Chapitre 57
Gran Premio d'Italia
Monza, 6 settembre 2020
Pierre's P.O.V.
In seguito alla morte di Anthoine, mi ero promesso che avrei ascoltato le sue parole, il suo “Dimostra loro che si sono sbagliati”, e che sarei riuscito a convincere la Red Bull a farmi ritornare. Avevo dato il massimo per riuscirci: mi ero allenato duramente, ero salito sul podio - il mio primo podio - e avevo gareggiato ogni volta come se fosse l'ultima. Ma non era bastato, non ero riuscito nel mio intento. E in quel sabato così soleggiato, in auto, mentre leggevo le notizie sul mio cellulare, ecco che mi apparve davanti agli occhi ciò che mi deluse maggiormente: Christian Horner ribadiva che per me non ci sarebbe stato nessun posto nel 2020, perché il loro intento era quello di supportare Alex Albon, ancora troppo inesperto e giovane. Mi sembrava un'assurdità, la più grande che io potessi mai leggere o sentire. I miei risultati erano migliori, era evidente a tutti, ma la Red Bull non riusciva ad ammettere lo sbaglio che aveva commesso. Lo so, l'incidente nei test era stato davvero orribile e non avrei potuto iniziare peggio il campionato, ma da parte della Scuderia non era arrivato nessun supporto e nessun incoraggiamento: mi sentivo solo, estremamente solo, ero sopraffatto dalla pressione. Da allora, però, ero cambiato, ero molto più maturo e non avevo più bisogno di sentirmi rassicurato: se avessi potuto avere un'altra possibilità, non l'avrei certamente sprecata. Avrei fatto qualsiasi cosa - davvero qualsiasi - per poter avere quel sedile accanto a Verstappen: volevo diventare campione del mondo, lottare con gli altri piloti con una monoposto dello stesso livello, se non addirittura superiore. Volevo correre per me e per il bambino più veloce della Francia.
Le qualifiche di quella settimana non erano andate proprio bene: solo una decima posizione, esattamente dietro ad Alex. Mi auguravo che almeno la gara fosse andata meglio. Era a Monza, in Italia, in quella che io ormai reputavo la mia seconda casa: non potevo sbagliare.
La mia partenza era stata pulita, così come la mia conduzione della gara. Niente di particolarmente entusiasmante era avvenuto nei primi giri, ma mai avrei immaginato che, a partire dal settimo giro, sarebbe accaduto davvero di tutto. I freni posteriori della monoposto di Sebastian erano esplosi, costringendolo ad andare dritto e colpire gli indicatori in polistirolo, per poi ritirarsi. Al ventunesimo giro, invece, Kevin era stato costretto a parcheggiare la propria Haas davanti all'entrata dei box, facendo così entrare in pista la Safety car e obbligando la FIA a chiudere la corsia dei box. Ciononostante, Lewis e Antonio erano comunque entrati per cambiare le gomme. Era stata una mossa strana, davvero non riuscivo a capire perché avessero compromesso così la loro gara. Era indubbio che sarebbero stati penalizzati. Ben presto la gara riprese e io mi trovavo in terza posizione, grazie al pit stop che avevo fatto al 19esimo giro, poco prima che fosse esposta la Safety. Charles era sesto, ma riuscii comunque a vedere il suo forte impatto contro le barriere. Cercai conferme, che mi furono date, per mia fortuna, subito. Era stato davvero un incidente terribile, ad alte velocità. La gara fu fermata e fummo tutti costretti a entrare nella corsia dei box. Decisi di uscire dalla monoposto e andai alla ricerca del monegasco. Lo vidi uscire dalla Medical car e mi avvicinai a lui.
«Mon ami, come va?». Gli posi la mano sulla spalla e lui mi sorrise.
«Solo un po' di dolore al collo, per il resto sto bene. Non preoccuparti». Cercò di tranquillizzarmi. «E così sei terzo, uh?». Cambiando argomento, mi diede un colpetto sul braccio e io ridacchiai.
«Così sembra». Feci spallucce.
