per me?

‒Mi lasci da sola con questi due sciroccati e hai il coraggio di definirlo "amore"?

‒Potresti sempre partire anche tu...

Ravenna le scoccò un'occhiataccia. ‒Dove stai andando?

‒Lo scoprirai, se verrai...

Ravenna sbuffò. ‒Sei incredibile. Questo è un ricatto e lo sai.

Dolores fece spallucce. ‒Te l'ho detto, non mi è permesso svelare gli Arcani del Circolo. Solo gli Adepti possono...

‒Sì, sì, certo- liquidò sprezzante Ravenna. Dolores le aveva ripetuto quelle parole un miliardo di volte, e ogni volta che le udiva le sembravano più assurde. Ma ora non era il momento di litigare. Perché quelli erano i loro ultimi istanti insieme. Ravenna cambiò bruscamente discorso. ‒Comunque, mi avevi promesso che mi avresti tinto i capelli. Hai mentito.

Allora sul viso di Dolores si aprì il più birbante dei sorrisi. La donna estrasse un flacone nero dalla tracolla e glielo porse, molto compiaciuta dalla sua evidente sorpresa. L'etichetta sulla confezione recitava: "Rosa Malva". Ravenna prese la tinta e iniziò a studiarla con voracità.

Dolores si portò una mano grassoccia al mento e prese a picchiettare con aria pensosa. ‒Mira...‒ disse, sbirciando l'orologio appeso al muro. ‒Non l'hai sentito da me, ma questa sera è Halloween e ci resta circa mezz'ora. Que te parece, possiamo far infuriare i tuoi un'ultima volta, prima che vada?

Ravenna sentì il proprio stomaco riempirsi di farfalle. Dolores le sarebbe mancata. In ogni momento, in ogni modo possibile e immaginabile, come un'amica, una zia, una confidente e come l'odiosa complottista che era. Ma lei non aveva il diritto di fermarla.

No, proprio no.

Quindi Ravenna cacciò indietro il magone e passò un braccio intorno alle spalle robuste della sua tata. Poi rise a sua volta. ‒Perché no?


‒Alessio, torna subito qui!

Il ragazzo non obbedì. Si catapultò giù, sempre più giù, saltando i gradini sporchi e verdognoli della sua palazzina a due a due, con grande agilità. Avrebbe avuto voglia di rompere il mondo.

La testa mora di Diego apparve in cima alla tromba delle scale. La luce era flebile e a tratti veniva meno, inondando di ombre un volto severo e spigoloso. ‒Vieni qui, ho detto!

Alessio rivolse lo sguardo in alto, al terzo piano. ‒No‒ ribatté furioso. ‒Scordatelo, questa è la mia serata libera!

L'altro gli scoccò un'occhiata fulminante, ma con la maglietta stropicciata e i capelli in delirio non era molto credibile. ‒Abbiamo del lavoro da sbrigare.

‒Al diavolo‒ fu la risposta perentoria di Alessio. ‒Tanto è tutto inutile.

‒Diamine, lo è se ti arrendi!

Dalla stessa apertura fece capolino anche la chioma canuta di Ernesta, la vecchina del secondo piano. Sembrava che lo spirito della palazzina si fosse incarnato nella signora, e ogni volta che Alessio la incrociava sul pianerottolo, tutta grigia e brontolante, aveva l'impressione che l'intero edificio stesse borbottando insieme a lei. ‒Giovanotti, volete smetterla di gridare, una buona volta?! Qui c'è gente che riposa!

‒Ci scusi, signora‒ rispose educatamente Alessio. ‒Mio fratello non accetta che io e i miei amici andiamo al raduno letterario, stasera. Crede che alla mia età dovrei sballarmi in qualche locale.

Il volto rugoso di Ernesta e quello severo di Diego si contrassero in contemporanea per l'indignazione.

‒Tu, brutto...‒ iniziò suo fratello, ma la donna lo interruppe.

‒Diego Carracci!‒ tuonò, ruotando il collo di centottantagradi per guardarlo. ‒Mi meraviglio di lei. In un quartiere degradato come il nostro, aver cresciuto un ragazzo di sani principi dovrebbe essere un orgoglio. Un orgoglio, dico!

Cogliendo l'occasione offerta da Ernesta, Alessio volò fino al portone d'ingresso e uscì nel buio della sera. L'aria pungente dell'autunno gli schiaffeggiò il volto. Dopo le otto a San Basilio non c'era mai anima viva, fatta eccezione per qualche faccia poco raccomandabile. La strada era puzzolente di immondizia e smog, illuminata solo da pochi lampioni malconci. Alessio tirò su il cappuccio della felpa e si strinse nel giubbotto di pelle, quindi si incamminò.

Era libero, finalmente. Libero!

Voleva molto bene a suo fratello e gliene avrebbe sempre voluto, ma non sarebbe mai riuscito a capire la sua ostinazione. Dopo tutto quel tempo, in fin dei conti, era chiaro che al suo problema non ci fosse rimedio. La sua era una condanna, una pena, e come tale avrebbe dovuto scontarla. E se solo l'ultimo del mese riceveva un condono, aveva più che diritto a un po' di svago, no?

Bando alle ricerche, bando alle pianificazioni, bando a vane speranze di miracoli! Per una volta, Alessio voleva essere un ragazzo come tutti gli altri. E che cosa facevano tutti gli altri ragazzi della sua età? Andavano a divertirsi, ovvio.

Così, salendo sul primo autobus in vista, Alessio Carracci si perse nel trambusto di Roma. Non aveva idea di quello che avrebbe fatto, ma una cosa era certa: nella notte di Halloween, in centro, non potevano scarseggiare festicciole interessanti.

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