«Vedi di portare a casa il podio, te lo meriti». Annuii, non del tutto sicuro. Charles capì immediatamente e, mettendo le mani sui suoi fianchi, mi guardò come per ammonirmi. «Stai facendo un magnifico lavoro, devi fare del tuo meglio. Intesi?».
«Intesi». Sorrisi.
«Ora è meglio che tu vada a concentrarti, manca poco e si riprenderà la gara». Lo salutai con un gesto della mano e ritornai vicino al mio muretto box. Franz mi si avvicinò.
«Lewis e Antonio hanno ricevuto uno stop and go di 10 secondi. Pierre, questa è la tua opportunità. Sfruttala».
«Non ho intenzione di sprecarla». Con una pacca sulla spalla, si allontanò per andare a parlare con gli altri ingegneri. Iniziai a indossare di nuovo la balaclava e il casco e rientrai nella monoposto. Uscimmo dalla pit lane e ci avviammo verso la griglia, per la seconda partenza. Io ero dietro Lewis, che aveva al suo fianco Lance. Presi un lungo sospiro e quando i semafori divennero verdi, partii subito, affiancando il pilota canadese e superandolo. Lewis subito rientrò ai box. Ero primo, per la prima volta da quando ero in Formula 1, ero primo. Dietro di me avevo Kimi Räikkönen, che, però, fu ben presto superato da Carlos. Lui sì che mi faceva paura, aveva una McLaren ed era estremamente veloce. La mia Alpha Tauri era molto più lenta, non avrebbe mai potuto avere la meglio. O almeno così credevo. Lo spagnolo iniziò a incrementare il suo ritmo, era davvero vicino a me, ma io non potevo farmi sfuggire quell'occasione. La possibilità di una vittoria, per chi guida una monoposto da metà griglia, è davvero rara: mi si stava presentando, se l'avessi lasciata sfuggire, me ne sarei pentito per il resto della mia esistenza.
Mancavano solo due giri, i due giri più lunghi che io abbia mai corso. Guardavo continuamente negli specchietti e dal box cercavano di caricarmi e di rassicurarmi. Cercai di non pensare a nulla e di concentrarmi unicamente sulla pista davanti a me. E quando tagliai il traguardo per primo, mi aprii subito in radio.
«Oh my God. What did we just do?». Esclamai.
«What did you do?». Mi rispose Hamelin.
«We won the fucking race! Yes! Oh my God. Oh my God, guys. We did it!». Urlai. «Oh my God! Yes!». Esultai, muovendo anche il pugno in gesto di vittoria.
«P1, Pierre, P1». Continuò Hamelin.
«Alpha Tauri, Honda, all the engineers, all the mechanics, everybody in Faenza, thanks to you, we... we did it. We did it! Yeah!». L'emozione era troppa, ma non ebbi il tempo di piangere. O almeno, non all'inizio. L'adrenalina in me era ancora molta, dovevo festeggiare, dovevo salutare tutti. Non appena scesi dalla monoposto, iniziai a saltare e corsi verso i meccanici per abbracciarli. Era soprattutto merito loro se ero riuscito a portare a casa quella vittoria. Charles fu il primo ad avvicinarsi per congratularsi, seguito da George, Lando e Lewis. Venne anche Sebastian. A sorprendermi fu Max, sapevo che avesse qualcosa in mente, ma lasciai perdere e accolsi le sue congratulazioni per non destare sospetti. In fondo, nessuno sapeva ciò che lui aveva fatto ad Ann. Durante le interviste, anche Lance e Carlos si avvicinarono a congratularsi. Negli occhi di quest'ultimo, però, potevo leggere la delusione di non essere riuscito a portare a casa la vittoria. Potevo capirlo, mi sarei sentito allo stesso identico modo se fosse accaduto a me. Quando salimmo sul podio per la premiazione e aprimmo lo spumante, dopo averlo bevuto, mi sedetti sul gradino più alto. Io, Pierre Gasly, ragazzo francese di 24 anni, avevo vinto il Gran Premio d'Italia. La mia prima vittoria, in Italia. Era un sogno. E fu proprio in quel momento che mi lasciai andare all'emozione. Piansi, non mi importava se qualcuno mi stesse riprendendo. Sentivo il bisogno di piangere, sfogare tutta la tensione che avevo in corpo. Carlos e Lance rimasero in piedi e cercarono di darmi a parlare, per farmi ridere. Ci riuscirono e io mi sentii finalmente in pace con me stesso. Quella vittoria mi aveva dato molta forza. Quando ci trovammo nuovamente nel paddock, mi avviai verso il box dell'Alpha Tauri. Mi cambiai, per fare le foto con il team. Mi giunse anche una chiamata da parte di Macron, a cui risposi con non poca emozione. Non ebbi neppure il tempo di attaccarla che mi chiamarono per le foto di rito. Mi fecero sedere sull'asfalto, con le gambe incrociate e il trofeo tra di esse.
«Non ho ancora chiamato mia mamma, chissà come sarà emozionata». Constatai e finalmente il fotografo mi diede il via libera per continuare le mie telefonate. Parlai dapprima con mia mamma, che stava piangendo per l'emozione. Mi disse di essere fiera di me e che sapeva che era solo questione di tempo prima che giungesse quella vittoria. Con lei c'erano anche mio padre e i miei fratelli, che si congratularono tutti con me. Avevo un sorriso a 32 denti, ero davvero al settimo cielo. Quando ci congedammo, provai a chiamare Ann, ma il cellulare era staccato. Era davvero strano da parte sua, non era mai successo. Provai a controllare se ci fossero suoi messaggi, ma nulla, di lei neanche l'ombra. Iniziai a camminare per il paddock con passo spedito alla ricerca di George: forse lui le aveva parlato e sapeva perché non mi rispondeva. Quasi come se mi avesse letto nel pensiero, il pilota della Williams spuntò davanti ai miei occhi. Alzai il volto, così da poterlo guardare negli occhi.
«Successo qualcosa?». Mi domandò con il suo solito sorriso.
«Hai per caso sentito Ann?». Alzò un sopracciglio.
«È la tua fidanzata, non la mia». Quelle sue parole mi fecero arrossire leggermente, anche perché io e Ann non eravamo effettivamente fidanzati.
«Non mi risponde al cellulare, è staccato, temo le sia accaduto qualcosa». Iniziai ad andare in iperventilazione e il britannico sistemò le sue mani sulle mie spalle.
«Sta’ calmo. Aveva un'importante chiamata con Susie Wolff. Forse le si è scaricato il cellulare e per questo ti risulta staccato. Vedrai che non appena si sarà liberata ti chiamerà». Una chiamata con Susie? Lei non me ne aveva parlato. Lo ringraziai di fretta, liquidandolo con estremo fastidio. Perché Ann parlava di più con lui che con me? Avrei dovuto sapere che aveva una chiamata con il suo team principal, visto che stavamo insieme. Invece, il suo migliore amico ne era a conoscenza e io no. Sentivo la gelosia crescere in me. Iniziai a camminare con lo sguardo rivolto verso il basso e non mi accorsi della persona che mi stava venendo incontro.
«Come mai sei nervoso? Hai ottenuto la tua prima vittoria e sei arrabbiato?». Mi domandò Charles, dopo avermi osservato con attenzione.
«Non è niente». Risposi secco.
«Non sarà mica perché Ann non ti risponde? Aveva una chiamata con Susie, per questo motivo ha il cellulare spento». Sbarrai gli occhi. Così anche il mio migliore amico lo sapeva e io no? Ciò non fece altro se non farmi innervosire ancora di più. «Perché sei diventato ancora più arrabbiato? Questo avrebbe dovuto rassicurarti». Disse confuso.
«Se non fosse che il mio migliore amico e il suo sapessero di questa chiamata, mentre io no». Charles si grattò la testa, piuttosto imbarazzato.
«Forse si sarà dimentic-». Fece per dire, ma lo fermai.
«Non può essersi dimenticata di dirlo a me. Evidentemente non voleva dirmelo. Forse vi ritiene più importanti di me». Mi allontanai da lui.
«Pierre!». Provò a chiamarmi.
«Ciao, Charles». Dissi semplicemente. Uscii dal paddock e mi avviai verso la mia auto. Vi entrai e, dopo averla fatta partire, iniziai a guidare verso casa. Ann era a Monaco. In un'altra occasione avrei guidato fino a casa sua, ma con la stanchezza che avevo addosso per la gara e a causa della condizione in cui riversavo, ritenetti saggio tornare a Milano. Il giorno seguente sarei partito per Monte-Carlo e avremmo discusso. Per fortuna il circuito non distava molto da casa mia, quindi ben presto mi ritrovai davanti al portone della mia abitazione. Una volta entrato andai a sedermi sul divano. Sistemai il volto tra le mani. Era possibile che mi stessi rovinando quel giorno tanto speciale per me? Sospirai e mi appoggiai allo schienale, buttando indietro la testa. Mi giunse un messaggio. Afferrai di fretta il cellulare, ma non appena vidi fosse solamente Charles, lo lanciai dall'altro lato del divano. Perché Ann non mi aveva avvisato della chiamata? Per quale motivo, invece, Charles e George lo sapevano? Avevo per caso fatto qualcosa che le aveva dato fastidio? Provai a pensare a tutto ciò che era avvenuto nei giorni precedenti, ma non trovai alcun gesto o alcuna parola che l'avesse potuta irritare. Si era forse stancata di me? Pensandoci, quella era l'unica possibilità.
Era proprio mentre avevo questi pensieri che qualcuno bussò. Mi alzai di scatto, non mi aspettavo visite. Cercai di guardare dallo spioncino, ma non c'erano nessuno. Decisi comunque di aprire la porta e dinanzi a me trovai l'ultima persona che aspettassi lì.
«Sorpresa!». Rimasi ad osservare Ann per un tempo indefinito, con un'espressione mista all'ancora presente nervosismo e allo stupore. Il suo sorriso cadde ben presto e iniziò a osservarmi seria. «Non credo tu sia tanto felice di vedermi». Disse, quasi sussurrando.
«Cosa ci fai qu- cioè, non eri a Monaco a fare una chiamata con Susie?». La guardai con un sopracciglio alzato.
«È come ho detto a George e Charles di risponderti qualora tu avessi chiesto loro per quale motivo non ti rispondessi al cellulare. Dalla tua espressione, però, posso evincere che tu non l'abbia presa bene». Il mio viso si rilassò e la feci accomodare.
«Non riuscivo a spiegarmi perché lo avessi detto a loro, ma a me no». Mi sorrise.
«Avrei dovuto farlo, sì, ma poi mi sarei dovuta congratulare tramite messaggio e volevo farlo da vicino. Ti dà fastidio se lo faccio ora?». Scossi in fretta la testa, facendola ridacchiare. Si avvicinò a me e avvolse le sue braccia attorno al mio collo. «Come ci si sente a essere il vincitore di un Gran premio?». Domandò. Sistemai le mie mani sui suoi fianchi.
«È una sensazione magnifica». Risposi, senza staccare il mio sguardo dal suo. Fece toccare le nostre fronti e sfiorare i nostri nasi.
«Congratulazione, chéri. Sei stato davvero straordinario e meriti ogni singolo istante di questa vittoria e ogni singolo pezzo di questo trofeo. Sono fiera di te». Le sorrisi. Feci scontrare le nostre labbra, senza dire nessuna parola. Iniziò ad accarezzarmi i capelli, mentre io infilai le mani sotto la sua maglietta, così da stringerle i fianchi. Approfondii il bacio, mordendole il labbro inferiore e facendo sfiorare le nostre lingue. Ann si allontanò leggermente da me, per riprendere ossigeno, e sistemò la testa sulla mia spalla. Appoggiai, d'istinto, la mia sulla sua.
«Avrei voluto averti sotto al podio». Dissi, dopo diversi attimi di silenzio.
«La prossima volta sarò la prima della fila». Rispose subito.
«Credi ci sarà una prossima volta?». Domandai, insicuro.
«Ne sono convinta e io sarò proprio lì a festeggiarti».
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